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Occupazione d’urgenza senza successivo esproprio

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

Segnaliamo sul punto le considerazioni della sentenza del TAR Campania - Napoli n. 3879 del 2013, giĂ  citata nei post che precedono.

Scrive il TAR: "il ricorso è fondato in maniera assorbente sotto il profilo dell’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ove si consideri che al decreto di occupazione non ha mai fatto seguito il decreto di esproprio; al riguardo è appena il caso di ribadire (10.6.2009, n.3192) che l’art.13,  comma 3, della Legge n.2359/1865 ha riguardo all’inutile spirare del termine entro cui deve compiersi l’espropriazione ed al venir meno del potere dell’Amministrazione nel caso di inosservanza di tale necessario presupposto. Tale quadro normativo non è stato modificato dal DPR n.327/2001, il cui art.13, al comma 6, contempla la sanzione dell’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità nel caso di omessa emanazione del decreto di esproprio entro il termine di cinque anni dalla data in cui è diventato efficace l’atto che aveva dichiarato la pubblica utilità dell’opera. L’operato di parte resistente va pertanto censurato proprio perché la citata previsione di cui all’art.13 costituisce un precetto posto dalla legge ed indirizzato all’Amministrazione al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri, la cui violazione integra gli estremi della violazione di legge in  quanto vizio di legittimità dell’atto amministrativo; la mancata adozione da parte dell’Amministrazione di un provvedimento di esproprio ha come conseguenza che l’originaria pubblica utilità è certamente scaduta, ragion per cui il potere ablatorio, validamente sorto, è stato colpito da  un’inefficacia sopravvenuta che sanziona ex nunc un vizio dell’iter procedimentale, integrandosi una fattispecie di cattivo esercizio del potere.
4. Ciò considerato ai fini della declaratoria dell’illegittimità dell’operato di parte resistente, occorre poi tener conto dell’orientamento comunitario (Corte Europea Diritti Uomo, 6.3.2007, n.43662) che preclude di ravvisare una “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo  titolo previsto dalla legge.
4.1 Il T.U. n.327/2001, attraverso la disciplina contenuta nell’art.43, aveva originariamente introdotto un meccanismo che attribuiva all’Amministrazione il potere di acquisire la proprietà dell’area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale al termine del procedimento nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto; il citato art. 43 era stato in definitiva emesso dal Legislatore delegato per consentire all'Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto quando il bene fosse stato <modificato per scopi di interesse pubblico> (fermo restando il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento del danno). Da un lato vi era un’interpretazione garantista, ma minoritaria, che richiedeva una motivazione esauriente delle ragioni della disposta sanatoria che provasse la sua inevitabilità (Cons. Stato, VI, 9.6.2010, n.3655); dall’altro, in maniera prevalente, si ammetteva l’applicabilità dell’istituto anche in presenza di un giudicato che riconosceva al privato il diritto alla restituzione dell’area (ex multis, Cons. Stato, IV, 22.10.2010, n.7619; V, 13.10.2010, n.7472). La Corte Costituzionale, però, con sentenza n.293 dell’8 ottobre 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del cennato art.43: muovendo dalla contrapposizione tra la Corte di Cassazione, che esclude l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, e il Consiglio di Stato, secondo il quale «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma», la Consulta ha affrontato la possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione. Preso atto che la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 ed, in particolare, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865», il giudice delle leggi ha affermato la necessità che, in ogni caso, si faccia riferimento alla ratio della delega, si tenga conto della possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato e detta discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.  In definitiva l’istituto previsto e disciplinato dall’art.43 era connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale, specie nel momento in cui si era introdotta la possibilità per l’Amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione; nel regime risultante dalla norma impugnata, inoltre, si era previsto un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa Amministrazione che aveva commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che disponeva il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Il Legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto e derogare ad ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega, dovendo piuttosto limitarsi a disciplinare in modi diversi la materia e ad espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato in analogia con altri ordinamenti europei.
4.2 A seguito dell’eliminazione dal mondo giuridico dell'istituto della cd. “acquisizione sanante” di cui all'art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001, la Sezione (a partire dalle pronunce nn.261 e 262 del 18 gennaio 2011) ha ritenuto che in siffatte ipotesi il comportamento tenuto dall’Amministrazione dovesse essere qualificato non già come illecito, bensì come illegittimo; si trattava di un’illegittimità a cui non poteva porsi rimedio neppure riesumando l'istituto di origine giurisprudenziale della cosiddetta “espropriazione sostanziale” - nelle due ipotesi alternative della occupazione acquisitiva o usurpativa - perché tale  istituto era stato ritenuto in contrasto con l'ordinamento comunitario (cfr.: T.A.R. Sicilia Palermo I, 1.2.2011 n. 175; idem III, 21.1.2011 n. 115). Del resto in nessun caso - neppure a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione dell’opera pubblica - era possibile giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presupponeva in ogni caso l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene per fatto illecito dalla sfera giuridica di parte ricorrente, originaria proprietaria, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo, non consentito dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, I, 1.7.2010, n. 1418). Pertanto, ricorrendone i presupposti le Amministrazioni sono state condannate alla restituzione a parte ricorrente degli immobili in ragione dell’accertato utilizzo degli stessi per come materialmente appresi sia pure per fini pubblicistici, atteso l’irrilevanza, nell’ottica di una eventuale traslazione della proprietà della res, che fosse stata realizzata l’opera pubblica nella misura in cui questa aveva modificato la destinazione originaria del cespite e recato un pregiudizio patrimoniale e non a carico di parte ricorrente. Tale statuizione era peraltro compatibile con la restituzione dei cespiti e facoltà dello ius tollendi concessa al proprietario dei manufatti alle condizioni previste dall'art. 935 c.c., comma 1 e art. 937 c.c., laddove il diritto al risarcimento e l’applicabilità dell’art.2058 c.c. sarebbero entrati in discussione ove si fosse rientrati nella materia risarcitoria.
