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L’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 non si applica al cambio d’uso senza opere

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, nelle due sentenze gemelle del 12 maggio 2014 n. 1219 e n. 1220, dichiara che la sanzione amministrativa ex art. 34 del D.P.R. n. 38072001 (“Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”) secondo cui: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.

2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.

2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività.

2-ter. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali” non può essere utilizzato dalla Pubblica Amministrazione per imporre il ripristino della destinazione d’uso se si è in presenza soltanto di un cambio d’uso funzionale e non di un cambio d’uso strutturale: “Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.

Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.

Sicchè, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti impropri sotto il profilo normativo.

Per quanto riguarda poi il denunciato eccesso di potere per aver l’Amministrazione applicato l’importo massimo della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 47 della L.R. n. 56/80 senza esplicitarne le ragioni, la censura deve riconoscersi parimenti fondata.

Infatti, sebbene l’attività determinativa del quantum della sanzione amministrativa costituisca espressione di una lata discrezionalità amministrativa, essa non può sottrarsi al sindacato di legittimità ove non risulti congruamente motivata e scevra da vizi logici (Cons. St. VI sez. 20/9/2012 n. 4992).

Nel caso di specie, evidentemente, l’Amministrazione ha ritenuto di potersi sottrarre a tale obbligo motivazionale, laddove invece la particolarità della vicenda e il consolidarsi di una situazione a tutti nota e generalizzata avrebbe dovuto indurre la stessa Amministrazione a valutare gli effetti prodotti sull’assetto urbanistico dal cambio di destinazione d’uso in questione e conseguentemente calibrare la misura pecuniaria sanzionatoria applicata.

Per le ragioni suesposte il ricorso merita accoglimento, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione la quale, riesercitando il suo potere, non potrà non valutare più adeguatamente l’incidenza della diversa destinazione d’uso degli immobili sugli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica ed in particolare la compatibilità con gli standars ur-banistici che la stessa Amministrazione ritiene abbiano subito “una variazione” per effetto dell’abuso in contestazione”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Puglia n. 1219 del 2014

 TAR Puglia n. 1220 del 2014

Piano casa e incentivi fiscali

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Dalla lettura del combinato disposto degli artt. 3, c. 3 e 7 c. 1 ter della L. R. Veneto n. 14/2009 appare evidente che se un soggetto privato intenda demolire e ricostruire un edificio ante 1967, usufruendo contestualmente dell’ampliamento concesso dalla presente legge regionale, non è dovuto al Comune né il pagamento del contributo di costruzione connesso all’abitazione già esistente (e mai dovuto perché ante 1967) né il pagamento del contributo di costruzione dell’ampliamento.

Premesso che l’art. 3 c. 2 recita: “Gli interventi di cui al comma 1 finalizzati al perseguimento degli attuali standard qualitativi architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, sono consentiti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, ivi compresi i piani ambientali dei parchi regionali. La demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie:

a) fino al 70 per cento, qualora per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che portino la prestazione energetica dell’edificio, come definita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia” e dal decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009, n. 59 “Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia” e successive modificazioni, alla corrispondente classe A;

b) fino all’80 per cento, qualora l’intervento comporti l’utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 “Iniziative ed interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”. A tali fini la Giunta regionale integra le linee guida di cui all’articolo 2 della legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 , prevedendo la graduazione della volumetria assentibile in ampliamento in funzione della qualità ambientale ed energetica dell’intervento”, la soluzione esposta deriva dalla semplice applicazione dell’art l’art. 7, c. 1 ter secondo cui: “Le riduzioni di cui ai commi 1 e 1 bis si intendono riferite:

a) nel caso previsto dagli articoli 2 e 3 ter al volume o alla superficie ampliati;

b) nel caso previsto dagli articoli 3 e 3 quater al volume ricostruito e alla nuova superficie comprensivi dell’incremento”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Oneri specifici: secondo il TAR Lazio la ditta che li omette non può essere esclusa se il modello non li prevede

