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A proposito si demolizione di opere abusive, pompeiane e pertinenze urbanistiche

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza del 31.10.2013 n. 5265, conferma la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. II, n. 1713/2011, concernente la demolizione e l’acquisizione al patrimonio comunale di opere abusive.

Nello specifico, con riferimento al termine di 15 giorni concesso dall’Amministrazione comunale per la demolizione dell’opera abusiva, il Collegio afferma che: “Gli istanti hanno anche lamentato il riduttivo termine di 15 giorni assegnato per la demolizione (ordinanza n. 68 del 21 giugno 2010) in luogo dei 90 giorni previsti dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché l’errata statuizione dei primi giudici a giustificazione di tale minore spazio temporale in relazione agli artt. 13 e 92, comma 4, della legge regionale Veneto n. 61 del 1985 (norma locale di dettaglio che espressamente prevede che le opere abusive vadano demolite entro un termine “non superiore” a 90 giorni e, perciò, autorizzante anche un termine inferiore).

In punto di fatto giova precisare che l’abusiva copertura con teli fissi della pompeiana in argomento è stata sanzionata già una prima volta mediante la inottemperata ordinanza n. 82 dell’11 agosto 2008 con la previsione di 90 giorni per la demolizione, che è stata sì rimossa dai proprietari ricorrenti ma subito ripristinata dagli stessi. A tanto ha fatto seguito il comunicato diniego comunale alla temporanea installazione stagionale, come materialmente riscontrato dai successivi accertamenti in esito ai quali è stata emanata la impugnata ordinanza n. 68 del 21 giugno 2010 con il giustificato termine di 15 giorni (ravvisato congruo in relazione alla vicenda anteriore e con riguardo all’entità dei lavori occorrenti per la rimozione).

Relativamente al detto termine limitato, è sufficiente osservare che si discute di un atto ripristinatorio dell’iniziale ordine violato che ha svolto la funzione di eliminare le conseguenze dell’illecito continuato, in bonam partem per un ravvedimento dei ricorrenti e al fine precipuo di sfuggire alle più pregiudizievoli sanzioni, quali l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive.

Consegue da tanto che la condotta comunale non può essere minimamente tacciata di sproporzione e gli autori dell’abuso non possono qui venire contro il fatto proprio nel gioco reiterato.

Quanto alla norma regionale, la mancata menzione da parte dell’amministrazione comunale della norma legale di riferimento può essere superata mediante i poteri propri di interpretazione spettanti al giudice adito quando è accertata l’esistenza della specifica norma attributiva della potestà limitativa e la conseguente azione pubblica si dimostra conforme a legge.

D’altro canto, tale disposizione regionale, riconducibile alla materia governo del territorio e attuativa in ambito locale della normativa recata dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non ha alterato la corrispondente disciplina statale, in quanto non ha inciso nei suoi aspetti immodificabili e nell’area delle tassative fattispecie sostanziali di sanabilità delle opere abusive o nei criteri di accesso ovvero nelle regole di repressione degli abusi, bensì è intervenuta unicamente sotto l’aspetto del relativo procedimento con la previsione di un obbligatorio e ravvicinato provvedimento di demolizione, in tale modo rendendo non fisso il termine di 90 giorni e, per l’effetto, ancorandolo alla concreta fattispecie sanzionata, a miglior tutela dell’assetto del territorio.

Orbene, nello specifico, per le ragioni innanzi precisate, il termine assegnato di 15 giorni risulta essere adeguato in relazione al complessivo andamento della vicenda di causa e, con riguardo alle diffuse e ragionevoli motivazioni contenute nell’atto censurato, anche proporzionato”.

 Per quanto riguarda i concetti di “pompeiana” e di “precarietà”, rispettivamente si legge che: “Dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie applicative (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata.

L’aspetto tipico di essa, in sintesi, risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura impermeabile in polietilene o tegole e quant’altro che la faccia configurare come volume edilizio” e che: “la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che non implica precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (Cass. Pen., sez. III, 5 marzo 2013, n. 10235 e 21 giugno 2011, n. 34763; Cons. Stato, sez. IV, 22 dicembre 2007, n. 6615)”.