4.3 In costanza di vuoto normativo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (31.5.2011, n.11963) hanno affermato che l’irreversibile trasformazione, anche parziale, del fondo determina l’acquisto della proprietà del bene, nei limiti della parte trasformata, da parte dell’Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo, mentre l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica sarebbe ordinariamente destinata ad avere esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica. Da canto suo, a titolo esemplificativo, la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, I, 12.7.2011, n.245) ha ritenuto che, proprio a seguito del citato vuoto normativo, ove il privato avesse chiesto unicamente il risarcimento del danno per equivalente in ragione dell’irreversibile trasformazione del bene, detta richiesta andava considerata come rinuncia alla restituito in integrum; comunque la richiesta del solo risarcimento per equivalente non determinerebbe un effetto abdicativo della proprietà all’Amministrazione occorrendo piuttosto un accordo transattivo tra le parti (Cons. Stato, IV, 13.6.2011, n.3561; 1.6.2011, n.3331; 28.1.2011, n.676), mentre se il privato dovesse insistere per la tutela restitutoria la stessa andrebbe disposta eccezion fatta per la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli artt.2933, comma 2 o 2058 c.c. Di recente si è poi affermato (Cons. Stato, IV, 29.8.2011, n.4833) che, essendo venuto meno il procedimento espropriativo accelerato di cui al citato art.43, la P.A. avrebbe potuto apprendere il bene facendo uso unicamente del contratto tramite l’acquisizione del consenso della controparte, ovvero del provvedimento anche in assenza del consenso ma con riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie.
4.4 Ad oltre nove mesi dalla sentenza di incostituzionalità dell’originario art.43, con l’art.34 del Decreto-Legge 6.7.2011, n.98 convertito in Legge 15.7.2011, n.111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) è stato reintrodotto attraverso l’art.42-bis l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dall’Amministrazione per fini di interesse pubblico, potendosi acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene del privato allorchè la sua utilizzazione risponde a “scopi di interesse pubblico” nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità. L’obbligo motivazionale ai sensi del nuovo comma 4 impone di dare conto dell’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del nuovo provvedimento, che entro trenta giorni va anche comunicato alla Corte dei Conti (comma 7); ancora nella nuova versione (commi 1, 2, 3 e 4) si fa riferimento all’indennizzo, piuttosto che al risarcimento del danno, quale corrispettivo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, ciò forse per la liceità dell’attività, non retroattiva, posta in essere dall’Autorità agente. Laddove prima, anche in sede di contenziosi diretti alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la P.A. poteva chiedere che il giudice amministrativo disponesse la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione, e successiva adozione del provvedimento sanante dall’Amministrazione interessata, ora (comma 2) il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche in corso di giudizio di annullamento previo ritiro dell’atto impugnato; il potere acquisitivo dell’Amministrazione è esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l’utilizzazione dell’immobile da parte della stessa Amministrazione, atteso che il giudicato è intervenuto sull’atto annullato e non sul rapporto tra privato ed Amministrazione. Il nuovo atto, che l’Amministrazione è legittimata ad adottare finchè perdura lo stato di utilizzazione pur se illegittima del bene del privato, è distinto da quello annullato, tant’è che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del provvedimento annullato; in ogni caso la P.A. deve porre in essere tutte le iniziative necessarie per porre fine alla perdurante situazione di illiceità, restituendo il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l’utilizzazione del suolo, dovendo in caso contrario acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse. Premesso che in ogni caso non sarà possibile la restituzione della nuda proprietà superficiaria al privato, atteso che ciò che rileva è appunto l’idoneità del bene del privato a soddisfare, attraverso la sua trasformazione fisica, l’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione, la prima giurisprudenza (T.A.R. Sicilia, Catania, III, 19.8.2001, n.2102) successiva all’entrata in vigore del nuovo art.42- bis ha ritenuto che il giudice amministrativo, anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi e nella logica di valorizzare la ratio della novella legislativa di far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che gli effetti indennitari e/o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della PA, possa accogliere la domanda risarcitoria derivante dall’occupazione senza titolo di un bene privato per scopi di interesse pubblico, se irreversibilmente trasformato, differendone però gli effetti all’emissione di un formale provvedimento acquisitivo ai sensi dello stesso art.42-bis. Si potrebbe obiettare che si prescinde in tal modo dalle problematiche di carattere applicativo e che l’acquisizione sanante è inidonea a fungere da strumento di giuridico di tutela del principio di legalità, ma è un dato che la previsione di una “legale via d’uscita” con l’esercizio di un potere basato sull’accertamento dei fatti e sulla valutazione degli interessi in conflitto (che di fatto trasforma un comportamento in un’attività amministrativa supportata dalla presunzione di legittimità) è già stata ritenuta immune da questioni di costituzionalità (Cons. Stato, VI, 15.3.2012, n.1438) in quanto conforme alle disposizioni della CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che in passato ha condannato la Repubblica italiana proprio perché i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita della proprietà in assenza di un valido provvedimento motivato. L’art. 42-bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A., non ripropone lo schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art.43, che attribu iva all’Amministrazione la facoltà e l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria ed al giudice il potere di escludere senza limiti di tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di acquisizione. Ciò nonostante, il potere discrezionale dell’Amministrazione di disporre l’acquisizione sanante è conservato (Cons. Stato, IV, 16.3.2012, n.1514): l’art.42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio” od anche, “durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti citati, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira”; non regola più invece, come innanzi accennato, i rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna del giudice e successiva attività dell’Amministrazione, sicchè ove il giudice, in applicazione dei principi generali condannasse l’Amministrazione alla restituzione del bene, il vincolo del giudicato eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante dell’Amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore. L’ordinamento sovranazionale che lo Stato ha recepito, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo Protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. T.A.R. Umbria, 22.10.2012, n.451; Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2012 n. 5189).