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II Bis, nella sentenza del 07 aprile 2014 n. 3742, afferma che se il modello predisposto dalla stazione appaltante non prevede espressamente l’indicazione degli oneri specifici, la ditta che li omette, confidando nella correttezza della documentazione predisposta, non può essere esclusa perché: “È diffuso l’orientamento, affermato anche in pronunce di questo Tribunale, dell’immediata, precettività degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. 12.4.2006 n. 163 (codice dei contratti pubblici) riguardo alla necessità di specificare il costo della sicurezza nelle offerte economiche in gare per l’appalto di lavori pubblici, servizi e forniture, anche in difetto di espressa previsione dei bandi. Ma è altresì diffuso quell’orientamento che in via eccezionale riconosce, alla stregua del principio generale di favor partecipationis, la prevalenza dell’affidamento incolpevole qualora la lex specialis di gara sia strutturata in modo da indurre in errore i partecipanti circa i requisiti dell’offerta (Cons.St., V. 6.8.2012 n. 4510; T.A.R. Piemonte, I, 9.1.2012 n. 5; id. 4.4.2012 n. 458; T.A.R. Umbria, I, 22.5.2013 n. 301; T.A.R. Campania, II, 21.6.2013 n. 3198). Applicando detti principi, richiamati altresì nei pareri dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 54 del 23.4.2013 e n. 118 del 17.7.2013, la commissione di gara ha ammesso l’offerta economica di T.F.C. sebbene non indicasse gli oneri della sicurezza aziendale a parte e in modo specifico, tenuto conto che il modello predisposto dalla stazione appaltante non comprende alcuna voce ad essi relativa.

Sebbene la scelta del facsimile per l’offerta economica allegato al disciplinare di gara è dal medesimo qualificata come preferenziale, sarebbe tuttavia contraddittorio sostenere che detta scelta possa poi ritorcersi contro i concorrenti che l’abbiano adottata facendo affidamento su di essa in quanto suggerita dalla lex specialis.

La modulistica predisposta dalle stazioni appaltanti assolve a molteplici fini, rendendo omogenee le offerte e semplificandone l’esame comparativo (così assolvendo a una funzione acceleratoria), nonché riducendo il rischio di errori. Quest’ultima finalità sarebbe senz’altro frustrata ove i concorrenti, attenti a non esporsi al rischio di esclusione per errori e omissioni nella redazione dell’offerta, possano essere poi penalizzati per non aver integrato l’apposito modulo predisposto dalla stessa amministrazione appaltante e perciò stesso ingenerante un obiettivo affidamento (T.R.G.A. Trento 16.12.2011 n. 317).

L’aberrante risultato di una siffatta conclusione e la totale confusione e incertezza che deriverebbe alle procedure di gara non necessitano di particolare illustrazione. Basti solo considerare che gli essenziali valori dell’affidamento e della buona fede impediscono che le conseguenze di una condotta, erronea e/o omissiva, della stazione appaltante, non immediatamente percepibile possano essere trasferite sui partecipanti sanzionandoli con l’esclusione (in termini, Cons.Stato, V, 22.5.2012 n. 2973; T.A.R. Umbria 11.7.2012 n. 274).

Con la puntuale compilazione del modulo per l’offerta economica allegato agli atti di gara e indicato dal disciplinare quale scelta preferibile T.F.C. ha pienamente rispettato gli ordinari canoni di diligenza e buona fede e non può dunque esserle imposto ai fini di ammissione alla gara l’obbligo di soggiungere dichiarazioni ulteriori rispetto a quelle che l’Amministrazione ha reputato sufficienti ed esaustive.

Ferme le premesse considerazioni di carattere generale e di merito, ad escludere l’ammissibilità della censura in esame è dirimente la circostanza che lo stesso disciplinare di gara affermi un principio di soccorso con lo stabilire che “la commissione giudicatrice potrà, comunque, chiedere ai soggetti partecipanti alla gara di fornire ogni notizia utile a chiarire i contenuti dell’offerta e della documentazione presentata e/o di fornire idonea dimostrazione degli stessi”. La disposizione della lex specialis contempla una facoltà della commissione di gara indirizzata a dissipare ogni eventuale dubbio circa il contenuto delle offerte dei concorrenti ed è pertanto esercitabile anche per definire la consistenza dei costi per la sicurezza aziendale, ove non resa immediatamente conoscibile, escludendo che le offerte esaustive nel contenuto non possano essere ammesse per omissioni puramente formali. Detta disposizione, qualora la si fosse voluta ritenere in contrasto con la normativa primaria, avrebbe dovuto essere contestata a mezzo impugnazione del disciplinare in parte qua. Poiché la lex specialis non è stata contestata in giudizio sul punto, occorre riconoscerne la valenza a giustificare le offerte complete ancorché non pienamente rispondenti alle prescrizioni di forma del codice dei contratti pubblici; e quindi è inammissibile la censura di S.A.T.A. che deduce l’omessa esclusione di T.F.C. in quanto l’offerta economica di quest’ultima non specifica, pur comprendendoli, gli oneri della sicurezza, come prescritto dall’art. 87, comma 4, e successive modificazioni del D.Lgs. n. 163/2006”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Lazio, Roma, n. 3742 del 2014

Il cambio d’uso senza opere non necessita del titolo edilizio?

