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S.O.S. tecnico: la confusione fiscale in materia di cessione di aree al comune

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa richiesta dell'arch.  Emanuela Volta, che sottoponiamo ai lettori:

Buongiorno, mi permetto di inviare un riferimento a complemento di un tema che avevate già trattato qualche giorno fa, cioè lo Studio del Notariato sul trattamento fiscale dopo il D.Lgs. n. 23/2011 della cessione “gratuita” di aree e di opere di urbanizzazione al Comune.

Ci troviamo in questo momento, e in particolare dal gennaio 2014, a fare i conti con delle nuove regole che generano incertezze ai comuni, a noi professionisti e anche ai privati che decidono di affrontare la strada della cessione di aree al comune sottoforma di perequazione.

Negli ultimi mesi siamo stati costretti, come urbanisti e pianificatori che utilizzano gli accordi all'interno degli strumenti di pianificazione, a confrontarci con tematiche fiscali di recente modifica.

In alcuni accordi il plusvalore calcolato come "beneficio pubblico" fondativo degli accordi pubblico/privato, è stato tradotto in cessione di aree di diversa natura (standard, edificabili per interventi pubblici, fasce di terreno per allargamenti stradali, aree da destinare a piste ciclabili o a viabilità....
E qui ci addentriamo in una selva oscura:
quanto si paga di tassa di registro? E' cessione onerosa? Chi paga? Il privato o l'Ente Territoriale?
Su quale valore dell'area si calcola l'imposta? Il valore ante trasformazione? Il valore delle aree edificabili ai fini imu utilizzato dai comuni per il calcolo delle perequazioni? Il valore dell'area trasformata, quindi il valore di mercato? Il famoso 9% del valore cambia tantissimo, e diventa discriminante tra fare e non fare l'accordo! Abbiamo consultato avvocati, notai, e da ultime le Agenzie delle Entrate. Non una, ma tre. Mi soffermo solo sulle risposte di queste ultime: ovviamente si tratta di tre risposte completamente diverse.
Ci è stata citata lo Studio del Notariato, ma anche una circolare dell'Agenzia delle Entrate, che mi pare di non aver visto nominata sul sito. Ve la indico, magari qualcuno che legge può dare qualche informazione/interpretazione di utilità per tutti quelli che si trovano ad affrontare questo tema.
Pensavo di dover/poter pensare alle strategie di pianificazione, e perché no? a quelle dell'urbanistica creativa che ci costringe oggi a vivere di giurisprudenza...invece facciamo pure i fiscalisti.
La circolare ha come oggetto "Modifiche alla tassazione applicabile, ai fini dell’imposta di
registro, ipotecaria e catastale, agli atti di trasferimento o di costituzione a titolo oneroso di diritti reali immobiliari - Articolo
10 del D.lgs.14 marzo 2011, n. 23", ed è la numero 2/E del 21 febbraio 2014. Grazie per l'attenzione, chissà che si riesca a illuminare "la diritta via smarrita".

CIR2E+DEL+21+02+14+(2

TAR Veneto:come si interpreta la norma del PTRC in materia di salvaguardia dell’Architettura del 900

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 704 del 2014. 

Scrive il TAR: "....Preliminarmente ritiene il Collegio che sia fondata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso formulata dalla difesa della Regione.

In particolare, la disciplina normativa delle “Architetture del Novecento”, fra le quali viene elencata la “Manifattura Tabacchi”, è contenuta nell’art. 62 delle n.t.a. del PTRC, il cui comma 3, per quanto qui interessa, stabilisce che: “I Comuni in sede di redazione dei propri strumenti di pianificazione provvedono ad implementare l’elenco (degli edifici e sistemi del Novecento) mediante un tavolo di concertazione a regia regionale nonché ad attivare specifiche e differenziate politiche locali di salvaguardia, valorizzazione e recupero, che valorizzino gli elementi architettonici, gli apparati decorativi e i caratteri insediativi”. Mentre al successivo comma 4 si adotta una misura di salvaguardia del seguente tenore: “fino all’adeguamento degli strumenti di pianificazione comunale per gli edifici e sistemi di cui al comma 1, fatti salvi quelli già disciplinati con finalità di salvaguardia dalla vigente pianificazione comunale, è vietata la demolizione e l’alterazione significativa dei valori architettonici, costruttivi e tipologici”.

Ciò premesso, la difesa della Regione ha correttamente osservato che tale ultima norma (comma 4), diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non pregiudica, di per sé, la realizzazione dei progetti di recupero e valorizzazione già previsti dagli strumenti di pianificazione comunale, in quanto tali progetti siano finalizzati alla tutela e alla salvaguardia degli edifici rientranti nelle “Architetture del Novecento”.