5. Il Collegio ritiene dunque che, atteso che non può più essere azionato il meccanismo procedimentale accelerato previsto dal citato art.43 (Cons. Stato, IV, 29.8.2012, n.4650) e che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non  in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà (Cons. Stato, IV, 29.8.2011, n.4833; 28.1.2011, n.676), l'Amministrazione possa divenire proprietaria o al termine del procedimento, che si conclude sul piano fisiologico con il decreto di esproprio o con la cessione del bene espropriando, oppure quando, essendovi una patologia per cui il bene è stato modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, viene emesso il decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell'art. 42-bis, indennizzando il proprietario per il mancato utilizzo del bene (5% di interesse annuo sul valore venale di ogni anno), per il lamentato danno patrimoniale (al valore venale attuale) e non patrimoniale (10% del valore venale attuale salvo casi particolari in cui è il 20%). In verità deve ritenersi possibile (T.A.R. Sicilia, Palermo, 5.7.2012, n.1402) l’usucapione da parte della Pubblica Amministrazione in presenza dei presupposti di cui all’art.1158 c.c. (possesso ininterrotto, non violento, non clandestino, da oltre un ventennio) ed alle condizioni di cui al D. Lgs. n.28/2010, con possibilità di un risparmio di spesa dovendosi corrispondere solo danno non patrimoniale e da mancato utilizzo. Sul punto la giurisprudenza ha precisato che “Il Tribunale Amministrativo é competente a decidere circa l'eccezione di intervenuta usucapione in materia espropriativa ricondotta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 34 D. Lg. n.80 del 1998 ed oggi ai sensi dell'art.53 del T.U. espropriazioni” (Tar Catania, II, 14.7.2009, n. 1283). Ove poi si ritenga che la pronuncia sull’usucapione non rientra nell’ambito rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, primo comma, lett g) c.p.a. in quanto la specifica questione non è riconducibile, anche mediatamente, all’esercizio del pubblico potere, si deve affermare che, se il giudice amministrativo può conoscere in via incidentale di tutte le questioni pregiudiziali relative a diritti ai sensi dell’art. 8 c.p.a. nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva, a maggior ragione ne può conoscere alla stessa stregua nelle materie in cui ha giurisdizione esclusiva; al giudice ordinario, per contro, sono devolute tutte le controversie relative all’accertamento del possesso ventennale ininterrotto necessario per l’usucapione in quanto, ove l’interesse di parte ricorrente fosse da correlarsi unicamente al dedotto diritto di proprietà derivante dall’acquisto a titolo originario per intervenuta usucapione, sulla controversia deve pronunciarsi il giudice ordinario. In sede di conferma della citata pronuncia n.1402 del 2012 del TAR Palermo, si è ancora affermato (Cons. Giust. Ammin., 14.1.2013, n.9) che l’avvenuta usucapione estingue non solo ogni sorta di tutela reale spettante al proprietario del fondo ma anche quelle obbligatorie tese al risarcimento dei danni subiti poiché, retroagendo gli effetti dell’usucapione - quale acquisto a titolo originario – al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, “viene meno ab origine” il connotato di illiceità del comportamento della PA che occupava “sine titulo” il bene poi usucapito. 5.1 Quando si accerta l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione e la rilevanza nel giudizio dei principi quali desumibili dal menzionato art.42-bis, l’accoglimento del ricorso e la condanna dell’Ente al  risarcimento pongono il problema dell’eventuale applicazione dell’art.5-bis del D.L. n.333 del 1992, convertito in Legge n.359 del 1992; al riguardo occorre precisare che, con riguardo al comma 7-bis di tale articolo come introdotto dall’art.3, comma 65, della Legge n.662 del 1996, la Corte Costituzionale di recente (24.10.2007, n.349) ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in quanto non prevederebbe un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della Pubblica Amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, dunque in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art.1 del Protocollo addizionale alla CEDU e con lo stesso art.117, primo comma, Cost. Quanto alla misura dell’indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea (29.3.2006, Scordino) è ormai costante l’affermazione secondo cui “una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo”, non potendosi garantire in tutti i casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale in quanto obiettivi legittimi di pubblica utilità possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo. In ogni caso la liquidazione del danno per l’occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà come garantito dalla norma convenzionale. Il danno subito da parte ricorrente va dunque liquidato tenendo conto non della rendita catastale quale è un mero valore fiscale impresso dall’Amministrazione agli immobili a meri fini tributari, bensì del valore di mercato (o venale) del bene ablato, da determinarsi attraverso la valutazione delle caratteristiche intrinseche dell’immobile e delle sue eventuali potenzialità edificatorie, la verifica dei prezzi risultanti da atti di compravendita di immobili finitimi con analoghe caratteristiche ed il valore accertato dal Ministero delle Finanze rivalutato alla data dell’irreversibile trasformazione, mentre sulla somma così determinata andranno calcolate la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale. Quanto al danno non patrimoniale, premesso che le disposizioni di cui al comma 1 del citato art.42-bis sono rivolte non al giudice bensì all’Amministrazione che procederà o meno alla liquidazione dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale subito – mentre il giudice potrà valutare la legittimità dell’attività amministrativa solo ex post ove sia chiamato a sindacare l’operato della P.A., esso è risarcibile (Cons. Stato, IV, 9.1.2013, n.76; Cass. Civ., SS. UU., 11.11.2008, n.26972) nei soli casi “previsti dalla legge” e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.2059 c.c., a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale); b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un’ipotesi di  reato (ad es. nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice. Occorrerà dunque verificare la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale derivante da attività o comportamenti illegittimi o illeciti della P.A., a ciò provvedendo il giudice in quanto ne venga investito a domanda di parte atteso che il diritto al risarcimento del danno è un diritto disponibile. Ai sensi dell’ultima parte del secondo comma dell’art.42-bis, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale, devono essere detratte da quelle dovute ai sensi del nuovo atto. Ove invece venga disposta l’acquisizione ai sensi del citato art.42-bis, atteso che ai sensi del comma 3 della stessa norma l’indennizzo deve tener conto della misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità - mentre se l’occupazione riguarda un terreno edificabile occorre aver riguardo ai commi 3, 4, 5, 6 e 7 dell’art.37, andrà risarcito il danno relativo al periodo della utilizzazione senza titolo, nonché l’importo spettante in base alle vigenti disposizioni oltre interessi moratori. Per il periodo di occupazione illegittima il danno da risarcire deve essere forfettariamente determinato nella misura fissa dell’interesse del 5% annuo sul valore venale del bene".

