Lo spunto del sabato: “Se Venezia muore” un libro di Salvatore Settis

29 Ago 2015
29 Agosto 2015

 “In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato; quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei; o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi”.

L’autore si chiede se le città abbiano un’anima e giunge ad affermare che: “proviamo a pensare che la città abbia un corpo (fatto di mura, edifici, di piazze e strade..) ma anche un’anima. E che l’anima non siano solo i suoi abitanti, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che ne hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro”. L’anima della città può essere chiamata la città invisibile e da vita alla città storica.  La città storica non va imbalsamata anzi va tenuta in vita, una vita che ne “rispetti il codice genetico, che ne favorisca una crescita armonica e non la distruzione violenta, che vi innesti delicatamente nuove architetture o ricomponga le antiche, e non ne violenti brutalmente la forma e l’anima”. Perché sia possibile per le nostre città il discorso della crescita è necessario riflettere sul loro DNA, ma anche su un’adeguata poetica del riuso.

In questo libro Salvatore Settis eleva Venezia a supremo esempio delle insidie che colpiscono le città storiche: la resa ad una falsa modernità; lo spopolamento; l’oblio di sé; la corsa sfrenata verso il business e verso il branding. Tutto questo sta portando Venezia, “la città fra le città” (Lefebvre), e le altre città storiche alla “morte”, dice l'autore.

In questo scenario s’inserisce la figura dell’architetto, ritenuto il responsabile dell’“omicidio” della citta storica. Ci si chiede: chi la circonda di periferie senz’anima, chi sventra palazzi storici per lottizzarne gli spazi, chi mortifica cattedrali con arroganti grattacieli, chi propugna piani casa per sopraelevare i caseggiati con incongrue escrescenze? Certamente i titolari della politica, i costruttori, le mafie ma anche, per l’appunto, gli architetti gli ingegneri i geometri e gli urbanisti. Pensare la città non è un mero esercizio matematico, ma è un esercizio della democrazia e della politica che richiede una “conoscenza del presente, ma anche uno sguardo lungo sul futuro e sul passato”. Chi progetta nel proprio studio sfogliando riviste di architettura senza pensare alla comunità e cui gli edifici sono destinati creerà solo edifici e città astratte. [Gli architetti] devono mettere al primo posto non il proprio individualismo formalizzante ma, la propria consapevolezza di volersi rendere utili alla gente mettendo al loro servizio la propria arte ed esperienza”. (Lina Bo Bardi).

 Un libro che vuole essere una guida per riscoprire la funzione “sociale” dell’architettura e degli architetti, ma anche per ricordare ai non addetti ai lavori che le nostre città sono il risultato di quello che siamo stati, dei valori e dei principi che non dobbiamo sentire come un’eredità scomoda, ma come “uno straordinario dono per vivere il presente e una straordinaria dote per costruire e garantire il futuro”.

 Stefano Peripoli

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