Ed infatti, ha evidenziato la resistente, l’individuazione, da parte della Regione, in sede di variante al PTRC, degli edifici e/o sistemi di edifici rientranti nelle “Architetture del Novecento”, è diretta ad identificare manufatti rilevanti per la ricchezza di relazioni che instaurano con i loro contesti, per il rapporto con il territorio, potendo comprendere sia fabbricati sottoposti a vincolo monumentale o urbanistico, da tutelare, recuperare e conservare, sia fabbricati privi di valore storico-architettonico e quindi da considerare anche ai fini di una possibile demolizione in funzione della salvaguardia, valorizzazione e riconversione dell’intero complesso individuato.

Di qui, in ragione della mancanza di una lesione attuale degli interessi della ricorrente, la dedotta inammissibilità del ricorso per difetto d’interesse.

Ed invero le osservazioni della difesa regionale appena riportate, e la valutazione, anticipata da questo Collegio nell’ordinanza cautelare, per cui le previsioni del piano relative alle “Architetture del 900” abbiano caratteri di generalità ed astrattezza, trovano conferma in alcuni passaggi della relazione illustrativa di cui all’allegato B della delibera n. 427 del 10 aprile 2013.

Infatti, da tale relazione ne emerge che lo scopo della variante, con riferimento alle “Architetture del 900”, è quella d’individuare solo delle linee generali per la salvaguardia e la valorizzazione di alcuni manufatti del Novecento, manufatti fino ad ora sprovvisti di alcuna tutela specifica, sebbene dotati di un certo valore storico e architettonico che si vuole ora riconoscere. In particolare, in tale relazione si sottolinea più volte che l’obiettivo del progetto non è quello di tutelare singoli elementi di pregio architettonico e urbanistico, ma di mirare “al riconoscimento del ruolo da essi rivestito nel conferire qualità e identità al territorio veneto contemporaneo”. Quindi tali manufatti e sistemi di edifici sono tutelati non tanto per il loro pregio intrinseco, quanto “per la ricchezza di relazioni che instaurano con i loro contesti”, ed in quanto, nel loro complesso o nell’interrelazione con il territorio, generano “veri e propri nuovi paesaggi”.

Ancora si evidenzia nella relazione illustrativa che “l’insieme delle schedature realizzate costituisce non un punto di arrivo ma piuttosto un punto di partenza. Questa prima selezione di manufatti andrà infatti integrata dagli enti locali territoriali, che potranno fare ulteriori segnalazioni e proporre politiche articolate mirate alla salvaguardia e valorizzazione”. Inoltre, anche la pianificazione paesaggistica regionale d’Ambito “sarà l’occasione per una definizione maggiormente dettagliata dei progetti individuati”.

D’altro canto, si è detto, come nel comma 3 dell’art. 62 delle n.t.a. del PTRC, si rimetta ai Comuni il compito di “attivare specifiche e differenziate politiche locali di salvaguardia, valorizzazione e recupero di tali manufatti”.

Pertanto, applicando tali concetti e tali previsioni normative alla fattispecie in esame, ne deriva che:

a) il complesso industriale della “Manifattura Tabacchi” non è oggetto, da parte della delibera impugnata, di una diretta e specifica disciplina delle forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione, rientrando, invece, nell’ambito di un progetto, non ancora definito, di tutela del patrimonio novecentesco, al quale sono chiamati a partecipare, sin dalla fase formativa, anche i Comuni; ed essendo, poi, la modulazione delle concrete politiche di salvaguardia e valorizzazione e la definizione di progetti maggiormente dettagliati, rimessa alla discrezionalità di quest’ultimi o dei Piani Paesaggistici d’Ambito;

b) in ogni caso, oggetto di tale tutela non sono individualmente i singoli edifici che compongono la “Manifattura Tabacchi”, ed i magazzini di stoccaggio in particolare, ma questa genericamente nel suo insieme, per la sua capacità di conferire “qualità e identità al territorio veneto contemporaneo”, e di interagire con il contesto urbano di riferimento, generando un “nuovo paesaggio”.

Coerentemente con tale assetto normativo e progettuale, la misura di salvaguardia di cui al comma 4 dell’art. 62 delle n.t.a. della delibera impugnata, a differenza delle tipiche misure di salvaguardia urbanistiche, vieta la demolizione e l’alterazione significativa degli edifici e dei sistemi di edifici identificati “fino all’adeguamento degli strumenti di pianificazione comunale”.

Ciò vuol dire che tale misura di salvaguardia, anziché imporre al Comune l’obbligo di soprassedere al rilascio di permessi di costruire in contrasto con il piano paesaggistico e fino all’approvazione del medesimo, rimanda sin da subito all’amministrazione locale, sia la definizione di una disciplina di dettaglio, con ampia discrezionalità circa la modulazione del grado e dell’intensità della tutela degli edifici e dei sistemi di edifici, sia la successiva attività di valutazione in ordine alla concreta compatibilità di ciascun progetto edilizio con gli obiettivi di valorizzazione del patrimonio novecentesco interessato.