La tutela del possesso davanti al giudice amministrativo si svolge con le forme proprie del processo amministrativo e non con l’applicazione dell’articolo 703 c.p.c.

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Campania - Napoli n.  3879 del 2013, già allegata al post che precede.

Scrive il TAR: "Ritenuta dunque la giurisdizione sulla domanda di reintegra nel possesso proposta da parte ricorrente, resta da stabilire se le forme di tutela siano quelle previste dall’art 703 c.p.c., che rinvia agli art. 669 bis e ss. c.p.c., oppure quelle proprie del processo amministrativo. Ritiene il Collegio di seguire la seconda impostazione, poiché, come ha rilevato la Corte Costituzionale – investita di una questione di legittimità con riferimento all’inesistenza di un tutela cautelare ante causam avanti al g.a. – l’applicazione di istituti processual-civilistici non è giustificabile qualora le esigenze ad essi sottese vengano effettivamente tutelate da istituti propri del processo amministrativo (idem T.A.R. Umbria, 4.9.2002, n. 652). Nel caso in esame l’esigenza di tutela immediata, soddisfatta dagli artt. 703-669 bis e ss. c.p.c., è efficacemente garantita mediante il procedimento di cui all’art 23-bis della Legge n.1034/1971 (ora art.119 del Decr. Legisl. 2/7/2010, n.104 di riordino del processo amministrativo), di cui sussistono tutti i presupposti applicativi (essendo, in particolare, la controversia oggetto del presente giudizio contemplata dalla lettera b) del medesimo articolo).
Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi. Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per  le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, 1.2.2011, n. 175)".

Sulla giurisdizione amministrativa e ordinaria in materia espropriativa

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Campania - Napoli n. 3879 del 2013.

Scrive il TAR: "In punto di giurisdizione la Sezione ritiene di non aver motivo per discostarsi nella circostanza dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto – devolute come tali alla giurisdizione ordinaria, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purchè vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (Cons. Stato, IV, 4.4.2011, n.2113; T.A.R. Lombardia, Brescia, I, 18.12.2008, n.1796; 1.6.2007, n.466; Cons. Stato, A.P. 30.7.2007, n.9 e 22.10.2007, n. 12; T.A.R. Basilicata, 22.2.2007, n.75; T.A.R. Puglia, Bari, III, 9.2.2007, n.404; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 18.12.2007, n.6676; T.A.R. Lazio, Roma, II, 3.7.2007, n.5985; T.A.R. Toscana, I, 14.9.2006, n.3976; Cass. Civ., SS.UU.,  20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193). Mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa rientrano nella giurisdizione ordinaria, così come il giudice amministrativo - nello stabilire l’importo del danno da ablazione illegittima - non può includervi anche  quanto dovuto per il periodo di occupazione legittima, la cui valutazione pure è di spettanza del giudice ordinario a norma degli artt. 53, comma 3 e 54 T.U. 8 giugno 2001, n. 327, viceversa sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e, in generale, di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità.
2.1 Chiarito che in materia di espropriazione sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo ogni qualvolta la richiesta risarcitoria oggetto del giudizio tragga origine da una procedura espropriativa avviata e non conclusa, va ricordato che ancora di recente si è affermato (Cons. Stato, IV, 2.3.2010, n.1222) che l’art.53 del DPR n.327/2001, per come ispirato al principio di concentrazione dei giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai provvedimenti che impongono il vincolo preordinato all’esproprio e a quelli che dispongono la dichiarazione di pubblica utilità: una volta attivato il procedimento caratterizzato dall’esercizio del pubblico potere, sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva in relazione a tutti i conseguenti atti e comportamenti e ad ogni controversia che sorga su di essi, anche quando trattasi di procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modificazione di un’opera pubblica e di atti strumentali alla realizzazione di detta finalità pubblica (Cass. Civ., SS. UU., ord.za 16.12.2010, n.25393). Si è dunque in presenza di una fattispecie riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per come derivante da esercizio di un pubblico potere, anche nel caso in cui si lamenti formalmente l’occupazione di aree non comprese nell’ambito della procedura espropriativa, ma in realtà si abbia riguardo al decreto di esproprio, cioè alla determinazione del suo effettivo contenuto, per la dedotta occupazione di una superficie superiore a quella presa in considerazione da una precedente ordinanza di occupazione d’urgenza, poiché ai fini della liceità o meno va verificato lo specifico contenuto degli atti e degli accordi posti in essere nel corso del procedimento ablatorio".