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 13 maggio 2014 n. 2435, afferma che il cambio d’uso senza opere non richiede alcun titolo edilizio: “L’impostazione delineata dal ricorso di primo grado, raccolta dalla sentenza impugnata ed ora posta a fondamento delle difese dell’appellata Edilit Costruzioni è quella che indica le modificazioni di destinazione d’uso senza opere come attività “libere”, così come tuttora scaturisce dalla lettura della legge urbanistica regionale n. 61/1985, in quanto priva dell’originario art. 76 comma 2, previdente il generalizzato rilascio di titoli abilitativi per tale tipo di interventi, per questo dichiarato illegittimo con la sentenza 11 febbraio 1991 n. 73 dalla Corte Costituzionale.

La Corte aveva ritenuto il contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 25 comma 4 L. 47/1985, laddove si mandava alle leggi regionali la previsione di stabilire i casi in cui si dovessero disciplinare con gli strumenti urbanistici e con i titoli abilitativi le modificazioni di destinazione d’uso senza opere, delimitando il campo della regolamentazione e del controllo pubblico ad alcune serie specifiche di situazioni e non ammettendo quindi una parificazione assoluta di tali modificazioni agli interventi edilizi propriamente detti”. 

Si consiglia, però, la lettura integrale della sentenza, perchè esamina la questione nel caso in cui le NTA comunali stabiliscano qualcosa di diverso.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2435 del 2014

Le specifiche forme di tutela previste dal c.d. Piano Casa non necessitano di una motivazione puntuale?

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 07 aprile 2014 n. 1610, con riferimento ad una questione edilizia relativa al c.d. Piano Casa della Regione Sardegna, sembra affermare in generale che, laddove le diverse leggi regionali volte ad incentivare il settore edilizio prevedano la possibilità di tutelare in modo specifico delle zone e/o degli edifici, l’ente non abbia l’obbligo di motivare in modo dettagliato questa scelta.

Nel caso de quo, l’art. 5, c. 6 bis della L. R. Sardegna n. 21/2011 (c.d. Piano Casa) prevedeva che: “Nelle zone urbanistiche omogenee B i comuni individuano, con apposita deliberazione del consiglio comunale adottata entro il termine perentorio di novanta giorni, singoli immobili ovvero ambiti di intervento nei quali limitare o escludere, in ragione di particolari e specificate qualità storiche, architettoniche o urbanistiche, gli interventi di demolizione e ricostruzione. Nel corso di tale termine le istanze di demolizione e ricostruzione riguardanti edifici compresi nelle zone urbanistiche omogenee B non sono ricevibili. Trascorso il termine di novanta giorni senza che il comune abbia adottato la deliberazione, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono ammessi nel rispetto delle condizioni di cui all'articolo 8”.

Alla luce di ciò il Collegio giunge a ritenere che: “L’appello in esame controverte della legittimità di un diniego di premesso edilizio, per un intervento di demolizione e ricostruzione di un immobile urbano, con ampliamento sulla base delle disposizioni regionali per la Sardegna, applicative del c.d.”piano casa” (l.r. n.4/2009 e delibera c.r. n. 16/2012) ed ulteriori deroghe di altezza e distanze al piano urbanistico. Dopo aver pedissequamente riprodotto i motivi formulati in primo grado, il ricorso in esame passa ad esporre i motivi d’appello su cui si sostiene.

1.- Il primo contrasta la sentenza impugnata ove, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il TAR ha ravvisato (nella limitazione recata dalla delibera consiliare n. 16/2012 attuativa della legge regionale ed applicata dal Comune) la giustificazione nell’esigenza di assicurare un’armonica edificazione ed un corretto inserimento degli interventi nel tessuto urbanistico esistente; sostiene invece la ricorrente che tali esigenze non possono impedire la deroga agli strumenti urbanistici comunali prevista dalle disposizioni del piano casa, se non vengano specificate quali sono le qualità urbanistiche di determinate zone e che si intende tutelare. Emergerebbe pertanto il vizio di difetto di motivazione a carico della soluzione negativa data dal Comune di Cagliari, in applicazione delle cennate disposizioni, a maggior ragione ove si consideri il parere positivo espresso dalla Sovrintendenza (n.7651/2011) e che, ad avviso dell’appellante, non lasciava ulteriori spazi alla discrezionalità del Comune. Tale orientamento non può essere condiviso .