Pertanto, nel caso di specie, allo stato, nulla esclude che il Comune, sulla base della successiva evoluzione procedimentale della fase attuativa della delibera regionale e nell’esercizio della propria residua discrezionalità, possa alla fine giungere a ritenere - in sintonia con gli interessi della ricorrente - compatibile, con gli obiettivi di conservazione e di valorizzazione del complesso industriale della “Manifattura Tabacchi”, anche la demolizione dei magazzini di stoccaggio, se considerati, quest’ultimi, di per sé stessi privi di valore storico-architettonico ed ininfluenti sul valore identitario del complesso industriale.

Ne deriva che la delibera della giunta regionale in oggetto, al momento, non è di ostacolo alla realizzazione delle previsioni del P.I. e del progetto presentato dalla ricorrente, e non essendo quindi attualmente lesiva, potrà essere eventualmente impugnata, quale atto presupposto, solo in esito all’applicazione che di essa ne faccia il Comune nella fase attuativa.

In conclusione, il ricorso deve essere giudicato inammissibile per difetto d’interesse...".

geom. Daniele Iselle

sentenza TAR Veneto n. 704 del 2014

Il vincolo cimiteriale prevale sul PRG comunale

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 12 maggio 2014 n. 2405, si occupa del vincolo cimiteriale di fonte statale affermando che esso prevale sugli strumenti urbanistici e sulle cartografie comunali che non lo prevedono e/o che lo disciplinano in maniera difforme: “deve rammentarsi che il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 -come modificato dapprima dall’art. 4 della legge 30 marzo 2001, n. 130 e quindi dall’art. 28, comma 1, lettera a), della legge 1° agosto 2002, n. 166- ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale, secondo giurisprudenza granitica (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5571, 20 luglio 2011, n. 4403, 16 marzo 2011, n. 1645, 27 ottobre 2009, n. 6547, 8 ottobre 2007, n. 5210; Sez. V, 14 settembre 2010, n. 6671, 8 settembre 2008, n. 4526).

Ne consegue che il rilevato contrasto con previsioni di P.R.G., secondo i rilievi cartografici più o meno certi o opinabili invocati dalla società appellante, non può implicare l'illegittimità del progetto di ampliamento cimiteriale, quando non sia contestato che il suolo appartenente alla società appellante ricada nella fascia assoggettata al vincolo cimiteriale, di tal che, e in ogni caso, risulti affatto prevalente il vincolo legale, e si ponga non già esigenza di una variante urbanistica ma, semmai, di adeguamento delle previsioni grafiche se e in quanto erronee, confuse, contrastanti con il sovraordinato limite legale”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2405 del 2014

All’interno di un comune se il privato invia una istanza a un organo incompetente questi deve girarla a quello competente?

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

La risposta a tale interrogativo sembra essere positiva solamente se si estendono in via generale i principi desumibili sia dall’art. 6, c. 2 del D.P.R. n. 18472006 (dettato in materia di accesso ai documenti amministrativi) secondo cui: “La richiesta formale presentata ad amministrazione diversa da quella nei cui confronti va esercitato il diritto di accesso è dalla stessa immediatamente trasmessa a quella competente. Di tale trasmissione è data comunicazione all'interessato” sia dall’art. 2, c. 3 del D.P.R. n. 1199/1971 (dettato in materia di ricorso gerarchico) il quale prevede che: “I ricorsi rivolti, nel termine prescritto, a organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione, non sono soggetti a dichiarazione di irricevibilità e i ricorsi stessi sono trasmessi d'ufficio all'organo competente”.

Sul punto, però, non c’è una risposta certa poiché manca una chiara disposizione legislativa.

Tale principio, tuttavia, sembra essere stato già accolto dall’Amministrazione tributaria. In realtà, in questo caso, c’è una norma specifica che prevede ciò: l’art.5 del D.M. n. 37/1997 stabilisce infatti che: “Le eventuali richieste di annullamento o di rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento avanzate dai contribuenti sono indirizzate agli uffici di cui all'articolo 1; in caso di invio di richiesta ad ufficio incompetente, questo è tenuto a trasmetterla all'ufficio competente, dandone comunicazione al contribuente”.