sentenza TAR Campania - Napoli 3879 del 2013

Incostituzionale anche la legge veneta sull’addestramento dei cani da caccia

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

La Corte Costituzionale, con la sentenza 193/2013 depositata il 17 luglio 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle recenti disposizioni di Veneto e Lombardia che avevano sancito la possibilità di estendere l’addestramento dei cani da caccia su tutto il territorio regionale e fuori dai periodi consentiti dal calendario venatorio. In particolare, sono stati dichiarati incostituzionali l’art. 2, comma 3, della legge della Regione Veneto 10 agosto 2012, n. 31 ( Disciplina della attività di movimento dei giovani cani nella parte in cui prevede che l’attività di movimento di giovani cani da esso consentite possano riguardare i giovani cani da destinare all’esercizio della attività venatoria), l’art. 2 comma 2 della legge della Regione Veneto 10 agosto 2012, n. 31 (disciplina delle attività di movimento dei giovani cani nella parte in cui, rinviando all’art. 4 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 1993, n. 60 consente che si possa procedere alla identificazione dei giovani cani mediante tatuaggio)e la legge della Regione Lombardia 31 luglio 2012, n. 15 (Modifiche alla legge regionale 16 agosto 1993, n. 26 «Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria»). I rilievi alla Corte erano stati mossi dal Presidente del Consiglio dei Ministri con ricorsi notificati il 2 e il 4 ottobre 2012 e il 16 e il 19 ottobre 2012. In entrambi i ricorsi si contestava la possibilità di aprire l’attività di addestramento cani prima del periodo consentito e su tutto il territorio regionale

La Regione Veneto, costituita in giudizio, rilevava che gli articoli impugnati riguarderebbero norme che, in assenza di necessarie disposizioni attuative-integrative della disciplina, erano inidonee a generare un vulnus alle prerogative costituzionali garantite dallo stato in materia ambientale. Secondo la Regione, l’art. 2 comma 3, non si sarebbe posto in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione in quanto “in primo luogo, la norma regionale escluderebbe inequivocabilmente la praticabilità delle attività di movimento dei giovani cani nelle zone di protezione previste dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) e nelle zone di protezione della fauna previste dalla legge n. 157 del 1992, in evidente conformità alla finalità di conservazione dell’ambiente e della fauna selvatica alle quali entrambe le regolazioni di tipo statale sono indiscutibilmente finalizzate. In secondo luogo, lo stesso art. 2 citato, al comma 5, attribuisce alla Giunta regionale il compito di definire modalità attuative e limiti all’applicabilità della norma, in attinenza con la specificità delle razze e le peculiarità agronomiche, faunistiche e orografiche del territorio; mentre il successivo articolo 3 conferisce alla Provincia il potere di emanare, in aggiunta a quelli di spettanza della Giunta regionale, ulteriori limitazioni ai luoghi, agli orari ed al periodo di esercizio delle attività motorie de quibus. Ne conseguirebbe, a parere della Regione, che sia l’organo esecutivo regionale che la Provincia, nell’ambito delle rispettive competenze, potranno, con successivo autonomo intervento attuativo, introdurre quelle limitazioni giustificate dalla morfologia del territorio interessato dall’attività, al fine di mantenere inalterato l’obiettivo di tutela perseguito dal legislatore statale anche escludendo delle zone del territorio regionale e vietando l’esercizio delle attività de quibus nei periodi interessati dalla nidificazione. Passando all’esame dell’art. 2, comma 2, la difesa della Regione osserva che la norma rinvia all’anagrafe canina ed al sistema di identificazione ai sensi dell’art. 4 della legge regionale 28 dicembre 1993, n. 60 (Tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo) e che tale art. 4 contempla espressamente non solo la tecnica di identificazione mediante tatuaggio ma anche «altro sistema di identificazione indicato dalla Giunta regionale»”.

Secondo la Corte, invece, “la norma censurata ha ad oggetto, tra l’altro e per quanto qui interessa, l’attività di movimento dei giovani cani «ivi compresi quelli da destinare all’esercizio di attività venatoria» con «insegnamenti comportamentali secondo lo stile di razza». Tale attività, ad avviso di questa Corte, non può che identificarsi con quella di addestramento ed allenamento dei cani da caccia, poiché ad altro non può alludere il riferimento agli «insegnamenti comportamentali» quando si tratta di razza utilizzata per la caccia”. Ne consegue, sempre secondo la Corte, che “anche in questo caso si deve pertanto concludere nel senso della illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.”.

Quanto al comma 2 dell’art. 2 della legge della Regione Veneto n. 31 del 2012, esso rinviando all’art. 4 della legge regionale n. 60 del 1993 (Tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo), che ammette il sistema di identificazione dei cani mediante tatuaggio, contrasterebbe sia con la normativa comunitaria, in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., sia con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. secondo la Corte “l’art. 4 della legge regionale n. 60 del 1993, cui la norma impugnata rinvia, contempla espressamente il sistema di identificazione mediante tatuaggio, sia pure in alternativa ad «altro sistema di identificazione indicato dalla Giunta regionale». Ciò è in palese contrasto con l’art. 4, comma 1, del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 998/2003 del 26 maggio 2003 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle condizioni di Polizia sanitaria applicabili ai movimenti a carattere non commerciale di animali da compagnia e che modifica la direttiva 92/65/CEE del Consiglio). La norma comunitaria, infatti, prevede che, dopo un periodo transitorio (di otto anni), nel corso del quale sono consentiti quali mezzi di identificazione dei cani sia il tatuaggio sia il sistema elettronico di identificazione (cosiddetto trasponditore o microchip), a decorrere dal 3 luglio 2012 i cani si identificano solo con il microchip… La norma impugnata è quindi costituzionalmente illegittima nella parte in cui consente, attraverso il rinvio al procedimento di identificazione ai sensi dell’art. 4 della legge regionale n. 60 del 1993, che si possa procedere alla identificazione dei giovani cani mediante tatuaggio.”

dott.sa Giada Scuccato

corte cost. 193-2013

Se il tribunale annulla il titolo edilizio, va disposta la rimessione in pristino; la sanzione pecuniaria è applicabile soltanto in caso di annullamento per vizi formali e non sostanziali

30 Lug 2013
30 Luglio 2013

Lo ribadisce il TAR Veneto nella sentenza n. 939 del 2013.

