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Il muro di contenimento non è una costruzione

25 Lug 2013
25 Luglio 2013

La Corte d’Appello di Venezia, sez. II civile, nella sentenza del 23 aprile 2013 n. 969, chiarisce che il muro di contenimento e la sua (eventuale) sopraelevazione non costituiscono una costruzione atteso che il concetto di costruzione non si identifica con quella di edificio poiché “si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (cass. Sentenza n. 15972 del 27/07/2011); in tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 cod. civ. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parte naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento (Sentenza n. 14 del 10/01/2006); la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche (Sentenza n. 145 del 10/01/2006); rappresentano, invece, certamente costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cass. Sentenza n. 1345 del 10/01/2006; cass. Sentenza n. 1217 del 22/01/2010)”.

Di conseguenza: “ritiene questa Corte che per la parte in cui il muro costituisce contenimento della parete naturale o scarpata lo stesso non è qualificabile come costruzione, mentre la parte in sopraelevazione rappresenta “muro di cinta” ex art. 878 c.c. che non costituisce costruzione ai fini delle distanze legali perché di altezza inferiore a tre metri (la sopraelevazione è di circa 83 cm)”.

 

La sentenza in commento, per la parte che ivi interessa, riforma quanto sancito dal Tribunale di Vicenza, sez. II civile, con la sentenza del 21 novembre 2008 n. 1834, che aveva considerato come costruzione la parte del muro di contenimento costruita in sopraelevazione: “tale distanza nella fattispecie non risulta osservata, come con divisibilmente affermato dal consulente tecnico d’ufficio, posto che il c.d. muro di contenimento, per le illustrate caratteristiche costruttive, costituisce, quanto meno per la parte superiore, una vera e propria costruzione. Dal punto di vista edilizio e civilistico, per integrare il concetto normativo di costruzione, come più volte affermato dalla Cassazione, vengono in rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della stabilità e dell’immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzioni meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabili. Anche la migliore dottrina include nella nozione di “costruzione” non solo l’opera che abbia le caratteristiche di un edificio o di altra fabbrica in muratura, ma anche qualsiasi altra opera edilizia che presenti carattere di solidità, stabilità e di immobilizzazione rispetto al suolo, ancorché manchi di propria individualità ed autonomia in quanto costituente un semplice accessorio del fabbricato. Per quanto più specificamente concerne la problematica del muro c.d. di contenimento, la giurisprudenza di legittimità afferma che “in tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte di muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati dall’opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente” (Cassazione civ., sez. II, 10 gennaio 2006 n. 145; in senso sostanzialmente conforme Cassazione n. 8144/2005)”.

dott. Matteo Acquasaliente

C. Appello Venenzia n. 969 del 2013

Trib. Vicenza n. 1834 del 2008

Ancora sul vincolo cimiteriale

25 Lug 2013
25 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 932, torna ad occuparsi del vincolo cimiteriale chiarendo che l’inedificabilità assoluta concerne gli edifici che sono incompatibili con tale vincolo, come un impianto di autolavaggio self-service.

 

Si legge infatti che: “L’art.338 del Testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n.1265 del 27 luglio 1934 nonché l’art.57 del Dpr 10 settembre 1990 n.285 vietano l’edificazione nelle aree ricadenti in fascia di rispetto cimiteriale dei manufatti che, per durata, inamovibilità ed incorporazione al suolo possano qualificarsi come costruzioni edilizie, come tali, incompatibili con la natura dei luoghi e con l’eventuale espansione del cimitero.

Ora, la giurisprudenza ha affermato che in materia di vincolo cimiteriale, la salvaguardia del rispetto dei 200 metri prevista dal citato art.338 del T.U. del 1934 si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità, valevole per qualsiasi manufatto edilizio anche ad uso diverso da quello di abitazione, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, e tanto in ragione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitarie, nella salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons Stato Sezione IV, 20 luglio 2011, n. 4403, Cons Stato Sez. V 3 maggio 2007 n.1933; TAR Toscana, Sez. III, 2 luglio 2008 n. 1712)”.

Corollario di quanto esposto è che: “non sembra dubbio che l’impianto di autolavaggio in questione rientri tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all’art.338 citato e tale circostanza, puntualmente rilevata dall’Amministrazione, costituisce valido motivo giustificativo dell’opposto diniego”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 932 del 2013

Le caratteristiche dei parcheggi pubblici e privati

24 Lug 2013
24 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 935, si occupa della distinzione tra parcheggi pubblici (di standard) realizzati in attuazione del piano particolareggiato e quelli privati considerati di pertinenza delle singole unità immobiliari come previsto dalla legge n. 122/1989.