Alla luce di ciò la giurisprudenza tributaria è giunta ad affermare che vi è un obbligo - almeno per questi enti - di trasmettere le istanza dei privati all’organo competente: “Non osta, del resto, a tale conclusione, la necessità del controllo sulla correttezza del rimborso (su cui nel caso di specie non si fa nessuna questione), tenuto conto del dovere di cooperazione esistente tra gli uffici e dell'obbligo dell'Ufficio finanziario, che riceva atti ritenuti appartenenti alla competenza di altro Ufficio, di inoltrarli a quello reputato competente, in considerazione del principio, da ultimo affermato da Cass. n. 6627 del 2013, secondo cui, per effetto delle norme sul procedimento amministrativo, di cui alla L. n. 241 del 1990, e del principio di buona fede ed affidamento del contribuente di cui alla citata L. n. 212 del 2000, art. 10, "in difetto di trasmissione dell'istanza... all'organo ritenuto competente o di comunicazione al contribuente da parte dell'Ufficio e nell'inerzia dell'Amministrazione finanziaria, il contribuente non ha ragione di dubitare della piena formazione del silenzio-rifiuto e, pertanto, ricorre l'ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. g)" con la possibilità di impugnare il diniego davanti al giudice tributario” (Cass. civ., sez. trib., 19.12.2013, n. 28398), nonché “la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che la presentazione dell'istanza ad ufficio diverso, e quindi territorialmente incompetente, osti alla formazione del provvedimento negativo, anche nella forma del silenzio - rifiuto, e conseguentemente determini l'inammissibilità del ricorso presentato alla commissione tributaria per difetto di provvedimento impugnabile; improponibilità rilevabile d'ufficio dal giudice anche in sede di gravame, salvo che si sia già fermato sul punto un giudicato interno (v. ex plurimis Cass. N. 13194 del 16/07/2004; n. 23701 del 15/11/2007; n. 9095 del 2002; Sezioni Un. N. 11217 del 1997). Ritiene però il Collegio che simile drastica conclusione, che viene a penalizzare un errore meramente formale del contribuente, debba essere rivisitata alla luce dei principi di cooperazione, collaborazione e buona fede che, in base alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, devono improntare i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente.

Sulla scorta di simili principi questa sezione ha già riconosciuto che l'istanza di rimborso presentata ad un ufficio dell'amministrazione finanziaria, ancorchè incompetente funzionalmente o territorialmente a provvedere sulla medesima, è, atto idoneo ad impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38, (Cass. 6 maggio 2005, n. 9407; Cass. N. 14212 del 28 luglio 2004). Ha però soggiunto che tale istanza - rivolta ad organo incompetente - non sarebbe invece idonea a determinare la formazione di un provvedimento di diniego nella forma del silenzio - rifiuto, e renderebbe conseguentemente inammissibile il ricorso al giudice tributario; quindi il contribuente dovrebbe, entro il termine prescrizionale di cui all'art. 2967 c.c., rinnovare l'istanza rivolgendola all'organo competente. Il Collegio ritiene che la coerenza del sistema imponga un ulteriore passo avanti e dunque di riconoscere che l'ufficio non competente che riceva un'istanza di rimborso è tenuto a trasmettere l'istanza all'ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa amministrazione (cfr. anche la L. 18 marzo 1968, n. 249, art. 5), restando configurabile, in difetto, un silenzio - rifiuto del rimborso medesimo, impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie (Cass. 8 agosto 1988 n. 4878), e ciò sia perchè la domanda di rimborso non è rivolta ad un organo estraneo all'amministrazione finanziaria, sia perchè, in tema di rimborso, l'ordinamento impone una dovuta costante collaborazione organi (arg. D.P.R. n. 602 cit., ex art. 38, comma 3). La soluzione accolta appare, infine, conforme al principio più volte affermato da questa Corte e secondo cui le leggi devono essere interpretate alla luce delle esigenze di celerità processuale e di sollecita definizione dei diritti delle parti di cui all'art. 11 Cost., (cfr. le sentenze delle Sezioni Unite n. 24883 del 9 ottobre 2008 e n. 4109 del 22 febbraio 2007); appare infatti inutilmente defatigatorio imporre ad |un contribuente, il cui diritto non è venuto meno, di presentare una seconda istanza ed instaurare un secondo giudizio, senza che ciò risponda ad alcuna esigenza sostanziale, dal momento che l'amministrazione ha resistendo nel primo giudizio, manifestato la inequivocabile decisione di non procedere al rimborso” ed ancora che: “Al riguardo rileva che la giurisprudenza tributaria ha sancito l'applicazione ai casi di istanza e/o notifiche presentata ad organi diversi della stesa Amministrazione dei principi ex art 5 della l. 18 marzo 1968 n. 249 che prevedono la trasmissione d'ufficio dell'atto all'organo competente (C.T.C., sez XXVII, sent. n. 2693 del 5 aprile 1992 e sez. IV, sent. n. 4390 del 8 luglio 1992 - sez. XXIII sent. n. 3475 del 9 maggio 1990 e sez. XXV, sent. n. 5747 del 15 luglio 1987). L'equivalenza di un'istanza e/o della notifica di un atto indirizzato ad Ufficio Finanziario anziché ad un altro (e nel caso specifico alla Direzione Compartimentale - ufficio superiore) non solo è stata riconosciuta dalla magistratura tributaria (C.T.C., Sez. VII, sent. 3 gennaio 1992, n. 22; Sez. XXVII, sent. 5 aprile 1991, n. 2691; sez. XII, sent. 4 aprile 1989, n. 2451), ma anche dal Ministero delle Finanze che, con circolare 23 dicembre 1980, n. 38/15/5516, ha autorizzato gli Uffici periferici a trasmettersi le istanze e/o gli atti erroneamente notificati” (Comm. Trib. Reg. Bari, sez. XV, 26.04.2004, n. 7).