Scrive il TAR: "Sul punto va richiamato l’orientamento già espresso dal Tribunale, col quale è stato sottolineato che ” … a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione è tenuta in via di principio, quale conseguenza vincolata del disposto annullamento, ad ordinare la rimessione in pristino; che quindi la misura reale costituisce conseguenza diretta e doverosa a fronte di un intervento che è stato realizzato in forza di un titolo annullato, come nel caso di specie, per contrasto con le prescrizioni urbanistiche disciplinanti l’area nella quale è stato realizzato; ritenuto, come già osservato dal Tribunale in fattispecie analoga, che “…la regola immanente all’art. 38, comma 1 D.P.R. 380 del 2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione reale che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come della sua mancanza ab origine) non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa. La sanzione alternativa pecuniaria, ex at. 38, comma 1 D.P.R. 380 del 2001 deve intendersi, infatti, riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali, e non anche sostanziali” (così, T.A.R. , Veneto, II, n. 1772/2011)” (cfr. T.A.R. Veneto, II, ord. n. 115/2013)".

sentenza TAR Veneto 939 del 2013

Provincia di Verona: nuovo PTCP 2013 – adottato con DCP n. 52 del 27/06/2013 – misure di salvaguardia

30 Lug 2013
30 Luglio 2013
Il Nuovo Piano Territoriale Coordinamento Provinciale è stato adottato con deliberazione di Consiglio Provinciale n. 52 del 27 giugno 2013.
Dell'avvenuto deposito presso la Provincia di Verona è stata data notizia nel BURV n. 61 del 2013

Tutti gli elaborati del nuovo PTCP adottato sono consultabili al seguente link

Per quanto riguarda il PTCP, il Rapporto Ambientale e la Sintesi non tecnica del PTCP chiunque potrà far pervenire le proprie osservazioni, preferibilmente utilizzando la modulistica disponibile sul sito della Provincia di Verona, entro venerdì 20 settembre 2013.

Art. 2 – Normativa tecnica

1. Ai sensi dell’art. 22, comma 3, lett. c), della L.R. 11/2004 la presente normativa tecnica di PTCP è costituita da:

a. direttive, ovvero il complesso di disposizioni volte a fissare obiettivi di trasformazione, tutela e valorizzazione del territorio necessari per la redazione degli strumenti di pianificazione di livello inferiore, dei piani settoriali del medesimo livello di pianificazione o di altri atti di pianificazione o programmazione degli enti pubblici;

alle disposizioni incompatibili dei vigenti strumenti di pianificazione – gli usi ammissibili e le trasformazioni consentite;

b. prescrizioni, ovvero il complesso di norme che incidono direttamente sul regime urbanistico dei beni disciplinati e regolano – in via immediata e prevalente rispetto  alle disposizioni incompatibili dei vigenti strumenti di pianificazione – gli usi ammissibili e le trasformazioni consentite;

c. vincoli, ovvero l’indicazione degli effetti prodotti da fonti giuridiche diverse dal PTCP che incidono direttamente sul regime giuridico dei beni disciplinati, regolando gli usi ammissibili e le trasformazioni consentite secondo le modalità previste dalle singole normative istitutive dei vincoli stessi.

2. Negli articoli che seguono, all’inizio di ciascun comma, e, ove occorra, all’inizio di ciascun paragrafo, viene esplicitato fra parentesi se la norma costituisce una prescrizione

(P). In mancanza di diversa indicazione, la norma deve intendersi come direttiva da attuare nella redazione dei piani di competenza comunale.

3. Il PTCP, nella parte in cui descrive vincoli giuridici preesistenti e derivanti da fonti giuridiche diverse, svolge una funzione meramente ricognitiva della condizione giuridica delle aree già determinatasi in forza di norme giuridiche comunitarie, statali o regionali vigenti. Ciascun tipo di vincolo resta individuato e disciplinato integralmente ed esclusivamente dalle norme e dai provvedimenti istitutivi; rimane pertanto priva di autonomi effetti giuridici la riproduzione cartografica di detti vincoli nel PTCP nel caso in cui quest’ultima, per eventuali errori o imprecisioni, differisca nella esatta localizzazione o estensione dell’ambito individuato dalle norme e dai provvedimenti istitutivi del vincolo.

 Ai sensi e per gli effetti dell'art. 29, comma 2, della L.R. 11/2004: " 2. Dall'adozione del piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) e del piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), o di loro eventuali varianti e fino alla loro entrata in vigore, e comunque non oltre cinque anni dalla data di adozione, il comune è tenuto a sospendere ogni determinazione sulle domande relative ad interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio che risultino in contrasto con le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani."

 Elenco delle prescrizioni del PTCP adottato che fanno salvaguardia:

  Art. 49 - Area nucleo, isola ad elevata naturalità e corridoio ecologico

Art. 73 - Poli scolastici5. (P) Fino all’approvazione degli accordi di cui ai commi precedenti sono ammessi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su tutti gli edifici esistenti adibiti ad

1. (P) Nelle more dell’adeguamento dei piani di competenza comunale al PTCP all’interno delle aree nucleo, delle isole ad elevata naturalità e corridoi ecologici è comunque ammessa:

a. la realizzazione di edificazioni private, secondo le previsioni degli strumenti urbanistici comunali vigenti e secondo le norme che derogano agli stessi, qualora i soggetti attuatori degli interventi utilizzino accorgimenti costruttivi atti a minimizzare l'impatto ambientale, paesaggistico, il consumo energetico e gli effetti da inquinamento acustico e luminoso, adottando tecniche di bioingegneria e ingegneria ambientale;

b. la realizzazione di infrastrutture di interesse pubblico strade, ferrovie, edifici, impianti, ecc , adottando tecniche di bioingegneria e ingegneria ambientale.