 

A tal proposito: “i primi sono contemplati dall’art. 41 quinquies della L. n. 1150/1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e sono regolati dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444; tale regolamento, al fine di garantire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, in particolare, definisce lo standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria e lo individua (all’art. 5, comma 2, per i nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, in 80 mq per ogni 100 mq di superficie lorda di pavimento), in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765/1967 (che ha introdotto l’art. 41 sexies nella L. n. 1150/1942). Viceversa, i parcheggi privati sono disciplinati da quest’ultimo articolo 41 sexies e dall’articolo 9 della L. 122/1989. Essi sono riservati agli abitanti delle unità residenziali o agli addetti delle unità non residenziali, e sono asserviti all’unità edilizia o immobiliare con vincolo di pertinenzialità. In tal caso la legge (al fine, più specifico, di decongestionare la viabilità pubblica, attraverso la previsione, in sede di nuove costruzioni, d’idonei spazi di ricovero degli autoveicoli dei proprietari dei appartamenti), prevede una diversa proporzionalità (un metro quadrato di parcheggio per ogni 10 metri cubi di costruzione) ed un rapporto pertinenziale d’uso inscindibile con l’unità immobiliare principale”.

 

Il Collegio altresì prosegue dichiarando che i parcheggi (pubblici) realizzati su suolo demaniale concesso in superficie o sopra il suolo privato, ma serventi ad uso pubblico, sono da considerarsi opere di urbanizzazione, ed ancora che i parcheggi ad suo pubblico sono “normalmente destinati, non solo, ai visitatori degli insediamenti residenziali e ai clienti o utenti degli insediamenti non residenziali, ma anche, in assenza di specifici divieti, alla più generica fruizione, ai fini di stazionamento e sosta degli autoveicoli, da parte della generalità dei cittadini.

13. Pertanto, i condomini ricorrenti non possono vantare alcun diritto all’uso esclusivo di tali spazi, essendo la loro posizione di vantaggio nei confronti di tali posti auto, parificabile a quella di un qualsiasi cittadino nei confronti di uno spazio a standard pubblico”.

Infine i Giudici riconoscono che: “in caso di mancanza di aree disponibili all’interno di un PUA, è ammessa la monetizzazione degli standard al fine di reperire altrove aree disponibili. Tale possibilità, già ammessa dalla giurisprudenza consolidata, è espressamente prevista dall’art. 32 della L.R. n. 11/2004 (e prima ancora lo era dall’art. 26 comma 7 della L.R. n. 61/1985)” e che: “Quanto alla prevista alienazione previa gara pubblica degli spazi di sosta realizzati su proprietà demaniale, essa è stata disposta in conformità all’art. 58 del D.L. n. 112/08, che facoltizza espressamente gli enti pubblici a dismettere la proprietà di beni non strumentali all’uso pubblico, previo inserimento di tali beni nel piano delle alienazioni immobiliari; inserimento che ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 935 del 2013

Il difetto di rappresentanza ex art. 182 c.p.c.

24 Lug 2013
24 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 934, si occupa del difetto di rappresentanza ex art. 182 c.p.c. secondo cui: “Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi .

Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza , o l'assistenza, o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

Il T.A.R., in particolare, compie un excursus normativo circa la portata di tale articolo sottolineando che: “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (v. da ultimo, l’ordinanza n. 26465 del 09/12/2011) “il nuovo testo dell'art. 182, secondo comma, cod. proc. civ. (introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), secondo cui il giudice, che rilevi la nullità della procura, assegna un termine per il rilascio della procura o per la rinnovazione della stessa, non ha portata meramente interpretativa e non si applica, perciò, retroattivamente, atteso il tenore testuale fortemente innovativo della norma”.

Sicché non è sostenibile la tesi del carattere meramente interpretativo e della conseguente applicabilità retroattiva della norma dell'art. 182 c.p.c., secondo comma, come modificata dalla L. n. 69 del 2009.

Invece, secondo l’art. 182 c.p.c., secondo comma, nel testo ante riforma applicabile al caso in esame, può essere ammessa la sanatoria del vizio di rappresentanza processuale, nel caso in cui la società si costituisca a mezzo dell’organo al quale spettano effettivamente i poteri, ma naturalmente, se ed in quanto non si siano nel frattempo verificate decadenze; così non si sana l’impugnazione proposta dall’organo privo di poteri se la società o l’ente si costituisce con l’organo munito di poteri e ratifica dopo la decorrenza del termine per impugnare (cfr. Cass. n. 229/1980).