Secondo voi queste conclusioni possono valere anche per le altre Pubbliche Amministrazioni? Io riterrei di sì.

dott. Matteo Acquasaliente

Cass. civ. sez. trib. n. 28398 del 2014

Il confronto concorrenziale si applica anche alle concessioni di servizi

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 14 maggio 2014 n. 633, si occupa della concessione dei servizi ex art. 30 del D. Lgs. n. 163/2006 ribadendo che i principi comunitari di non discriminazione, parità di trattamento, pubblicità e trasparenza impongono alle Amministrazione di utilizzare delle procedure concorsuali anche per la scelta del concessionario. Solamente in presenza di specifiche ed motivate esigenze, infatti, la Pubblica Amministrazione può eccezionalmente derogare al confronto concorrenziale: “1.- Ai sensi della richiamata norma, infatti, nelle gare indette per la concessione di servizi la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato 25 marzo 1957 e dei principi generali relativi ai contratti pubblici (e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità), previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

Le concessioni amministrative sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici proprio per il fatto che, dal punto di vista della tutela della concorrenza, esse hanno la stessa incidenza sul mercato degli appalti, visto che il concessionario ricava un’utilità sfruttando economicamente servizi o beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata. E poiché i principi comunitari ostano a normative o prassi amministrative che, attraverso un’assegnazione non competitiva delle concessioni, siano idonee a provocare un’alterazione delle ordinarie dinamiche di mercato, l’art. 30 del DLgs n. 163/2006 impone che l’affidamento delle concessioni (di servizi) sia preceduto da un confronto concorrenziale fra i possibili aspiranti.

Ciò stante, dunque, è pacifico che la scelta del concessionario debba essere conseguente ad una procedura competitiva e concorrenziale (ispirata ai principi dettati dal Trattato istitutivo dell'Unione Europea), e non a caso l'art. 2, I comma del codice dei contratti prevede che l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza e che l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nello stesso codice.

In tale quadro normativo, per effetto del quale anche la disciplina delle procedure per l'affidamento di concessioni di servizi deve essere conforme ai principi che regolamentano in tutta l'Unione Europea l'assegnazione di commesse pubbliche, si inseriscono con portata indubitabilmente applicativa ad ogni figura di affidamento – lo si annota per completezza - le disposizioni recate dagli artt. 41 e 42 del codice dei contratti, alla stregua delle quali, ancorchè non costituiscano per la stazione appaltante un vincolo diretto, le determinazioni in materia di requisiti soggettivi di partecipazione alle gare non devono essere illogiche, arbitrarie, inutili o superflue e devono essere rispettose del "principio di proporzionalità", il quale esige che ogni requisito individuato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti. Pertanto, il concreto esercizio del potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal pubblico incanto e deve rispettare i principi del codice dei contratti, con la conseguenza che nella scelta dei requisiti di partecipazione il ricordato principio di non discriminazione impone che la stazione appaltante deve ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per l'esercizio dell'attività economica e l'intero impianto delle prescrizioni di gara non deve costituire, dunque, una violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione e trasparenza di cui al citato art. 2, I comma del codice.

2.- È ben vero che ai sensi dell’art. 57, II comma, lett. b) le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara qualora “per ragioni di natura tecnica…..il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato”: ma è altresì vero che di ciò esse devono dar conto con adeguata motivazione nella determina a contrarre e, altresì, individuano, se possibile, “gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. Gli operatori economici selezionati vengono contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta”.

Trattasi, infatti, di procedura che, derogando all'ordinario obbligo dell'Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale, riveste carattere di eccezionalità e richiede un particolare rigore nella individuazione ed apprezzamento dei presupposti che possono legittimarne il ricorso (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 13 gennaio 2005 n. 84), di cui, peraltro, deve essere data adeguata motivazione nella deliberazione o determinazione a contrarre (art. 57, I comma), in modo da "scongiurare ogni possibilità che l'amministrazione utilizzi situazioni genericamente affermate, come un "commodus discessus" dall'obbligo di esperire una pubblica procedura di selezione che è la sola con carattere di oggettività e trasparenza. In tali ambiti, l'obbligo motivazionale non deve atteggiarsi a mera estrinsecazione di un apparato preconfezionato al solo scopo di giustificare le scelte discrezionalmente operate dall'Amministrazione, ma deve oggettivamente offrire l'indicazione dei pertinenti presupposti legittimanti; e, con essi, della presenza di un nesso di necessaria implicazione causale, tale da imporre il ricorso all'affidamento diretto" (cfr. T.A.R. Lazio Roma, I, 18 febbraio 2009, n. 1656).