Mentre, per quanto riguarda la nozione di “pertinenza urbanistica” si legge che: “La nozione di "pertinenza urbanistica" ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: deve trattarsi, invero, di un'opera - che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato - preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non indurre un ulteriore carico urbanistico e da non avere una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede (Cass. Pen., sez. III, 24 marzo 2010, n. 24241; Cons. Stato, sez. V, 18 aprile 2001, n. 2325; sez. VI, 8 marzo 2000, n. 1174).

Nella specie, l’intervento innovativo contestato dal Comune, non semplicemente conservativo e manutentivo della pompeiana in asserita pertinenza con la villa, viene invece a realizzare una diversa connessione fisica e una mutata strumentalità funzionale, che deve ricondursi non alla nozione di servizio ma a quella di integrazione della diversa attività d’uso cui accede, in quanto tale implicante il previo rilascio del permesso di costruire finalizzato alla nuova essenza configurata dell’immobile (Cons. St., sez. IV, 25 maggio 2011, n. 3134; sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5515).

Deriva da ciò, come sostenuto dal Comune, la trasformazione urbanistica ed edilizia della pompeiana in una struttura (chiosco) permanentemente fissa e coperta a servizio della pizzeria-ristorante, necessitante, alla stregua di pacifica giurisprudenza, del permesso di costruire per le ragioni incrementative prima precisate dell’assetto del territorio”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1713 del 2011

CdS n. 5265 del 2013

La discrezionalità del Comune in materia di pianificazione territoriale

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 11 novembre 2013 n. 1246, chiarisce la natura discrezionale delle scelte effettuate dall’Amministrazione comunale in materia di pianificazione urbanistico-territoriale, le quali cedono solamente di fonte al c.d affidamento qualificato ed alle linee di sviluppo contenute nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori: “È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (CdS, Ap, 22.12.1999 n. 24; IV, 20.6.2012 n. 3571; TAR Veneto, II, 6.8.2012 n. 1101) e inoltre che, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico e, tra l'altro, non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche (cfr., da ultimo, CdS, VI, 13.9.2012 n. 4867).

In tal senso, la scelta compiuta in un PRG (o in una variante) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex pluribus, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854).

Tali evenienze generatrici di affidamento "qualificato", sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In mancanza di tali eventi – è appena il caso di annotare che, ancorchè si volesse assimilare il piano di recupero con validità decennale approvato dal Comune di Paese nel 1984 alla convenzione di lottizzazione, va tuttavia osservato che il predetto piano aveva avuto, come affermato dallo stesso ricorrente, completa attuazione, eccetto l’area di sua proprietà: ma il signor Trevisan, al quale nel 1985 era stata rilasciata la concessione edilizia per realizzare l’ultimo intervento consentito dal piano di recupero, vi ha successivamente rinunciato, con la conseguenza che, a fronte di tale manifestazione di disinteresse all’edificazione, il piano di recupero doveva considerarsi completamente attuato - non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicchè non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854 cit.; IV, 4.4.2011 n. 2104);

Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria dell'area secondo la previgente destinazione.

In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso (cfr, da ultimo, CdS, VI, 13.9.2012 n. 4867 cit.)”.

 Nella medesima, inoltre, il T.A.R. specifica che: “È noto, invero, che una volta impugnata la delibera di adozione del piano regolatore, la delibera di approvazione del medesimo va impugnata esclusivamente in quanto non confermi le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa, e ciò perché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione (cfr. TAR Veneto, I, 26.11.2012 n. 1441)”.

dott. Matteo Acquasaliente

 TAR Veneto n. 1246 del 2013

Bonifica siti inquinati: l’A.P. del CDS chiede alla Corte di Giustizia U.E. se la messa in sicurezza di emergenza (artt. 244, 245 e 253 codice) sia a carico dei responsabili dell’inquinamento o anche del proprietario dell’area

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Pubblichiamo l'ordinanza n. 25 del 2013 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato

Ordinanza A.P. CDS 25 del 2013

MIBAC Veneto – Competenze del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in materia di toponomastica