Premette il Collegio, su un piano generale, che la disposizione gravata opera in un contesto che presenta un chiaro carattere normativo in materia urbanistica e che di conseguenza sfugge alle prescrizioni motivazionali ai sensi degli arrt. 3 e 13 della legge n. 241/1990. Il che certamente non indica che la discrezionalità pianificatoria sia esente da ogni criteri di coerenza e logicità ma semplicemente che essa può determinare, senza dettagliate giustificazioni, compressioni delle facoltà edificatorie che possano coerentemente disporsi in forza dalle norme urbanistiche locali, regionali e statali. Orbene, la collocazione dell’area interessata dall’intervento in controversia (pur nella sua sitenticità, evidenziata dal medesimo TAR) è sufficientemente chiara nel precludere gli interventi di demolizione e ricostruzione in ampliamento ove essi prevedano anche deroghe posizionali e dimensionali rispetto alle norme del piano urbanistico (e nella fattispecie si rilevano difformità del proposto intervento in tema di distacchi dal confine strada e dal confine laterale e sull'altezza complessiva dell'edificio). Ciò chiarito, ai fini di conseguire un livello sufficiente, non occorreva che la motivazione in esame si richiamasse alla sussistenza di interessi di natura storico o architettonica di particolare rilevanza, ma era sufficiente che il provvedimento facesse riferimento a una esigenza di tipo semplicemente urbanistico (del resto anch’essa presente nella disposizione in parola) , qual è indubbiamente quella di assicurare un sviluppo edilizio ordinato perchè svolgentesi secondo linee e parametri (altezze, distanze interedilizie e stradali) essenzialmente omogenei. Contrasta perciò con la delibera consiliare n.16/2012, ad avviso del Collegio, un progetto che assolvendo già ad una finalità di forte impatto derogatorio in tema di indici volumetrici (soprattutto in caso di demolizioni e ricostruzioni) , aggiunga deroghe ad altezze e distanze in zone in cui queste presentino sufficiente omogeneità. Ed invero tale quadro sarebbe certamente del tutto sconvolto ove in intere zone fossero consentiti interventi di demolizione e ricostruzione non solo in ampliamento ma anche in deroga ad altezze e distanze (tra edifici e strade) originariamente previste e rispettate dal piano regolatore; così operando, infatti, ciascun edificio potrebbe essere non solo ricostruito con ampliamento, ma anche in una sua nuova nuova e del tutto diversa posizione rispetto a quella degli altri. Scenario certo interessante , ma indubbiamente non rispondente ad alcun tipo di ordinato e coerente sviluppo edilizio”.

Che sia possibile estendere le considerazioni di cui supra anche alle specifiche forme di tutela previste dagli artt. 2 e 9, c. 1, lett. c) della L. R. Veneto n. 14/2009?

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1610 del 2014

Oneri specifici ed appalto di lavori secondo il TAR Campania

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, nella sentenza del 08 aprile 2014 n. 2010, chiarisce che anche negli appalti di lavori vi è l’obbligo di indicare gli oneri specifici a pena di esclusione: “ritiene il Collegio che, alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa. Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi. In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara.

Riguardo al precetto applicabile, l’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 stabilisce che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

Dal punto di vista formale della composizione dell’offerta, esiste, dunque, per l’impresa partecipante l’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza, che devono anche essere assistiti da un rafforzato carattere di specificità. E non è seriamente dubitabile che tale adempimento non sia stato assolto dalla società ricorrente.

Alla questione, poi, se alla violazione di tale prescrizione consegua la sanzione espulsiva, occorre rendere risposta affermativa: tanto, sia perché in base alla formulazione letterale della norma è imposto un formale “dovere” di specifica indicazione dei costi della sicurezza, sia perché, dal punto di vista funzionale, non postergare tale rappresentazione alla fase di verifica dell’anomalia rivela l’interesse prioritario del legislatore verso la sicurezza sui luoghi di lavoro; inoltre, lo spostamento in avanti di tale accertamento – id est al momento della verifica della anomalia - potrebbe addirittura determinarne la totale pretermissione, trattandosi comunque di un subprocedimento non indefettibile nella dinamica del procedimento di gara; del resto, assumere la specificazione del costo della sicurezza come elemento costitutivo dell’offerta finisce per attribuire a tale elemento rilevanza anche dal punto di vista della presentazione di una proposta contrattuale seria che comprenda la valutazione di tutti gli oneri economici ricadenti nell’ambito del rapporto di convenienza e sostenibilità tecnico-economica dell’impegno contrattale che si va ad assumere.