3.- Precisato, dunque, che la procedura di evidenza pubblica costituisce un indispensabile presidio a garanzia del corretto dispiegarsi della libertà di concorrenza e della trasparenza dell'operato delle Amministrazioni, elementari e indefettibili canoni di legalità (positivizzati, peraltro, nell’art. 57 del codice) impongono alla Pubblica Amministrazione - quando sussistano i presupposti per ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato, i servizi di cui ha bisogno per il suo funzionamento - di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità della propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire l'incarico.

Orbene, nel caso di specie non soltanto l’Amministrazione ha omesso qualsiasi motivazione in merito alla pretermissione della procedura concorsuale, ma nemmeno appaiono sussistenti i presupposti previsti dalla norma per il ricorso alla trattativa privata, giacchè l’aggiudicataria non agisce in regime di monopolio e, comunque, non presenta caratteristiche esclusive con riferimento all’esercizio dell’attività oggetto della concessione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 633 del 2014

Distanze e art. 2-bis del DPR 380/2001: la posizione della Corte Costituzionale sul riparto di competenza tra Stato e Regioni

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza della Corte Costituzionale n.  134 del 2014 del 19 maggio 2014: "...3.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

La disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 6 del 2013, n. 114 del 2012, n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Deve però essere precisato che «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, [sicché] la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Dunque, se, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella competenza legislativa statale esclusiva, alle Regioni è comunque consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale, anche se unicamente a condizione che tale deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.

Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005). Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza – statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» –, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».

In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013).

Tale principio è stato sostanzialmente recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

La norma regionale impugnata dev’essere, dunque, scrutinata alla luce dei suesposti princìpi. Essa s’inserisce in un elenco di varianti ai piani vigenti alla data di entrata in vigore della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013, che, nel quadro di una normativa transitoria applicabile nelle aree industriali lucane, è previsto siano adottate e approvate dal consiglio di amministrazione del Consorzio territorialmente competente, in deroga alla normale procedura regolata dai commi precedenti dello stesso art. 29, «anche su istanza degli operatori economici insediati o che intendano insediarsi nell’area, […] previo espletamento delle procedure di partecipazione per osservazione di cui all’art. 9, comma 2, della legge regionale 11 agosto 1999, n. 23».

Le varianti di cui alla disposizione regionale denunciata attengono, dunque, a strumenti urbanistici mirati (come i piani di area di sviluppo industriale), i quali producono, a norma dell’art. 51, sesto comma, del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno), «gli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150». Tanto determina, per i Comuni ricadenti nell’ambito del piano, l’obbligo di adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici [art. 6 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica)].

Conseguentemente, ricorre nella specie quella finalizzazione urbanistica dell’intervento regionale, intesa alla costruzione di un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, che costituisce l’estrinsecazione della relativa competenza legislativa regionale.

Peraltro, venendo in rilievo una competenza concorrente riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, non v’è dubbio che debbano essere comunque osservati i principi della legislazione statale quali «si ricavano dall’art. 873 cod. civ. e dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 230 del 2005).

Quindi, seppure il regime delle distanze ha la sua prima collocazione nel codice civile, la stessa disciplina ivi contenuta è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968, costituente un corpo unico con la regolazione codicistica.

Per tali ragioni d’ordine sistematico, l’esplicito richiamo al codice civile contenuto nell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 deve essere inteso come riferito all’intera disciplina civilistica di cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e fondamentale.

Così interpretata, la disposizione regionale censurata risulta pienamente rispettosa della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica dei rapporti interprivati, appunto perché essa impone il rispetto del codice civile e di tutte le disposizioni integrative dettate in tema di distanze nell’ambito dell’ordinamento civile, comprese quelle di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968. ..."

Alla luce di tale orientamento, come va interpretato l'art. 9, comma 8 bis. della L.R. Veneta 14/2009, aggiunto dal comma 13, art. 10, legge regionale 29 novembre 2013, n. 32?

 "... Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2 bis del DPR n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente...

geom. Daniele Iselle

sentenza Corte Costituzionale 134 del 2014

Anche una pavimentazione in calcestruzzo può non essere sanabile dal punto di vista paesaggistico ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "7. Per quanto attiene il ricorso presentato con motivi aggiunti avverso il diniego di permesso in sanatoria va rilevato che a parere dei ricorrenti la Soprintendenza, nell’imporre la rimozione della pavimentazione in calcestruzzo, avrebbe espresso una motivazione contraddittoria rispetto al precedente parere del 02 febbraio 2011.

7.1 Dette eccezioni non possono essere condivise. Dalla lettura del parere sopra ricordato emerge come la Soprintendenza abbia ritenuto che la pavimentazione in calcestruzzo, proprio in considerazione della estensione della stessa (pari a 852,46 mq), determinasse una modifica strutturale dell’area non riconducibile alla nozione di “interventi di edilizia minore” che come è noto consentono l’autorizzazione postuma in sanatoria ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004.

7.2 Come correttamente insegna un costante orientamento giurisprudenziale devono intendersi sanabili solo quegli interventi che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, ovvero siano consistiti nell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica ovvero, ancora, abbiano avuto ad oggetto lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 26-01-2012, n. 24).