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Segnaliamo sul punto la circolare del MIBAC Veneto n.  35 del 12.11.2013

Link: Legge 17 aprile 1925, n. 473 - Competenze del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in materia di toponomastica.-

 Allegati: 1 / 2 / 3

Il TAR Veneto ribadisce che la mancata indicazione degli oneri specifici rientra tra le cause di esclusione

15 Nov 2013
15 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 11 novembre 2013 n. 1248, torna ad occuparsi degli oneri specifici, confermando l’interpretazione particolarmente rigorosa degli artt. 86, c. 3 bis e 87, c. 4, D. Lgs. 163/2006, ovvero che l’omessa loro indicazione determina ex se l’esclusione dalla gara a prescindere dal contenuto della lex specialis.

A tal fine si legge: “è suscettibile di favorevole apprezzamento la censura avanzata nel ricorso principale relativa alla mancata indicazione, nell’offerta economica della società aggiudicatrice, degli importi relativi ai costi della sicurezza aziendale, nell’erronea convinzione che gli stessi fossero già indicati dalla stazione appaltante in euro 500,00 e che nel bando non sono state previste ulteriori e diverse voci inerenti a tale specifico fattore.

Al riguardo il Collegio non può che ribadire l’insegnamento al riguardo pacificamente accolto dal Consiglio di Stato e condiviso dal Tribunale, secondo cui devono necessariamente distinguersi : i costi della sicurezza per interferenza, affidati in via esclusiva alla individuazione e determinazione della stazione appaltante e quelli, invece che competono e riguardano gli aspetti della sicurezza di esclusa pertinenza del concorrente che, come tali, devono da quest’ultimo essere individuati e formalmente indicati nell’offerta a prescindere da una formale previsione nella legge di gara, così come previsto dagli artt. 86 co. 3 bis e 87 co. 4 del d.lgs. 163/2006.

L’impresa aggiudicataria, di contro, come risulta dagli atti di causa, non ha indicato, nella propria offerta economica, i costi relativi alla sicurezza.

Né, peraltro, può assumere alcuna valenza dirimente il fatto che i costi per la sicurezza aziendale non fossero espressamente previsti dalla lex specialis.

Osserva il Collegio che tali norme hanno carattere immediatamente precettivo e, come tali, comportano la eterointegrazione delle regole previste in ogni singola gara, ai sensi dell’art. 1374 c.c. e, determinano, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla procedura del concorrente inadempiente (v. Cons. St., V, n. 467/2012 e 4849/2010).

La inosservanza di tale procedura, come detto, determina un vizio insuperabile dell’offerta, così come avanzata dal concorrente.

Infatti, alla mancata indicazione, nell’offerta economica, degli oneri di sicurezza aziendali, consegue, la obbligatoria esclusione del concorrente dalla gara per carenza di un elemento essenziale dell’offerta a norma dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, n. 4622/2012)”.

 Nella medesima sentenza il T.A.R. Veneto sottolinea inoltre che l’offerente non ha l’obbligo, a pena di esclusione, di produrre il D.U.R.C. poiché la stazione appaltante lo può acquisire d’ufficio: “Indipendentemente dalla configurazione fornita dalla stazione appaltante circa la natura e la necessaria produzione da parte dei concorrenti del riferito certificato, è necessario ribadire che l'obbligo di produzione del documento unico di regolarità contributiva di cui all'art. 19, comma 12, della legge n. 109 del 1994 e relative disposizioni attuative, deve ritenersi superato, per sopravenuta incompatibilità di detta disposizione, con l'art. 16-bis, comma 10 del decreto legge n. 185 del 2008, introdotto dalla legge di conversione n. 2 del 2009, che testualmente recita :”.. In attuazione dei principi stabiliti dall'articolo 18, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e dall'articolo 43, comma 5, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge”.

Sul divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere il d.u.r.c. alle imprese vanno altresì registrati specifici successivi interventi legislativi, regionali e statali, che hanno confermato siffatta impostazione (si vedano l'art. 6 del D.P.R. n. 207 del 2010, e l'art. 14, comma 6-bis, d.l. n. 5 del 2012, convertito con L. n. 35 del 2012).