In proposito la Cassazione ha sempre affermato il principio per cui la sanatoria retroattiva della carenza di legittimazione processuale incontra l'insuperabile limite delle decadenze verificatesi a causa dello spirare del termine per proporre appello o ricorso per Cassazione (cfr., da ultimo, la sent. n. 3700/2012), con conseguente formazione del giudicato per difetto di tempestiva impugnazione”.

Tali principi - prosegue il T.A.R. - risultano applicabili anche al processo amministrativo con riferimento al termine per proporre il ricorso “con la conseguenza che (non trovando applicazione ratione temporis la previsione dell’efficacia totalmente retroattiva della ratifica di cui al nuovo testo dell’art. 182, 2° comma c.p.c.) la ratifica degli atti processuali del falsus procurator ad opera dell’organo societario effettivamente legittimato, non è efficace dopo la scadenza del termine per proporre ricorso.

Ciò in quanto gli effetti del ricorso non assistito da una valida procura ad litem non sono soggettivamente imputabili alla parte che il procuratore costituito dichiari di rappresentare, bensì o allo stesso procuratore in proprio (nel caso limite di inesistenza della procura) ovvero (in caso di procura rilasciata da soggetto privo dei poteri di rappresentanza processuale dell'ente per cui dichiara di agire) al sedicente rappresentante: sicché è palese che, nell'uno come nell'altro caso, né in capo al difensore né al procuratore processuale senza poteri è ravvisabile alcuna propria legittimazione rispetto alla causa che dichiarano di proporre in nome altrui, e di ciò il giudice deve dar atto dichiarando in capo a costoro (cioè al soggetto che è effettivamente costituito in giudizio) il difetto di legittimazione e, conseguentemente, l'inammissibilità della domanda. Né la ratifica, da parte del rappresentante, della procura al difensore per difendere la società in giudizio, conferita dal predetto soggetto sprovvisto di potere di rappresentanza, costituisce atto idoneo a conferire la legittimazione processuale a chi ne è privo (cfr. Cons. Giust. amm. sic. n. 191/2006)”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 934 del 2013

Ecco la sentenza che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la riforma delle Province

24 Lug 2013
24 Luglio 2013

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 19 luglio 2013 n. 220, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del d.l n. 201 del 2011, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011 e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, con i quali si è realizzata una riforma organica delle Province tramite la decretazione d’urgenza violando l’art. 77 Cost.

Ecco le motivazioni in diritto: “Da quanto detto si ricava una prima conseguenza sul piano della legittimità costituzionale: ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza».

I decreti-legge traggono la loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità. Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure di immediata applicazione» (art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri»). La norma citata, pur non avendo, sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge (sentenza n. 22 del 2012), che entrerebbe in contraddizione con le sue stesse premesse, se contenesse disposizioni destinate ad avere effetti pratici differiti nel tempo, in quanto recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa”.

Di conseguenza, atteso che: “Sin dal dibattito in Assemblea costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori – fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni politiche imposte dall’alto.

Emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali”, i Giudici del Palazzo della Consulta ritengono che: “A prescindere da ogni valutazione sulla fondatezza nel merito di tale argomentazione con riferimento alla legge ordinaria, occorre ribadire che a fortiori si deve ritenere non utilizzabile lo strumento del decreto-legge quando si intende procedere ad un riordino circoscrizionale globale, giacché all’incompatibilità dell’atto normativo urgente con la prescritta iniziativa dei Comuni si aggiunge la natura di riforma ordinamentale delle disposizioni censurate, che introducono una disciplina a carattere generale dei criteri che devono presiedere alla formazione delle Province. Per quest’ultimo profilo valgono le considerazioni già sviluppate nel paragrafo 12.1”.

C. Cost. n. 220 del 2013

La repressione dell’abuso edilizio non richiede la comunicazione dell’avvio del procedimento

23 Lug 2013
23 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 930, chiarisce che la repressione degli abusi edilizi è un atto vincolato dell’Amministrazione per cui: “quanto all’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, si osserva che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è ragione di discostarsi, ritiene che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri, Cons. Stato, VI, 31 maggio 2013 n. 3010; IV, 10 agosto 2011, n. 4764; IV, 20 luglio 2011, n. 4403; VI, 24 settembre 2010, n. 7129)”.

 

Nel caso di specie il ricorrente aveva trasformato una vasca per i fiori in una piscina, senza il corrispondente titolo abilitativo, realizzando una trasformazione fisica non puramente funzionale all’opera già esistente, ma un nuovo ed autonomo organismo edilizio.