7.3 Si è affermato altresì (si veda per tutti T.A.R. Campania Salerno Sez. I, 16-02-2012, n. 247), che “la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria in coerenza con la ratio della introduzione di tale divieto induce a ritenere che esulano dalla eccezione prevista dall'art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali)
gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici e di nuovi volumi ….”

7.4 Deve, inoltre, ritenersi inesistente la presunta contraddittorietà tra i pareri del 02/02/2011 e dell’08/10/2012 e, ciò, considerando come la conservazione del pavimento è stata ritenuta ammissibile solo nei tratti coincidenti con semplici marciapiedi esterni di limitata larghezza. Ne consegue come la motivazione della Soprintendenza, non solo deve ritenersi espressione di un potere di merito, ma nel contempo esprima  una motivazione strettamente correlata al caso concreto, nell’ambito del quale si è sancita l’incompatibilità di cui ora si controverte. Il ricorso proposto con i primi motivi aggiunti è, pertanto, infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Oneri specifici: anche il TAR Campania è rigoroso come quello Veneto

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

 Il T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, nella sentenza del 21 maggio 2014 n. 2785, conferma il pensiero rigoroso in materia di oneri specifici espresso in modo unanime dal T.A.R. Veneto e seguito in parte dal Consiglio di Stato: “Ciò posto, ad avviso del Collegio, si palesa fondato, oltre che assorbente, il quinto motivo del ricorso incidentale, con cui si sostiene che la ricorrente principale andava esclusa dalla gara, non avendo indicato gli oneri di sicurezza “da rischio specifico”, detti anche “aziendali”, né in sede di presentazione dell’offerta né in occasione delle giustificazioni prodotte nel corso della verifica di anomalia dell’offerta.

Premesso che la rilevata omissione, con riguardo ad entrambe le fasi della procedura, non è contestata in punto di fatto, il Collegio non ritiene di doversi discostare dall’orientamento, già ribadito anche di recente dalla Sezione, secondo cui l’indicazione degli oneri per la sicurezza costituisce un requisito ineliminabile dell’offerta e, in caso di omissione, comporta l’esclusione dalla gara anche ove non espressamente richiesto dal bando (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 20 febbraio 2013, n. 934, e 8 aprile 2014, n. 2010; Consiglio di Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n.3565, e 23 gennaio 2014, n. 348).

Al riguardo, giova rammentare la distinzione tra oneri di sicurezza per le cc.dd. “interferenze” – i quali sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell’ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto – ed oneri di sicurezza da “rischiospecifico” o “aziendale”, la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta.

Tanto premesso, va chiarito che secondo il Collegio l’omessa indicazione specifica sia dell’una che dell’altra categoria di oneri comporta – sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture – la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell’offerta, venendo a mancare un suo elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici. In particolare, la valenza di elemento essenziale ai costi per la sicurezza è riconosciuta dal dato normativo di cui agli artt. 86, comma 3 bis, e 87, comma 4, del Codice dei contratti, nonchè dell'art. 26, comma 6, del d.lgs. 81/2008, sul fondamentale rilievo del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge richiamate, le quali prescrivono di indicare tali costi distintamente, come tali idonee ad eterointegrare le regole della singola gara, ai sensi dell'art. 1374 c.c., per cui è irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara abbia o meno richiesto la detta indicazione. Ne discende anche che non può ritenersi consentita l’integrazione del suddetto elemento essenziale originariamente mancante mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante, ex art. 46, co. 1 bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.

Va aggiunto che, nel caso di specie, il disciplinare di gara (al punto 3.2., pag. 27) includeva il profilo della sicurezza nel cantiere tra i parametri di valutazione dell’offerta tecnica, laddove al criterio sub c) prevedeva l’assegnazione fino a 15 punti in relazione alle “Proposte di organizzazione del cantiere con utilizzo di sistemi innovativi di gestione e di controllo diretti a garantire un incremento dei livelli di sicurezza […]”.

Alla medesima conclusione della doverosa esclusione del Consorzio Unifica dalla procedura de qua si giungerebbe, nella fattispecie concreta, anche secondo il meno rigoroso orientamento secondo cui l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza ovvero l’omesso scorporo matematico di questi dal prezzo offerto, in assenza di un’espressa comminatoria di esclusione, potrebbe rilevare solo ai fini della valutazione dell’anomalia dell’offerta (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014 n.36; Consiglio di Stato, sez. III, 18 ottobre 2013 n.5070), atteso che, come si è già anticipato, il concorrente ha del tutto omesso di quantificare i suddetti costi anche in sede di giustificativi presentati nell’ambito del sub procedimento di verifica della congruità dell’offerta”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Napoli n. 2785 del 2014