Quindi, si può concludere rilevando che, anche l’eventuale esclusione del concorrente per mancata produzione del DURC, così come prevista dal bando, sarebbe stata nulla per contrarietà a norme imperative e non può, né avrebbe potuto, conseguentemente, condurre alle conseguenze richieste dal ricorrente incidentale”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1248 del 2013

Vademecum dell’AGCM per aiutare le stazioni appaltanti a riconoscere le anomalie anticoncorrenziali nelle gare

15 Nov 2013
15 Novembre 2013

LOTTA AI CARTELLI: ANTITRUST INTENSIFICHERA’ LA SUA AZIONE NEL SETTORE DEGLI APPALTI PUBBLICI. PRONTO UN VADEMECUM PER AIUTARE LE STAZIONI APPALTANTI A RICONOSCERE LE ANOMALIE ANTICONCORRENZIALI NELLE GARE

Collaborazione con i committenti necessaria per sconfiggere  un fenomeno che costituisce un danno diretto all’intera collettività e comporta lievitazione dei costi per i lavori o per le forniture

Intensificare la lotta ai possibili cartelli tra aziende che partecipano alle gare per gli appalti pubblici con la collaborazione delle stazioni appaltanti. E’ l’obiettivo dell’Antitrust che ha predisposto un vademecum da inviare ai soggetti che bandiscono le gare perché assumano un ruolo di ‘sentinella’ segnalando all’Autorità anomalie tipiche di comportamenti potenzialmente distorsivi della concorrenza. Dalla sua nascita a oggi l’Antitrust ha avviato in questo settore numerosi  procedimenti istruttori, conclusi con l’irrogazione di sanzioni per oltre € 500 milioni. Si tratta di fenomeni che vanno combattuti con determinazione perché comportanouna lievitazione dei costi per lavori o forniture e dunque un danno diretto per l’intera collettività.

Il vademecum ha l’obiettivo di aiutare le stazioni appaltanti a percepire i segnali di un’alterazione concorrenziale, identificando le anomalie comportamentali sintomo di distorsioni concorrenziali, la cui effettiva sussistenza sarà tuttavia accertata solo all’esito del procedimento istruttorio che l’Autorità dovesse ritenere di avviare in seguito alle segnalazioni pervenute

L’Antitrust suggerisce innanzitutto di valutare il contesto. I cartelli si realizzano infatti con maggiore frequenza quando i mercati interessati hanno alcune caratteristiche: pochi concorrenti o concorrenti caratterizzati da analoga efficienza e dimensione; riguardano prodotti omogenei; c’è una perdurante partecipazione alle gare  delle stesse imprese; l’appalto è ripartito in più lotti dal valore economico simile.

All’interno di questa cornice generale costituiscono segnali di comportamenti anomali:

a) Boicottaggio della gara

I principali sintomi del boicottaggio, finalizzato a prolungare il contratto con il fornitore abituale o di ripartire pro quota il lavoro o la fornitura tra tutte le imprese interessate, sono: 1) nessuna offerta presentata; 2) presentazione di un'unica offerta o di un numero di offerte comunque insufficiente per procedere all’assegnazione dell’appalto; 3) presentazione di offerte dello stesso importo, soprattutto quando le procedure di gara prevedono in queste circostanze l’annullamento della gara o la ripartizione dell’appalto pro quota.

b) Offerte di comodo

Le offerte di comodo danno un’apparente regolarità concorrenziale alla gara e nascondono l’innalzamento dei prezzi di aggiudicazione. I principali sintomi sono: 1) offerte presentate dalle imprese che non si aggiudicano l’appalto caratterizzate da importi palesemente troppo elevati o comunque superiori a quanto le stesse imprese hanno offerto in analoghe procedure; 2) offerte contenenti condizioni particolari e notoriamente inaccettabili per la stazione appaltante che ne determinano l’esclusione; 3) la presentazione di offerte più elevate rispetto ai prezzi di listino. In generale una sequenza di gare in cui risulta aggiudicataria sempre la stessa impresa può destare il sospetto che i concorrenti presentino offerte di comodo.

