Sul risarcimento del danno connesso alla mancata aggiudicazione

01 Apr 2014
1 Aprile 2014

Nella stessa sentenza n. 303/2014 il T.A.R. Veneto si sofferma sul risarcimento del danno per mancata aggiudicazione chiarendo che, laddove non sia più utile il risarcimento in forma specifica, soccorre quello per equivalente in quanto: “atteso, peraltro, che nei procedimenti concorsuali la posizione giuridica sostanziale del partecipante assurge ad interesse legittimo (pretensivo) con riferimento all’ammissione a parteciparvi, e che nel caso di specie l’esecuzione del contratto è in fase conclusiva (cfr. la memoria 27.1.2014 di Viveracqua, pag. 4-5), il risarcimento del danno alla ricorrente non può essere disposto in forma specifica, mediante dichiarazione di inefficacia del contratto ai fini della riedizione della procedura, ma va somministrato per equivalente, in correlazione con la perdita della chance di aggiudicazione dell'appalto. Danno, questo, che si verifica tutte le volte in cui la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile a causa dell’adozione colpevole di un atto illegittimo da parte della PA abbia determinato una lesione del diritto all’incremento del proprio patrimonio, e che dovrà calcolarsi in via presuntiva sulla base del valore dell'appalto ridotto in relazione alla chance di aggiudicazione in sede di riedizione della gara. Il danno, pertanto, data l’impossibilità di provarlo nel suo preciso ammontare (si tratta, infatti, della chance, cioè della teorica possibilità di un risultato favorevole), va risarcito ai sensi dell’art. 1226 c.c. ricorrendo al criterio di valutazione del danno globalmente considerato per la mancata aggiudicazione, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato alla misura di probabilità di ottenere l’aggiudicazione. A tal proposito va anzitutto precisato che non si può accedere all’istanza, avanzata dalla parte, di commisurazione della perdita dell'utile di impresa pari al 10% del valore dell'offerta economica secondo il criterio desumibile dall'art. 345 della legge n. 2248/1865, all. F (riprodotto nell'art. 122 del DPR n. 554/1999), e ciò non solo perchè tale disposizione è valida per il settore dei lavori pubblici (e, dunque, non appare suscettibile di pedissequa estensione analogica ai diversi casi di appalti di servizi, come è quello di specie), ma anche perché le citate disposizioni attinenti alla liquidazione del lucro cessante sono state abrogate (cfr. l’art. 256 del DLgs n. 163/2006) e non risultano riformulate nel codice dei contratti e/o nel relativo regolamento. Con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 124 c.p.a., richiamato dall’art. 245-quinquies del DLgs n. 163/2006 (che prevede che, in assenza di dichiarazione di inefficacia del contratto, il risarcimento del danno per equivalente deve essere "provato") e al di fuori dell’ipotesi di liquidazione del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c., è sempre necessaria la prova rigorosa, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria. (cfr. CdS, IV, 2.12.2013 n. 5725; VI, 27.4.2010 n. 2384);

che, alla luce delle suesposte considerazioni – ed assodata la colpa dell’Amministrazione: il privato può, infatti, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa dell’Amministrazione: spetterà a quel punto all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata – e precisato che in assenza di prova da parte dell’interessato il danno va liquidato in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (alla stregua dell’attuale crisi economica, invero, il criterio del 10% oltre a non essere, come si è detto, più vigente, sarebbe altresì illogico ed irragionevole, in quanto conduce al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale: è di questi giorni il dato – cfr. “il Sole 24 ORE” del 14 febbraio 2014 – che se nel 2008 “cento euro di fatturato producevano due euro di utili….nel 2013 cento euro di fatturato generano 50 centesimi di utile” al netto delle imposte), nel caso di specie il ristoro del danno da perdita di chance di aggiudicazione può essere quantificato - tenuto conto, altresì, che la ricorrente non ha dimostrato (anche mediante l’esibizione dei libri contabili) di non aver eseguito, nel periodo durante il quale sarebbe stata impegnata dall'appalto in questione, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata esecuzione chiede il risarcimento del danno (cfr., in termini, CdS, IV, 7.9.2010 n. 6485; VI, 21.9.2010 n. 7004) - nella misura del 2% dell'importo contrattuale (tenendo conto che il relativo importo, configurandosi quale lucro cessante, è soggetto alle rituali imposte), somma che, poi, va ridotta all’1% tenendo conto dell'aliunde perceptum dell'impresa, ed ulteriormente ridotta ad 1/3 in ragione del numero dei partecipanti alla selezione (ove deve essere ricompreso pure il soggetto escluso per carenza di requisiti, potendo ricorrere tale evenienza anche nei confronti della ricorrente);

che, pertanto, alla stregua dei suesposti principi il risarcimento del danno per perdita di chance di aggiudicazione (comprensivo del danno curricolare, di regola corrispondente al 10% di quanto liquidato a titolo di lucro cessante: cfr. TAR Veneto, 8.11.2011 n. 1663) da corrispondere all’impresa ricorrente deve essere conclusivamente quantificato in complessivi € (1.678.351 x 1% : 3 =) 5.594,50”.

 

Per quanto riguarda gli interessi compensativi invece si legge: “Non spettano, invece, gli interessi compensativi sulla somma via via rivalutata: nei debiti di valore, infatti, gli interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria dell'eventuale danno da ritardo nella corresponsione dell'equivalente monetario attuale della somma dovuta all'epoca della produzione del danno, sicchè essi non sono dovuti ove il debitore non dimostri la sussistenza di una perdita da lucro cessante per non avere conseguito la disponibilità della somma di danaro non rivalutata fino al momento della verificazione del danno ed averla potuta impiegare redditiziamente in modo tale che avrebbe assicurato un guadagno superiore a quanto venga liquidato a titolo di rivalutazione monetaria (cfr., per tutte, Cass. Civ., III, 12.2.2008 n. 3268). A decorrere dalla pubblicazione della sentenza, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta e, pertanto, saranno corrisposti gli interessi legali fino al soddisfo”.

dott. Matteo Acquasaliente

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