La Corte Costituzionale boccia il ricorso della Regione Veneto contro la liberalizzazione del commercio e le aperture domenicali

20 Dic 2012
20 Dicembre 2012

Oggi la Regione Veneto dovrebbe legiferare in materia di commercio: puntuale come un orologio arriva una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 299 del 2012) che costituisce una vera doccia gelata per le pretese legislative regionali in materia di commercio.

La Regione, dice la Corte, non può opporsi alle liberalizzazioni del commercio.

VorrĂ  la Regione tenerne conto o ne uscirĂ  un'altra legge regionale veneta incostituzionale (il che non sarebbe poi la prima volta)?

Con un ricorso notificato il 21 febbraio 2012 e depositato il successivo 23 febbraio la Regione Veneto ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale , tra gli altri, l’art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, nella parte in cui modifica la lettera d-bis) dell’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 introdotta dall’art. 35, comma 6, del d.l. n. 98, eliminando le parole «in via sperimentale» e «dell’esercizio ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte».
La Regione Veneto ritiene che la norma impugnata, eliminando in via generale ed assoluta i limiti e le prescrizioni relativi agli orari di apertura e chiusura, alla chiusura domenicale, festiva e infrasettimanale degli esercizi commerciali, inclusi quelli di somministrazione di alimenti e bevande, violi sia l’art. 117, primo e quarto comma, Cost. che riserva alla Regione la competenza legislativa nella materia del commercio, sia la potestà regionale connessa all’esercizio delle funzioni amministrative di cui all’art. 118, primo e secondo comma, Cost. La Regione afferma che l’eliminazione, in via generale ed assoluta, di ogni possibile limite relativo agli orari ed ai giorni di apertura e chiusura, sia per le attività commerciali in senso stretto che per le attività di somministrazione di alimenti e bevande, determina l’abrogazione della previgente disciplina statale degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e 12 del d.lgs. n. 114 del 1998, applicata nella Regione Veneto.
La nuova disposizione statale, secondo la ricorrente, travolgerebbe anche la legge regionale del Veneto 21 settembre 2007, n. 29 (Disciplina dell’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande), nella parte in cui disciplina gli orari di vendita.
L’introduzione di un divieto siffatto viene giustificata, come si evince dal comma l dell’art. 3 del decreto legislativo in esame, nel quale si incardina la novella, facendo riferimento alle «disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi» e al «fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione».
Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata all’art. 3, comma l, del citato decreto non costituisca né adeguamento dell’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea né esercizio di competenza legislativa esclusiva dello Stato in relazione alla tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, lettere e) ed m), Cost.

La Corte Cosituzionale con la sentenza n. 299 del 2012, depositata il 19 dicembre 2012, ha dichiarato infondata le questioni sollevate dalla Regione Veneto: "La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007).
In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007).
Come questa Corte ha più volte osservato, «Si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenze n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004).
Si è già precisato che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere «finalistico», non è una «materia di estensione certa» o delimitata, ma è configurabile come «trasversale», corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni (sentenze n. 80 del 2006, n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004).
Pertanto, in questa accezione «dinamica» della materia «tutela della concorrenza», – ricomprendente le misure dirette a promuovere l’apertura di mercati o ad instaurare assetti concorrenziali, mediante la riduzione o l’eliminazione dei vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e alle modalità di esercizio delle attività economiche –, è consentito al legislatore statale intervenire anche nella disciplina degli orari degli esercizi commerciali che, per ciò che riguarda la configurazione «statica», rientra nella materia commercio attribuita alla competenza legislativa residuale delle Regioni (sentenze n. 288 e n. 247 del 2010, ordinanza n. 199 del 2006).
In particolare, con riferimento alle misure di liberalizzazione, questa Corte ha avuto modo di affermare che «la liberalizzazione da intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» (sentenza n. 200 del 2012).
Compito della Corte è, quindi, quello di valutare se le misure sottoposte al suo vaglio, che disciplinano o ridisciplinano importanti aspetti di regolazione del mercato, stabilendo nuovi criteri per il suo funzionamento, possiedano i requisiti per essere qualificate come normative che favoriscono la concorrenza.
Nel caso in questione, l’intervento del legislatore statale non incorre nella denunciata illegittimità. La norma in esame, infatti, attua un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche.
L’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore.
Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale nel mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale.
Del resto questa Corte, di recente, è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di alcune normative regionali che disciplinavano la materia degli orari degli esercizi commerciali e dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva, ma prima dell’approvazione della norma impugnata, quando cioè il quadro normativo di riferimento della legislazione statale era rappresentato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio).
In tali occasioni si è ritenuto legittimo l’esercizio della competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla «tutela della concorrenza» (sentenze n. 150 del 2011 e n. 288 del 2010).
Pertanto, nei casi in cui le stesse avevano introdotto una disciplina più favorevole rispetto a quella statale del 1998, nel senso della liberalizzazione Corte costituzionale della Repubblica italiana degli orari e delle giornate di chiusura obbligatoria, esse sono state ritenute legittime (sentenza n. 288 del 2010); viceversa, allorché si è riscontrata una disciplina di segno contrario, ne è seguita una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 150 del 2011).
Infine, deve anche evidenziarsi che la norma oggetto del presente giudizio inserisce la lettera d-bis) nell’articolo 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006 che è già stato scrutinato da questa Corte sotto il medesimo profilo della violazione della competenza residuale delle regioni in materia di commercio di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 430 del 2007).
In tale occasione si è ritenuto che l’art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006 dettasse le condizioni ritenute essenziali ed imprescindibili per garantire l’assetto concorrenziale nel mercato della distribuzione commerciale, rimuovendo i residui profili di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concorrenza (sentenza n. 430 del 2007).
Tutte le prescrizioni recate dal citato comma 1 dell’art. 3 sono state ritenute strumentali rispetto a questo scopo, in quanto dirette a rimuovere limiti all’accesso al mercato, sia se riferite all’iscrizione in registri abilitanti o a requisiti professionali soggettivi (comma 1, lettera a), sia se riferite alla astratta predeterminazione del numero degli esercizi (comma 1, lettera b), sia se concernenti le modalità di esercizio dell’attività, nella parte influente sulla competitività delle imprese (comma 1, lettere c, d, e, ed f, e comma 2), anche allo scopo di ampliare la tipologia di esercizi in concorrenza.
In conclusione, per gli stessi motivi, anche la nuova lettera d-bis) del comma 1 dell’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 deve essere inquadrata nell’ambito della materia «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Le censure svolte dalle Regioni ad autonomia speciale in relazione alla dedotta violazione della propria competenza legislativa primaria nella  materia del commercio, come attribuita dagli statuti, non sono fondate.
Al riguardo, va rilevato che dalla natura “trasversale” della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza deriva che il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza. In senso analogo, del resto, si è già espressa questa Corte a proposito del rapporto tra le competenze previste dagli statuti speciali e quella esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (sentenze n. 12 del 2009; n. 104 del 2008; n. 380 del 2007)".

Dario Meneguzzo

Corte costituzionale della Repubblica italiana_sent_299-2012

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