c) Subappalti o ATI (Associazione Temporanea d’Imprese)

I subappalti e le Associazioni Temporanee di Imprese (ATI) permettono di ampliare la platea dei soggetti che possono partecipare a meccanismi di gara, dando spazio anche alle imprese più piccole. In alcuni casi possono però essere utilizzati dai partecipanti alla gara per spartirsi il mercato o addirittura della singola commessa. Possibili indizi sono: 1) imprese, singolarmente in grado di partecipare a una gara, che invece si astengono in vista di un successivo subappalto o optano per la costituzione di un’ATI; 2) la costituzione di ATI o subappalto perfezionati da imprese accomunate dalla stessa attività prevalente; 3) il ritiro dell’offerta da parte di un’impresa che decide inizialmente di partecipare a una gara, che risulta poi beneficiaria di un subappalto relativo alla medesima gara; 4) nei casi di aggiudicazione basata sull’offerta economicamente più vantaggiosa, l’ATI (tra i maggiori operatori) può essere il frutto di una strategia escludente, tesa ad impedire a imprese minori di raggiungere il necessario punteggio qualitativo.

d) Rotazione delle offerte e ripartizione del mercato

Anche l’analisi della sequenza delle aggiudicazioni può segnalare la presenza di un cartello. Quando la pratica spartitoria interessa un singolo committente quest’ultimo avrà indizi per riconoscere ‘regolarità’ sospette nella successione temporale delle imprese aggiudicatarie o nella ripartizione in lotti delle vincite. Le regolarità sospette potrebbero riguardare non solo il numero di aggiudicazioni ma anche la somma dei relativi importi.

e) Modalità ‘sospette’ di partecipazione all’asta

Può accadere che gli aderenti ad un cartello presentino le domande di partecipazione all’asta con modalità tali da tradire la comune formulazione. E’ questo il caso di: 1) comuni errori di battitura; 2) stessa grafia; 3) riferimento a domande di altri partecipanti alla medesima gara; 4) analoghe stime o errori di calcolo; 5) consegna contemporanea, da parte di un soggetto, di più offerte per conto di differenti partecipanti alla medesima procedura di gara.

Delibera e Vademecum

AVCP: Determinazione n. 5 del 6 novembre 2013 – Linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture

15 Nov 2013
15 Novembre 2013

n seguito alla conclusione della consultazione on line che si è svolta a settembre scorso, e tenuto conto delle osservazioni degli operatori del settore, l’Autorità ha elaborato la Determinazione n. 5 del 6 novembre 2013, ‘Le linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture’.

 Link:  Linee guida

Seminario Università IUAV su l’amministrazione pubblica e le fragili libertà dello straniero

14 Nov 2013
14 Novembre 2013

L'Università Iuav di Venezia nell'ambito del seminario del ciclo "Città, diritti fragili e diritti in costruzione: un percorso tra idee scritte e raccontate", organizza un incontro su "L'amministrazione pubblica e le fragili libertà dello straniero", discutendo del libro di Mario Savino “Le libertà degli altri” Giuffrè 2013.

L’evento si svolgerà a Ca' Tron il 15 novembre 2013 ed è accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia con n. 3 crediti formativi.

L'incontro, presieduto da Marco Dugato dell'Università di Bologna, prevede i seguenti interventi:

Aldo Sandulli, Università Suor Orsola di Napoli
Luigi Benvenuti, Università Ca’ Foscari
Mauro Renna, Università Cattolica di Milano
Ezio Micelli, Università Iuav di Venezia
Miguel Casino Rubio, Universidad Carlos III de Madrid
Antonio Viscomi, Università Mediterranea di Catanzaro
Sabino Cassese, Corte costituzionale.

locandina convegno

Come si misura il piano campagna?

14 Nov 2013
14 Novembre 2013

La risposta a tale interrogativo è fornita dal Consiglio di Stato che, con alcune pronunce, ha chiarito che la c.d quota zero, ovvero il piano campagna, coincide con il livello naturale del sedime che circonda l’edifico o, se esistente, con il livello della vicina strada pubblica, salvo che le norme regolamentari comunali dispongano diversamente.