2. (P) I progetti di nuova costruzione di infrastrutture di interesse pubblico (strade, ferrovie, edifici, impianti, ecc) dovranno prevedere interventi di compensazione ambientale idonea a mantenere costante o migliorare l’indice di equilibrio ecologico esistente, quantificati con metodi analitici.

Art. 50 - Area di connessione naturalistica

1. (P) I progetti di nuova costruzione di infrastrutture di interesse pubblico (strade, ferrovie, edifici, impianti, ecc) dovranno prevedere interventi di compensazione ambientale idonea a mantenere costante o migliorare l’indice di equilibrio ecologico esistente, quantificati con metodi analitici.

 Art. 73 - Poli scolastici

5. (P) Fino all’approvazione degli accordi di cui ai commi precedenti sono ammessi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su tutti gli edifici esistenti adibiti ad istruzione superiore.
Art. 74 - Infrastrutture scolastiche non connesse

1. (P) Per le infrastrutture esistenti non connesse è prevista la manutenzione ordinaria e straordinaria nonché gli ampliamenti necessari per la funzionalità dell’immobile esistente finalizzati agli indirizzi scolastici presenti all’adozione del presente piano e di quelli strettamente connessi e subordinatamente all’accertamento da parte della Provincia dell’inopportunità del trasferimento in uno dei poli scolastici individuati.

Art. 78 – Rete viaria principale.

1. (P) L'accesso a questa rete viaria potrĂ  avvenire solamente attraverso svincoli con viabilitĂ  pubblica di vario rango, escludendo accessi privati, eventualmente da servirsi attraverso controstrade da ricondurre agli svincoli regolamentari.

2. (P) Sulle strade ad una corsia per ogni senso di marcia sarĂ  possibile la realizzazione di impianti di rifornimento carburanti solamente se rispondenti alle norme vigenti in materia prevedendo necessariamente, salva impossibilitĂ  tecnica, la predisposizione di impianti fronteggianti, anche se sfalsati, e visibili nei due sensi di marcia in modo da evitare l'attraversamento dei flussi di traffico.

La proroga dell’autorizzazione di una media struttura di vendita

29 Lug 2013
29 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza del 24 luglio 2013 n. 981, si occupa della proroga per l’attivazione di alcune medie strutture di vendita, materia attualmente regolata dalla Legge Regionale Veneto n. 50/2012: “La legge regionale n° 42 del 2012 è stata pubblicata sul BUR del 2 Novembre 2012, è entrata in vigore il 17 Novembre 2012 ed è stata abrogata dall’art. 30 comma 1 lettera g) della legge regionale n° 50 del 2012 con effetto dal 1 Gennaio 2013.

L’art. 5 della legge regionale n° 42 del 2012 stabilisce che i procedimenti amministrativi aventi ad oggetto l’autorizzazione commerciale relativa alle fattispecie di cui agli articoli 1, 2 e 3 della legge regionale n° 42 del 2012, attivati precedentemente all’entrata in vigore della legge stessa, sono riesaminati ad istanza di parte, tenuto conto degli articoli 1, 2 e 3 della legge stessa.

L’art. 2 della legge regionale n° 42 del 2012 stabilisce che l’articolo 10 della legge regionale n° 15 del 2004 si interpreta nel senso che agli esercizi di vicinato ed alle medie strutture di vendita, ubicate all’interno dei parchi commerciali oggetto di ricognizione ai sensi del comma 7 dell’art. 10 della legge regionale n° 15 del 2004, si applicano le disposizioni di cui all’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998.

Dunque, per effetto dell’art. 2 della legge regionale n° 42 del 2012, l’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998 si applica anche alle medie strutture di vendita comprese in un parco commerciale.

In tal caso non si applica più l’art. 23 della legge regionale n° 15 del 2004, che prevede una disciplina della proroga più restrittiva rispetto all’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998, nel senso di richiedere una sola proroga fino ad un massimo di un anno.

Invece l’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998 si limita ad ammettere la proroga in caso di comprovata necessità, senza porre limiti espressi con riferimento al numero delle proroghe ed alla determinazione del periodo di proroga.

La ratio della legge n° 42 del 2004 è quella di evitare una disparità di disciplina tra medie strutture di vendita ubicate all’interno di parchi commerciali e le medie strutture di vendita non ubicate all’interno di parchi commerciali.

La ratio non è invece quella di offrire maggiori libertà di prorogare i termini di attivazione degli esercizi commerciali connessi al rilascio dei provvedimenti autorizzativi.

Quanto sopra risulta evidente, considerando che il settimo comma dell’art. 18 della legge regionale n° 50 del 2012 (in vigore dal 1 Gennaio 2013) stabilisce che le medie strutture di vendita sono attivate nel termine di decadenza di due anni dal rilascio dell’autorizzazione commerciale o dalla presentazione della SCIA, salva la potestà del comune di prorogare per una sola volta il termine in caso di comprovata necessità, su motivata richiesta dell’interessato da presentarsi entro il predetto termine.