Va aggiunto, quanto all’asserita inidoneità del progetto definitivo a contenere gli elementi necessari per il calcolo degli oneri di sicurezza, che, spettando all’impresa concorrente la redazione del progetto esecutivo - che la società ricorrente assume essere il livello di progettazione sufficiente per compiere tale valutazione – è su tale elaborato che avrebbe dovuto essere calcolata l’incidenza di tale elemento di costo, ai fini della elaborazione anche dell’offerta economica; ne discende, sotto tale profilo, la mancanza di lesività in punto di fatto della disciplina tecnica di gara.

Tali considerazioni trovano riscontro anche in recente giurisprudenza, secondo cui “nelle gare pubbliche, considerata la differenza che intercorre fra tra gli oneri di sicurezza per le cc.dd. interferenzee (che sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell'ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto) e gli oneri di sicurezza da rischio specifico o aziendale (la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta), l'omessa indicazione specifica nell'offerta sia dell'una che dell'altra categoria di costi giustifica la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell'offerta e venendo, quindi, a mancare un elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (Adunanza Plenaria 25 febbraio 2014 n. 9; Consiglio di Stato III Sezione 23 gennaio 2014 n.348; Consiglio di Stato III Sezione 3 luglio 2013 n.3565)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Campania n. 2010 del 2014

No alle attività commerciali in zona agricola

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 09 aprile 2014 n. 490 si occupa della D.I.A. e della impossibilità di realizzare delle attività commerciali in zona agricola.

Per quanto concerne il primo aspetto si legge: “Il collegio prescinde dall’esame delle eccezioni preliminari, essendo il ricorso infondato nel merito.

Il collegio evidenzia che il provvedimento inibitorio del 4 Settembre 2007 non è tardivo.

Infatti alla data dei provvedimenti impugnati il testo vigente dell’art. 19 della legge n° 241 del 1990 era il seguente:

Il secondo comma stabiliva che l'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente. Contestualmente all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà comunicazione all'amministrazione competente.

Il terzo comma aggiungeva che l'amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti.

Il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio non decorreva dunque dalla data di presentazione della d.i.a., ma dalla comunicazione di inizio dell’attività, successiva di almeno 30 giorni rispetto alla data di presentazione della d.i.a.

Nel caso di specie la comunicazione di inizio dell’attività successivamente alla presentazione della d.i.a. non si è avuta e dunque l’amministrazione non è decaduta dall’esercizio del potere inibitorio”.

 Invece, con riferimento alla seconda questione: “3. Non sussistono i lamentati vizi di violazione di legge, difetto di motivazione, carenza d’istruttoria ed eccesso di potere.

Infatti i provvedimenti impugnati sono atti dovuti e vincolati.

Parte ricorrente non può esercitare attività commerciale in zona agricola.

Il collegio evidenzia che era stato oggetto di condono soltanto l’edificio in cui si svolge l’attività commerciale, ma non l’area di pertinenza.

Tale ambito della sanatoria risulta particolarmente dalla relazione tecnico – illustrativa allegata all’istanza di condono, secondo cui l’intervento consiste nel condono edilizio di “un edificio”.

Né vale il richiamo di parte ricorrente a casistica giurisprudenziale relativa a parcheggi in zona agricola perché devono essere analizzate in concreto le caratteristiche del parcheggio per valutarne la compatibilità del parcheggio con la zona agricola.

Nel caso di specie il parcheggio ha lo scopo di servire all’attività di vendita di autovetture e dunque, qualificandosi l’attività di parcheggio in relazione allo scopo, si caratterizza come attività commerciale, che è incompatibile per sua natura con la destinazione di zona agricola.