A tal fine si riporta un articolo tratto dalla “Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana”, news del 11.11.2013.

Le prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici in tema di altezza e di volumetria degli edifici sono dirette a tutelare, in una visione organica e globale della zona, quegli specifici valori urbanistico - edilizi (aria, luce, vista) sui quali incidono tutti i volumi che, sporgendo al di sopradella linea naturale del terreno, modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell'ambiente, per cui va esclusa la computabilità dei volumi sottostanti al naturale piano di campagna, tranne per quei manufatti che vengono a trovarsi fuori terra a seguito di uno sbancamento del terreno. I limiti alle altezze degli edifici devono essere ancorati a dati certi e oggettivi ricavabili dalla situazione dei luoghi anteriore (Consiglio di Stato, sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4923) e, in linea generale, il computo della misura entro la quale è consentita l'edificazione, va effettuato prendendo come parametro l'originario piano di campagna, cioè il livello naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato, salvo normative regolamentari espresse (Consiglio Stato, sez. IV, 24 aprile 2009, n. 2579). Aggiungasi che, in assenza di specifiche prescrizioni delle norme urbanistiche sui criteri di calcolo dell'altezza degli edifici, quest'ultima, in caso di costruzione che insista su un'area in pendenza, va misurata rispetto al piano di campagna con riguardo a tutti i lati della costruzione stessa, in modo che il valore fissato dalle norme sia rispettato in ogni punto del fabbricato (Consiglio Stato, sez. V, 14 gennaio 1991, n. 44).Nel caso di specie l’art. 24 del Regolamento edilizio del Comune di Cicciano, al punto 10, con riguardo alla altezza delle pareti esterne, stabiliva che essa è "…la distanza verticale misurata dalla linea di terra (definita dal piano stradale o di sistemazione esterna dell’edificio) alla linea di copertura..." Al fine di consentire una interpretazione di dette generiche indicazioni (alla cui funzione si rapporta l'esigenza di regolamentare l'altezza degli edifici) in linea con i consolidati principi prima riportati, deve ritenersi che la citata disposizione identificasse la linea di terra con il piano stradale solo con riguardo agli edifici che prospettavano direttamente sulla strada. Invece, con riguardo agli immobili che, come nel caso di specie, erano arretrati rispetto alla via pubblica (e per i quali il parametro dell'altezza ha non solo detta funzione, ma anche quella di regolare i rapporti di vicinato in modo da garantire anche le esigenze di sicurezza e di igiene), detto art. 24, punto 10, del R.E. citato individuava la linea di terra nel piano di sistemazione esterna dell'edificio, da intendersi come quello originario e non quello artificialmente creato dal proprietario. Costituisce infatti indiscutibile principio logico giuridico che le disposizioni delle norme regolamentari in materia urbanistica debbono essere interpretate nel senso più logico, evitando interpretazioni atte a snaturare l’interesse pubblico che sottendono. Una interpretazione della citata disposizione diversa da quella sopra prospettata porterebbe inevitabilmente, in caso di costruzioni da realizzare in terreni scoscesi e distanti dal piano stradale, a conseguenze inaccettabili sul piano dell’ordinato sviluppo delle zone urbane perché depositi definiti "interrati", come quello per il quale è stata richiesta la impugnata concessione edilizia, verrebbero a sporgere anche per rilevante altezza da terra, con elusione delle disposizioni che ne regolano la realizzazione.

Fonte:

http://www.gazzettaamministrativa.it/opencms/opencms/_gazzetta_amministrativa/gazzetta_informa/area_tecnica/2013/novembre/News_11-11-2013/index.html#1399992396

 

Segnaliamo anche la seguente sentenza, sopra tenuta in considerazione:

CdS del 5253 del 2013

Sez. V pubblicato in "Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana" domenica 10 novembre 2013 13:22 - www.gazzettaamministrativa.it

Un’antenna può essere o no soggetta a titolo edilizio a seconda del suo rilievo

14 Nov 2013
14 Novembre 2013

Dalla lettura della sentenza del Consiglio di Stato n. 5313 del 2013 l'unica cosa che si riesce a capire con sicurezza è che un'antenna può essere oppure no assoggeatata a concessione edilizia (oggi permesso di costruire) a secondo del rilievo che tale antenna ha (potrebbe anche essere irrilevante).