Dunque con la legge regionale n° 50 del 2012 è stata posta una disciplina più restrittiva (in relazione alla determinazione del periodo massimo di proroga ed alla possibilità di prorogare per una sola volta) alle proroghe rispetto a quella posta dall’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998, confermando con ciò che l’intento della legge n° 42 del 2012 non era quello di andare nella direzione di una maggiore possibilità di concessione delle proroghe, ma invece quello di evitare la sopra richiamata disparità di disciplina tra medie strutture di vendita ubicate all’interno di parchi commerciali e le medie strutture di vendita non ubicate all’interno di parchi commerciali.

In ogni caso il procedimento avviato ai sensi dell’art. 5 della legge regionale n° 42 del 2012 consente ulteriori proroghe senza una rigida predeterminazione del periodo di proroga purché sia fornita una rigorosa dimostrazione della necessità della proroga”.

 

Per quanto concerne il momento in cui richiedere la proroga il Collegio afferma: “Gli artt. 2 e 5 della legge regionale n° 42 del 2012 consentono all’amministrazione di riesaminare i procedimenti amministrativi “attivati” che riguardano la proroga delle autorizzazioni commerciali, ma non introducono una deroga al principio, riconosciuto dalla costante giurisprudenza per quanto attiene alla disciplina del termine di attivazione di un’iniziativa commerciale od edilizia autorizzata, secondo cui la richiesta di proroga del termine deve essere presentata prima della scadenza del termine originario (così Consiglio di Stato IV n° 360 del 2013).

Tale principio non è derogato né dall’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998 né dalla legge regionale n° 42 del 2012.

Infatti la possibilità di prorogare i termini di attivazione degli interventi edilizi e commerciali autorizzati, successivamente alla loro scadenza, metterebbe in pericolo l’attuazione della programmazione commerciale ed urbanistica e pregiudicherebbe il necessario ordine disciplinatorio degli interventi”.

 

Infine il Collegio, dopo aver ribadito che la proroga dell’autorizzazione richiede una motivazione specifica che dia contezza delle ragioni che la giustificano, si sofferma sulla comunicazione di avvio del procedimento chiarendo che: “Risulta pertanto evidente che l’amministrazione non ha nei fatti consentito la partecipazione al procedimento di parte ricorrente perché la decisione dell’amministrazione è stata adottata prima che fosse decorso un termine congruo, tale da permettere in concreto la partecipazione procedimentale.

Sotto tale profilo il collegio evidenzia che la comunicazione di avvio del procedimento, adottata in data 19 Dicembre 2012, non conteneva il termine entro cui i controinteressati nel procedimento amministrativo avrebbero potuto fornire le proprie valutazioni, né evidenziava motivi di urgenza che avrebbero richiesto una partecipazione da parte dei controinteressati entro termini stringenti.

In difetto di tale specifica indicazione del termine a controdedurre, il collegio reputa che di norma il termine congruo può essere definito quello avente la durata di quindici giorni (un’indicazione normativa può trarsi sotto tale profilo dall’art. 7 comma 1 del D.P.R. n° 184 del 2006), termine che nel caso di specie non è stato rispettato.

Al riguardo si deve considerare che il termine di quindici giorni per controdedurre deve decorrere dal ricevimento della comunicazione di avvio del procedimento perché, prima del ricevimento, il soggetto interessato non è nelle condizioni di controdedurre.

Tuttavia, anche considerando, in ipotesi astratta, come termine iniziale non la data di ricevimento della comunicazione di avvio del procedimento, ma la data di adozione della comunicazione di avvio del procedimento, l’amministrazione non ha comunque rispettato il termine.

Il collegio evidenzia che il rispetto delle regole partecipative cristallizzate dalla legge n° 241 del 1990 impone che la comunicazione di avvio del procedimento venga effettuata in tempo e con modalità tali da consentire la partecipazione influente ed efficace dei soggetti interessati al processo decisionale destinato a sfociare nella determinazione finale potenzialmente lesiva. Ne deriva che il rispetto formale della disciplina di legge non esclude l'effetto invalidante sortito da una condotta amministrativa che, nel suo complesso, finisca per impedire una partecipazione utile da parte del soggetto portatore di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato (così Consiglio di Stato V n° 3470 del 2012)”.

 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 981 del 2013

La nuova definizione di bosco

29 Lug 2013
29 Luglio 2013

La Giunta Regionale, con DGRV n. 1319/2013 ha approvato, in attesa di pubblicazione sul BURV, le "Norme di attuazione dell’art. 14 della L.R. n. 52/1978 come modificato con l’art. 31 della L.R. n. 3/2013 relativamente alla nuova definizione di bosco."

DGRV bosco

DGRV bosco AllegatoA

NovitĂ  in materia di energia

29 Lug 2013
29 Luglio 2013

Si comunica che è disponibile la procedura aggiornata per l'esportazione di "APE" mediante la metodologia di calcolo semplificato DOCET, in conformità al Decreto Legge 63 del 05 giugno 2013 e alla successiva Circolare n. 12976 del 25 giugno 2013 del Ministero dello Sviluppo Economico.

Si ricorda che sul sito www.xclima.it è disponibile il software DOCETpro per la certificazione energetica degli edifici di nuova costruzione ed esistenti, residenziali e non residenziali.

Disposizioni regionali di indirizzo e di coordinamento in materia di turismo

26 Lug 2013
26 Luglio 2013

La Regione Veneto, con la DGRV in attesa di pubblicazione sul BURV, provvede a fornire le prime indicazioni operative e gestionali di applicazione della nuova legge nel settore del turismo (l.r.Veneto 14 giugno 2013 n. 11) che interessano sia gli operatori turistici che le province e gli enti locali.

Si sottolinea che nell'Allegato A si definiscono altresì le disposizioni per la semplificazione dei procedimenti amministrativi che si vengono a determinare con l’entrata in vigore della legge regionale n. 11/2013, rispetto alla previgente legge regionale n. 33/2002.

DGRV turismo

DGRV AllegatoA

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