Sotto tale profilo va evidenziato che la stessa parte ricorrente ha qualificato nella d.i.a. l’attività da svolgere sull’area scoperta come attività commerciale”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 490 del 2014

Corte Costituzionale: non spetta alla Corte dei Conti il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza  della Corte Costituzionale n. 130 del 2014: "Le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, con ricorsi rispettivamente notificati il 9 e 12 agosto e il 5 settembre 2013, depositati i successivi 16 e 21 agosto e 6 settembre, iscritti ai numeri 8, 9 e 10 del registro conflitti tra enti del 2013, hanno promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione ad alcune deliberazioni della sezione delle autonomie e delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, con cui si è, rispettivamente, orientato ed esercitato, in relazione all’esercizio finanziario 2012, il potere di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari a norma dell’art. 1, commi 9, 10, 11 e 12, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 dicembre 2012, n. 213.

Tutte le ricorrenti ( Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte ) lamentano, in primo luogo, che la Corte dei conti abbia leso la loro autonomia organizzativa e contabile, ed in particolare quella dei consigli regionali e dei loro gruppi consiliari, tutelata dall’art. 121, secondo comma, Cost., esercitando in relazione al 2012 un potere ad essa non attribuito dalla legge.

I commi 9, 10, 11 e 12 dell’art. 1 del d.l. n. 174 del 2012 detterebbero, infatti, una disciplina del controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari completa, non frazionabile e comunque esercitabile solo secondo i criteri previsti nelle linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato solo il 21 dicembre 2012 ed entrato in vigore il 17 febbraio dell’anno seguente.

L’immediata operatività del controllo è stata affermata, al contrario, dalla sezione delle autonomie in ragione dell’assenza di una norma transitoria contenuta nel d.l. n. 174 del 2012 e sul rilievo che le leggi regionali vigenti già prevedevano degli obblighi di rendicontazione nei confronti dei consigli regionali ovvero di loro articolazioni.

Ebbene, ai sensi dell’art. 1, comma 9, del d.l. n. 174 del 2012, il rendiconto in esame è «strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri […]». Il comma 11, poi, attribuisce alla sezione regionale di controllo un giudizio di conformità dei rendiconti medesimi alle prescrizioni dettate dall’art. 1, e quindi ai già detti criteri contenuti nelle linee guida.

Il dettato normativo configura dunque il potere di controllo in esame come condizionato alla previa individuazione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’evidente presupposto della loro indispensabilità.

Questa Corte, del resto, con la sentenza n. 39 del 2014, ha chiarito che «il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale [...]. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale».

Non può essere accolta, infine, la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui l’immediata operatività si ricaverebbe dalla circostanza dell’utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza, dal momento che quest’ultimo sottende una scelta di opportunità non rilevante in questa sede e logicamente non incompatibile con la decorrenza dell’operatività dei controlli dall’esercizio successivo all’entrata in vigore del decreto.

 Deve pertanto concludersi nel senso che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012.

 La Corte Costituzionale dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie, adottare le deliberazioni 5 aprile 2013, n. 12, e 5 luglio 2013, n. 15, nonché alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, le deliberazioni 12 giugno 2013, n. 234, e 10 luglio 2013, n. 249, alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, le deliberazioni 29 aprile 2013, n. 105, e 13 giugno 2013, n. 160, ed alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, la deliberazione 10 luglio 2013, n. 263, con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012".

geom. Daniele Iselle

sentenza Corte Costituzionale n. 130 del_2014

Il curatore fallimentare non può essere destinatario dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 09.11.2012 n. 1398 aveva chiarito che il curatore fallimentare, di regola, non può essere destinatario dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti perché: “la giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19 marzo 2010, n. 700; Tar Campania , Salerno, Sez. I, 18 ottobre 2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 settembre 2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17 aprile 2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10 maggio 2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12 marzo 2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 1 agosto 2001, n. 1318), perché altrimenti gli effetti economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente estranei, fino a prova contraria, alla condotta dell’abbandono dei rifiuti”. Tale pensiero era stato confermato anche dalla sentenza dello stesso Giudice del 04.12.2012 n. 1498 ove si legge che: “la giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19 marzo 2010, n. 700; Tar Campania , Salerno, Sez. I, 18 ottobre 2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 settembre 2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17 aprile 2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10 maggio 2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12 marzo 2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 1 agosto 2001, n. 1318). In definitiva, applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, discende che, ferma restando la validità del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone obblighi in capo all’altro comproprietario del compendio immobiliare, il provvedimento impugnato è illegittimo e va annullato per incompetenza e nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri direttamente in capo al fallimento, quando invece, qualora il Comune proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare le somme anticipate, ha a disposizione il solo rimedio dell’insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare”.