Altre cose nella sentenza lasciano più perplessi, come, per esempio, l'idea che le opere un tempo soggette ad autorizzazione edilizia oggi siano soggette alla DIA, con la conseguenza che quelle abusive sarebbero soggette non all'ordine di demolizione, ma a  una sanzione pecuniaria.

In verità, dopo la modifica all'art. 27 del DPR 380 del 2001, le opere in contrasto col PRG (sempre che tale contrasto sia ravvisabile) vanno demolite, a prescindere dal fatto che in astratto, se non fossero contrarie al PRG, si potrebbero realizzare con DIA o con SCIA (quindi non si può dire che le opere abusive in astratto soggette a DIA/SCIA siano sanzionabili sempre e solo con una sanzione pecuniaria).

Si legge, infatti, nella sentenza: "Ciò posto, la Sezione concorda col primo giudice laddove ha ricordato che, per pacifica giurisprudenza, ai sensi dell'art. 1 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale, e dunque anche quando si tratti della realizzazione di una antenna destinata a stazione radio, poiché col termine “costruzione” si intende non soltanto un edificio caratterizzato da volumetria e superfici calpestabili, ma qualsiasi opera o manufatto da collocare sul territorio, la cui realizzazione è consentita nei limiti previsti dallo strumento urbanistico o da un atto ad esso equivalente (cfr. Cons. St., sez. VI 26 settembre 2003 n. 5502, richiamata dal TAR). Più puntualmente in relazione a fattispecie analoga al caso in esame, è stato affermato che l'installazione di un'antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi del cit. art. 1 della legge n. 10 del 1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione edilizia e che tale principio è stato recepito dal d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, il quale, all'art. 3, assoggetta a permesso di costruire “l'installazione di torri e tralicci per impianti radio -ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, appunto in quanto "interventi di nuova costruzione” (cfr. Cons. St., sez. VI 18 maggio 2004 n. 3193).
Tuttavia il primo giudice non ha correttamente applicato i principi suesposti. Nella specie, il Comune di Parma ha ingiunto la demolizione di antenne/parabole ad Elemedia (ed all’INAIL) ai sensi dell’art. 10, co. 1, della legge 28 febbraio 1985 n. 47, concernente “Opere eseguite senza autorizzazione”, non già ai sensi del precedente art. 7, concernente “Opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali”, sicché esso stesso si è reso conto che l’installazione dell’antenna/parabola non necessitava di concessione edilizia, bensì di autorizzazione (ovvero di d.i.a.). Del resto, a prescindere dal dato giuridico che la sanzione della demolizione non è applicabile nell’ipotesi di cui all’art. 10 della legge n. 47 del 1985, prevedente la sola sanzione pecuniaria, nella specie – come dedotto dall’attuale appellante – il Comune non si è dato carico di enucleare gli elementi di fatto in base ai quali l’antenna/parabola, di cui non è controversa l’installazione su un traliccio preesistente e regolarmente assentito, avrebbe rilievo quanto meno sul piano ambientale ed estetico e di conseguenza costituisca significativa trasformazione del territorio, dovendosi ovviamente aver riguardo a unicamente alla stessa antenna/parabola e non anche all’insieme di analoghe strutture eventualmente già presenti sull’immobile, in ipotesi sanzionabili autonomamente qualora ricorrano i prescritti presupposti. Non senza dire che, com’è ben noto, un’antenna di modeste mdimensioni, irrilevante sotto il profilo edilizio, neppure necessita di mera autorizzazione parimenti edilizia, occorrendo invece, trattandosi di impianto di emittenza radio, unicamente la ben diversa e specifica autorizzazione tecnica (nella specie, ex art. 6 della legge regionale Emilia Romagna 31 ottobre 2000, n. 30, recante “Norme per la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento elettromagnetico”)".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS 5313 del 2013

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