 

Di conseguenza il Collegio afferma che: “l’intervento, essendo qualificabile di ristrutturazione edilizia, richiedeva il permesso di costruire, con conseguente applicabilità, in mancanza, dell’obbligo di demolizione previsto dall’art. 33, D.P.R. n. 380/2001, da intendersi, tuttavia, nel caso di specie, come obbligo di ripristino della vasca per fiori (riempita completamente di terra, come prescritto dalla Commissione Edilizia) e non come obbligo di demolizione della struttura in cemento che è stata autorizzata con DIA e successivamente sanata con il permesso del 1.02.2011”.


dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 930 del 2013

La definizione di controinteressato formale e sostanziale

23 Lug 2013
23 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 923, chiarisce che nel processo amministrativo assume la veste di controinteressato “esclusivamente quel soggetto nominativamente indicato nel provvedimento gravato o, come detto, agevolmente individuabile dallo stesso e che, contestualmente, vanti un interesse contrario alla rimozione del provvedimento, rimozione che potrebbe comportare effetti negativi per la propria sfera giuridica (Cons. Stato Sez. V 24 settembre 2003 n.5462; idem 21 gennaio 2002 n. 72)”.

Inoltre “Accanto a tale nozione di controinteressato, c.d. in senso formale, la giurisprudenza ha pure dato accesso alla nozione di controinteressato in senso sostanziale che può anche non coincidere con i controinteressati in senso formale, ma che riguarda i soggetti titolari di una posizione incompatibile o contraria con quella dedotta in giudizio ( cfr Cons. Stato Sez. IV 12 novembre 2002 n. 7257).

Ebbene, in quest'ultima ipotesi è necessario che il provvedimento incida una pluralità di situazioni giuridiche in modo chiaro ed univoco, nei termini espressi dal contenuto motivazionale dell'atto.

E’ solo dalla motivazione del provvedimento, infatti, che è possibile rilevare, in relazione al rapporto giuridico definito dal provvedimento, la presenza di soggetti interessati a conservare posizioni giuridiche soggettive di tipo opposto ed antitetico a quelle pregiudizievoli del destinatario dell'atto che, invece, vuole ed ha interesse a rimuovere attraverso l’annullamento del provvedimento.

Peraltro, una significativa parte della giurisprudenza, ritiene necessario, per l’individuazione della riportata figura processuale, la contemporanea presenza dei due riferiti requisiti (formale e sostanziale) (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., Sez. giur., 15 giugno 2007, n.451)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR n. 923 del 2013

È possibile che la dichiarazione ex art. 38 D. Lgs. 16372006 riguardi un terzo?

22 Lug 2013
22 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, nella stessa sentenza n. 928/2013, si sofferma anche sulle dichiarazioni rese, ex art. 38 D. Lgs. 16372006, dal legale rappresentante della con riferimento ad un amministratore cessato dalla carica anziché dallo stesso soggetto (cessato): “a tal proposito va osservato che il Consiglio di Stato ha rimeditato la propria, precedente posizione (V, 26.1.2009 n. 375) precisando che, “trattandosi di dichiarazione che concerne stati, fatti e qualità riguardanti terzi (e non il medesimo dichiarante) questa non può che essere resa se non <per quanto a conoscenza> del dichiarante medesimo, non potendo questi procedere ad autocertificazione (con assunzione delle conseguenti responsabilità, anche penali, per dichiarazione mendace) su fatti, stati e qualità della cui veridicità non è detto che egli sia a conoscenza….ben potendo l’amministrazione – a fronte di una compiuta identificazione dei soggetti interessati – procedere alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale ed altri archivi pubblici (ai quali essa, a differenza del dichiarante, ha accesso), in ordine alla sussistenza (o meno) dei requisiti in capo a tali soggetti” (V, 27.6.2011 n. 3862). Orientamento, questo, che è stato fatto proprio anche dal CGA (7.11.2011 n. 784) e ribadito dallo stesso Consiglio di Stato (V, 6.7.2012 n. 3966) sul rilievo che “è solo rispetto alla condizione di un soggetto che sia ormai cessato dalla carica, invero, che l’impresa potrebbe versare in una condizione di sostanziale impossibilità di ottenere una dichiarazione resa dall’interessato, e, nello stesso tempo, potrebbe non disporre essa (più) delle conoscenze necessarie a rendere una dichiarazione riflettente la posizione individuale dell’ex collaboratore. Sicché unicamente per casi del genere può apparire giustificata una lettura attenuatrice dell’onere di legge, in ragione della sostanziale inesigibilità di una dichiarazione rigorosamente impegnativa dell’impresa sul conto del suo ex collaboratore”. Senza contare, peraltro, che tale decisione ha altresì posto in risalto la differenza esistente tra l’aver dichiarato che un quid costituisca – come nel caso di specie - oggetto di “diretta conoscenza” del dichiarante (con tale dichiarazione, invero, si attesta la verità di un fatto, ancorché relativo ad un terzo, grazie alla circostanza che di esso anche il dichiarante possiede una conoscenza diretta: si tratta, quindi, di una dichiarazione che implica una precisa assunzione di responsabilità), e, invece, che una certa condizione sussista “per quanto di propria conoscenza” (ove si lascia oggettivamente aperta la possibilità che l’assetto delle cose non sia nel senso dichiarato, sicché non comporta una effettiva assunzione di responsabilità da parte del dichiarante). Fermo restando, comunque, che qualora si contestasse la parzialità della dichiarazione, allora si dovrebbe ritenere corretto e ragionevole il ricorso della stazione appaltante al potere di integrazione documentale di cui all’art. 46, I comma del DLgs n. 163 del 2006, attesa l’incompletezza della dichiarazione stessa (CdS, IV, 4.7.2012 n. 3925; III, 8.6.2012 n. 3393; V, 31.1.2012 n. 467)”.