 Queste conclusioni sono avvalorate dalla giurisprudenza maggioritaria (ex multis T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, 19.10.2012 n. 1662 e T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 31.10.2012, n. 385), mentre soltanto parte recessiva della giurisprudenza sembra ammettere una sorta di responsabilità o meglio di corresponsabilità del curatore fallimentare (cfr. Cass. pen, sez. III, 12.06.2008, n. 37282).

Recentemente quanto esposto dal T.A.R. Veneto è stato confermato anche dal T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 09.01.2013 n. 56, secondo cui: “Dello stesso orientamento è, del resto, anche la costante giurisprudenza amministrativa di primo e secondo grado (cfr. TAR Toscana, sez. III, 1 agosto 2001, n. 1318; Cons. di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328 e, più di recente, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3765), la quale sottolinea l’assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall’impresa fallita.

Fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinanti, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3765).

Il fatto che la curatela abbia la disponibilità giuridica dell’area inquinata non è sufficiente per imporre alla medesima l’adempimento di obblighi gravanti sull’impresa fallita – sempre che ne venga accertata la responsabilità -.

Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta, infatti, necessariamente, il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.

Proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia, invece, che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità

dell’imprenditore fallito (vedi, sul punto, Cons. di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328, citato in precedenza)”, nonché dal T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, 20.01.2014 n. 118 il quale prevede che: “Nel merito il ricorso deve essere accolto in relazione alla sostanziale mancanza di legittimazione passiva degli organi delle procedure concorsuali che non possono essere chiamati ad effettuare bonifiche in relazione ad inquinamenti di alcun tipo in quanto non hanno alcuna responsabilità della situazione ambientale in cui si trovano i beni e non possono utilizzare risorse per motivi diversi dalla soddisfazione dei creditori. E ciò vale anche in relazione alla rimozione di materiali contenenti amianto

Si tratta di un orientamento consolidato nella giurisprudenza amministrativa; in quanto ai precedenti di questa sezione è sufficiente far riferimento alla sentenza 157/2011 che diffusamente motiva sul punto:In particolare, deve essere condivisa, alla luce della prevalente giurisprudenza espressasi sulla questione, la doglianza del ricorrente, per cui la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo dell’impresa fallita (C.d.S., Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328). Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle argomentazioni per cui: a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi vigenti; b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti facenti capo all’impresa fallita. In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare deve esser considerata estranea alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata. Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non comporta necessariamente – per la giurisprudenza del Consiglio di Stato in commento, le cui affermazioni il Collegio condivide – il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti. D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti a dimostrare che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre disposizioni, dirette ad altro scopo (C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003, cit.)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR FVG 385-2012

sentenzaTAR Veneto n. 1398 del 2012

TAR Veneto n. 1498 del 2012

TAR Lombardia n. 56 del 2013

TAR Toscana n. 118 del 2014

Oneri specifici: TAR Veneto e Consiglio di Stato la pensano diversamente

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 07 maggio 2014 n. 2343, ha riformato la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. I, n. 1388/2013 commentata nel post del 13.12.2013 che, con riferimento agli oneri specifici, aveva dichiarato l’obbligo di indicarli anche negli appalti di lavori.

Nella sentenza del Giudice di Appello, infatti, si legge: “Reputato, infatti, che merita condivisione l’indirizzo di questa Sezione (sentenza 9 ottobre 2013, n. 1050), dal quale il Giudice di primo grado si è esplicitamente discostato, secondo cui l’obbligo di indicazione, in sede di offerta, del costo relativo alla sicurezza è imposto dal legislatore, ex art. 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici, esclusivamente per le procedure relative agli appalti di servizi e forniture mentre in materia di lavori pubblici la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100, d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici, fermo restando l’obbligo di verifica dell’adeguatezza degli oneri per tutti i contratti pubblici in forza dell’art. 86, comma 3 bis, del codice dei contratti pubblici;

Reputato che, in ogni caso, l’ ATI Andreola, pur non essendo tenuta, ha proceduto all’indicazione degli oneri di sicurezza e che l’unitarietà dell’offerta economica, complessivamente riconducibile al raggruppamento, non consente di accedere alla tesi, sposata dalla sentenza appellata, secondo cui ognuna delle imprese raggruppate avrebbe dovuto indicare la quota individuale degli oneri a sé imputabile”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2343 del 2014

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