Sì agli oneri di urbanizzazione se c’è aumento del carico urbanistico

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Il T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, nella sentenza del 05 maggio 2014 n. 468 si occupa del discrime tra la ristrutturazione edilizia (leggera o pesante che sia) e la manutenzione straordinaria affermando che: “(a) in base alle definizioni contenute nell’art. 3 comma 1-b-d del DPR 6 giugno 2001 n. 380 (v. art. 27 comma 1-b-d della LR 12/2005), l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio. Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l’introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, ma se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell’insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione;

(b) perché vi sia ristrutturazione non è necessario che cambi la destinazione dei locali o che vi siano incrementi nel volume o nella superficie (questi sono semmai indici della ristrutturazione pesante ex art. 10 comma 1-c del DPR 380/2001). La ristrutturazione presuppone soltanto che si possa apprezzare una differenza qualitativa tra il vecchio e il nuovo edificio;

(c) nello specifico, l’insieme delle opere previste dal progetto rivela chiaramente la finalità di trasformare l’edificio in questione da struttura produttiva unitaria in agglomerato di microimprese. Poiché cambiano profondamente sia gli spazi interni sia le modalità di utilizzazione dell’immobile, è evidente che il nuovo assetto dell’edificio è il prodotto di una ristrutturazione e non di una semplice innovazione, seppure riferita a elementi strutturali”.

Chiarito ciò, per quanto concerne gli oneri di urbanizzazione, il Collegio afferma che la loro debenza - in caso di intervento edilizio - sia dovuta soltanto se vi è un incremento del carico urbanistico. Per il loro calcolo concreto, inoltre, bisogna sottrarre quelli già versati al momento della costruzione dell’edificio: “(e) la normativa regionale (v. art. 44 comma 12 della LR 12/2005) disciplina la fattispecie della ristrutturazione con cambio di destinazione, prevedendo che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria siano commisurati all’eventuale maggiore somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente. Questa norma mette in evidenza il carattere corrispettivo degli oneri di urbanizzazione, che compensano le spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un edificio nuovo o rinnovato. Quando si verifica un cambio di destinazione, la pretesa dell’amministrazione è limitata al costo aggiuntivo delle urbanizzazioni per la nuova destinazione, perché non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;

(f) valutazioni analoghe devono essere svolte nel caso in esame, dove non cambia la destinazione ma è comunque evidente che il nuovo assetto dell’edificio ne consentirà un uso più intenso e quindi con maggiori costi riflessi per la collettività. La principale novità introdotta dalla ristrutturazione è rappresentata infatti dall’incremento del carico urbanistico, che può essere assimilato (a scopo esemplificativo) a quello che si verifica quando da una sola grande unità immobiliare si passa a una pluralità di unità immobiliari autonome. In particolare, con la presenza di numerose microimprese e di spazi di deposito si possono ragionevolmente presumere aggravi nella viabilità e nella movimentazione delle merci, e una maggiore produzione e diversificazione dei rifiuti;

(g) pertanto, fermo restando l’obbligo di corrispondere per intero il contributo collegato allo smaltimento dei rifiuti, e prendendo atto della rinuncia dell’amministrazione ad applicare il contributo sul costo di costruzione in conseguenza della natura produttiva dell’edificio (v. memoria del Comune depositata il 3 gennaio 2014), gli oneri di urbanizzazione devono essere ricalcolati in modo da tenere conto soltanto dell’incremento del carico urbanistico. Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall’importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell’edificio e dei successivi ampliamenti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Brescia n. 468 del 2014

Entro il 1° giugno c’è l’obbligo per i comuni di disciplinare l’installazione delle centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Ringraziando l’arch. Emanuela Volta per la segnalazione, ricordiamo il testo dell’art. 4, c. 1-ter, 1-quater, 1-quinquies  del D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17-quinquies, c. 1, della L n. 134/2012, che introduce importanti novità edilizio-urbanistiche nella costruzione di nuovi edifici diversi da quello residenziali. In particolare l’articolo prevede l’obbligo per i Comuni, entro il 1° giugno 2014, di disciplinare l’obbligo di installare le centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali: “1-ter. Entro il 1º giugno 2014, i comuni adeguano il regolamento di cui al comma 1 prevedendo, con decorrenza dalla medesima data, che ai fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio sia obbligatoriamente prevista, per gli edifici di nuova costruzione ad uso diverso da quello residenziale con superficie utile superiore a 500 metri quadrati e per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia, l’installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate nel regolamento stesso.

1-quater. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 1-ter del presente articolo, le regioni applicano, in relazione ai titoli abilitativi edilizi difformi da quanto ivi previsto, i poteri inibitori e di annullamento stabiliti nelle rispettive leggi regionali o, in difetto di queste ultime, provvedono ai sensi dell’articolo 39.

1-quinquies. Le disposizioni di cui ai commi 1-ter e 1-quater non si applicano agli immobili di proprietà delle amministrazioni pubbliche”.

Riusciranno i Comuni ad adeguarsi tempestivamente a tale novità?

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