dott. Matteo Acquasaliente

Da quando decorre il termine per impugnare la mancata aggiudicazione dell’appalto a proprio favore?

22 Lug 2013
22 Luglio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 luglio 2013 n. 928, afferma che il termine per impugnare - a pena di irricevibilità del ricorso - l’aggiudicazione definitiva decorre da quanto la ditta partecipante (non aggiudicataria) ha avuto conoscenza di ciò, ex art. 79, c. 5, lett. a), D. Lgs. 163/2006, secondo cui: “In ogni caso l'amministrazione comunica di ufficio:

a) l'aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva”.

 

A tal proposito il Collegio scrive che il ricorso “È irricevibile in quanto il gravame risulta notificato all’Amministrazione ed alla controinteressata oltre il termine perentorio decorrente dal 6.12.2012 (e, comunque, oltre il decimo giorno successivo a tale data: cfr. CdS, VI, ord. 11.2.2013 n. 790), allorquando la stazione appaltante ha comunicato, ai sensi dell’art. 79, V comma del codice dei contratti, l’aggiudicazione definitiva (in capo a Serenissima) del servizio oggetto di gara a tutti i concorrenti ammessi, ivi compresa all’odierna ricorrente. In tale momento, infatti, CIR ha avuto piena conoscenza dell’atto lesivo (che è l’aggiudicazione della gara ad un soggetto diverso da se stessa), e da tale momento, dunque - e non da quello successivo in cui l’aggiudicazione avrebbe (eventualmente) acquisito efficacia - decorreva il termine per impugnare la mancata aggiudicazione nei propri confronti, da far valere chiedendo l’esclusione di entrambe le imprese che la precedevano: giacchè l’interesse a rivendicare l’aggiudicazione contestando la mancata esclusione di una concorrente dalla procedura concorsuale sorge, a prescindere dalla posizione ricoperta nella graduatoria, con la conoscenza che la gara è stata aggiudicata ad altro concorrente, né valgono a riaprire i termini per l’impugnazione non tempestivamente proposta eventuali scorrimenti della graduatoria dovuti alla successiva eliminazione dell’aggiudicataria e/o di ulteriori candidate (in sede di autotutela o giurisdizionale) per riscontrata carenza dei requisiti, e ciò in quanto l’interesse all’impugnazione non è correlato e/o condizionato al numero di concorrenti che precedono nella graduatoria (cfr., in tal senso, CdS, V, 20.7.2011 n. 4456)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Venento n. 928 del 2013

Regione Veneto: trasmissione dei documenti regionali tramite casella di posta elettronica certificata

22 Lug 2013
22 Luglio 2013

La Deliberazione della Giunta Regionale n. 1050 del 28 giugno 2013 reca "Adempimenti di cui agli artt. 4, 5 e 6 del D.L. 18/10/2012, n. 179/2012, convertito in Legge 17/12/2012, n. 221 - Disposizioni relative alle comunicazioni telematiche tra la Regione, i cittadini e le imprese: trasmissione dei documenti regionali tramite casella di posta elettronica certificata".

Il  provvedimento dà attuazione alle recenti disposizioni statali che, innovando il Codice dell'Amministrazione Digitale, hanno indicato nella posta elettronica certificata il canale unico nazionale a rilevanza giuridica per le comunicazioni e le presentazioni di istanze tra Amministrazioni Pubbliche e tra Amministrazioni, cittadini ed imprese, con l'obiettivo prioritario di abbattere i tempi della corrispondenza tradizionale ed i costi di spedizione.

DGRV 1050 del 2013

1050_AllegatoA_252103.pdf

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