Espropriazione e iter ablatorio

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Nella sentenza n. 913/2014 i Giudici veneti si soffermano sull’iter della procedura espropriativa: “Ciò precisato, deve a questo punto verificarsi se sussistono i presupposti per il risarcimento del danno, se cioè le aree di proprietà dei ricorrenti siano effettivamente state illegittimamente occupate dal Comune ed altrettanto illegittimamente asservite alla realizzazione di dell’opera pubblica.

La risposta, alla luce della consecuzione temporale degli atti della procedura espropriativa, non può che essere affermativa.

3.1.- Premesso, invero, che la dichiarazione della pubblica utilità è l'atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato e costituisce al tempo stesso origine funzionale della successiva attività giuridica e materiale di utilizzazione dello stesso per scopi pubblici previamente individuati, il decreto di esproprio deve essere emanato entro il termine di scadenza di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (art. 13, u.c. della legge n. 2359 del 1865), termine che può essere prorogato in caso di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volontà dei concessionari (art. 13 cit., II comma): nel caso di specie, entro cinque anni dalla data di esecutività della DGC 17.11.1988 n. 4244 (cfr. la delibera stessa) o, quanto meno – versandosi in materia di “realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (in tali categorie è certamente riconducibile la costruzione dei previsti tratti stradali) - dalla data di immissione nel possesso, atteso che nella specie trova applicazione la specifica disciplina recata dalla legge n. 865/1971 (cfr. gli artt. 9 e 20, vigenti all’epoca dei fatti) che, appunto, aggancia espressamente la conclusione del procedimento ablatorio al diverso termine di adozione dell’atto che verbalizza l’immissione in possesso dell’immobile oggetto di occupazione (cfr. CdS, IV, 4.2.2014 n. 495).

3.2.- Il termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del provvedimento che pronuncia l’esproprio, assume i connotati della perentorietà, di guisa che l’inutile decorso del termine “de quo” comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della PA.

Orbene, nel caso di specie, ancorchè si computi il termine di cinque anni dall’immissione del Comune nel possesso dell’area di cui al Fg. 263, mapp. 51/p, avvenuta in data 13.6.1989 e si tenga conto che il predetto termine è stato prorogato (ex lege, giusta l’art. 22 della legge n. 158/1991) per il tempo di due anni, ebbene, anche così il decreto di esproprio risulta adottato (il 15.10.1996) oltre il termine complessivo di sette anni dal “dies a quo” (13.6.1989).

Con conseguente perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità e conseguente patologia dell’intero procedimento”.

 Chiarito ciò i Giudici giungono ad affermare che, se questo iter procedimentale non viene rispettato, non vi può esservi nemmeno la c.d. occupazione acquisitiva dell’area perché: “3.3.- Allo stato, dunque, va osservato che i ricorrenti conservano tutt’ora la titolarità delle predette aree in quanto la perdurante occupazione delle stesse, pur asservite alla realizzata opera pubblica, continua ad essere “sine titulo” e si caratterizza come fatto illecito permanente (cfr. Cass. civ., I, 21.6.2010 n. 14940).

In assenza, infatti, di un formale atto traslativo di natura privatistica ovvero di un atto legittimo di natura ablatoria (la c.d. “acquisizione sanante” prevista dall’art. 42-bis del DPR n. 327/2001), l’Amministrazione non può acquistare a titolo originario la proprietà di un’area altrui, pur quando su di essa abbia realizzato in tutto o in parte un’opera pubblica: una tale acquisizione, invero, contrasterebbe palesemente con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo che ha una diretta rilevanza nell’ordinamento interno, poiché per l’art. 117, I comma della Costituzione le leggi devono rispettare i "vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario". Principio, questo, ulteriormente rafforzato dalla nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea (modificato dal Trattato di Lisbona) che prevede che "l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali" (II comma) e che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali" (III comma).

Donde l’assoluta impossibilità di ricorso alla “occupazione acquisitiva” o ad istituti analoghi.

Nel caso, pertanto, in cui l’Amministrazione decidesse di restituire le aree, anziché di acquisirle (negozialmente o autoritativamente) pagandone il corrispettivo, non farebbe altro che far cessare l’illecito permanente causativo del danno, fermo restando l’obbligo del risarcimento per il periodo di occupazione abusiva sino al momento della restituzione.

In mancanza, dunque, di un apposito atto negoziale o autoritativo la condotta dell'ente pubblico occupante continua a mantenere i connotati di illiceità in quanto ingiustificatamente lesiva del diritto di proprietà che permane in capo ai privati proprietari i quali, entro il termine generale dell'usucapione ventennale, possono agire per la restituzione del bene o per la cessione bonaria”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

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