Le c.d. clausole escludenti vanno impugnate immediatamente

21 Ago 2014
21 Agosto 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 17 luglio 2014 n. 1039 si sofferma sulle c.d. clausole escludenti dei bandi di gara/concorso, chiarendo che le stesse devono venire impugnate nel termine di trenta/sessanta giorni decorrenti dal momento della pubblicazione del bando/concorso e non dall’adozione del provvedimento di esclusione: “il prevalente indirizzo giurisprudenziale, recepito dalla decisione del Cons. Stato, Ad. Plen., 29/1/2003, n. 1, ritenga immediatamente impugnabile il bando di gara o di concorso allorché contenga clausole impeditive dell'ammissione dell'interessato alla selezione, come quelle che prescrivono requisiti soggettivi di partecipazione, ex se lesive.

Ebbene, nel caso in esame, la disposizione del bando sul limite di età, in sé assolutamente chiara ed univoca nel suo contenuto precettivo e tale da non richiedere alcun apporto interpretativo, costituisce indubbiamente un requisito soggettivo di partecipazione alla gara, per cui, avendo immediata attitudine lesiva, andava subito fatta oggetto di gravame.

Ciò premesso, poiché il bando è stato pubblicato nell’albo pretorio on line del Comune dal 31 gennaio 2014 al 13 marzo 2014, e l’odierno ricorso è stato notificato all’amministrazione solo in data 4 giugno 2014, l’odierna impugnazione del bando deve essere giudicata irricevibile per tardività.

Ne consegue l’inammissibilità dell’impugnazione del provvedimento di esclusione applicativo della suddetta prescrizione”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 1039 del 2014

Se il ripristino è impossibile si applica la sola sanzione pecuniaria

20 Ago 2014
20 Agosto 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 10 luglio 2014 n. 997 si sofferma sulla portata dell’abrogato art. 131 del D. Lgs. n. 490/1999 – sostituito dal vigente D. Lgs. 42/2004 (c.d Codice dei beni culturali e del paesaggio) – per affermare che la demolizione delle opere abusive, eseguite su di un immobile vincolato, impone una seria ed attenta valutazione circa la loro compatibilità. In particolare, laddove la reintegrazione sia oggettivamente impossibile, appare corretto applicare unicamente la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4 dell’articolo citato: “2. Non solo sussiste la contraddittorietà tra quanto contenuto nel parere sopra citato e il decreto di ripristino, ma sussiste, altresì, la violazione dell’art. 131 del D. Lgs. 490/1999 nella parte in cui detta disposizione richiede, sulla base di quanto previsto dai comma primo e quarto, che l’ordine di demolizione contenga l’indicazione di un danno e la menzione circa l’effettiva possibilità di procedere al ripristino della nuova opera.

2.1 Nulla di tutto ciò è presente nell’ordinanza impugnata che, in quanto tale, non solo non contiene alcuna menzione del danno subito dal complesso immobiliare, ma nel contempo non considera l’entità delle opere realizzate dirette allo sostituzione di un solaio e, quindi, a garantire l’integrità del manufatto, senza incidere sulle caratteristiche essenziali dello stesso.

2.2 Nemmeno vi è menzione circa l’effettiva fattibilità di un ripristino, argomentazione che pure doveva ritenersi indispensabile in considerazione dell’abuso contestato.

Nel caso di specie, infatti, la struttura che il Ministero vorrebbe ripristinare è stata integralmente rimossa con la conseguente impossibilità della sua riparazione.

L’esistenza di dette circostanze evidenzia il venire in essere di un ulteriore profilo dell’eccesso di potere, riconducibile al difetto di istruttoria e, ciò, considerando come la specificità del manufatto, unitamente all’impossibilità di un ripristino, avrebbe dovuto essere rilevata da parte della Soprintendenza, con la conseguenza di ritenere applicabile la fattispecie di cui al quarto comma dell’art. 131 del D. Lgs. 490/1999 nella parte in cui prevede in dette ipotesi l’applicazione della sanzione pecuniaria”.

dott. Matteo Acquasaliente

 sentenza TAR Veneto n. 997 del 2014

Ancora sulle motivazioni apodittiche della Soprintendenza

20 Ago 2014
20 Agosto 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 04 agosto n. 1125 conferma che i provvedimenti della Soprintendenza, per essere legittimi, devono contenere una motivazione chiara e puntuale: “un costante orientamento giurisprudenziale, peraltro di recente sostenuto anche da questo Tribunale, ha rilevato come la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l’iter logico-giuridico in base al quale l’amministrazione è pervenuta all’adozione di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell’atto considerato ((TAR Veneto 767 e 768 del 2014),Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2006, n. 1750; sez. IV, 22 febbraio 2001 n. 938, sez. V, 25 settembre 2000 n. 5069).

3.1 Si è, altresì, precisato che la valutazione discrezionale dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo deve essere strettamente riferita ai luoghi in cui il manufatto viene ad incidere, con un onere dell’Amministrazione di indicare le specifiche ragioni in relazione alle quali le opere edilizie non si ritengono adeguate (si veda TAR Piemonte n. 1024/2013 e TAR Veneto 1394/2013).

3.2 E’, allora, evidente che una motivazione puntuale deve ritenersi necessaria, anche a prescindere dalla particolarità della fattispecie e, ciò, affinché siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile.

3.3 Nulla di tutto ciò è presente nei provvedimenti impugnati e, ciò, considerando come il diniego della Soprintendenza non reca nessun riferimento concreto all’ambiente circostante, così come non viene evidenziato quale elemento delle terrazze risulterebbe in contrasto con i valori ambientali e paesaggistici tutelati.

3.4 La motivazione del parere contrario alla demolizione della copertura è stata disposta “perché deturpa l’ambiente vincolato dalla legge n. 1089/1939”, motivazione quest’ultima che per il suo tenore non può non essere considerata apodittica.

3.5 Nemmeno può condividersi l’argomentazione dell’Avvocatura distrettuale dello Stato nella parte in cui si limita a ricordare il carattere discrezionale del parere della Soprintendenza e, in ciò, senza esplicitare quegli elementi che sarebbero in contrasto con l’intervento di accorpamento di terrazze già assentite”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 1125 del 2014

 

A chi va notificato il diniego del condono edilizio?

19 Ago 2014
19 Agosto 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 04 agosto 2014 n. 1135 stabilisce che il rigetto del condono edilizio, ex L. n. 47/1985, deve essere notificato solo all’originario richiedente e non anche agli eventuali e/o successivi acquirenti dell’immobile: “vale il principio generale accolto dalla giurisprudenza amministrativa per cui: “quando un provvedimento negativo si consolida, per decorso dei termini di impugnazione, in capo al suo destinatario (che non ha agito in giudizio a tutela del suo interesse legittimo), l'eventuale alienazione da parte di quest'ultimo della res in ordine alla quale il provvedimento è stato emesso non riapre, per l'acquirente, i termini per impugnare, neppure se costui viene a conoscenza integrale dei provvedimenti negativi solo dopo l'avvenuto acquisto ed a seguito di accesso agli atti amministrativi” (cfr. T.A.R. Campania Napoli Sez. VI, Sent., 12-11-2010, n. 24034).

Nella fattispecie in esame va rilevato che l'art. 35 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 stabilisce espressamente che "il diniego di sanatoria è notificato al richiedente", dando ragione sia della necessità di una notificazione del provvedimento negativo, sia del fatto che unico destinatario della stessa debba essere colui che ha attivato il procedimento.

Con la conseguenza che nessun obbligo incombe al Comune di individuare come destinatario del provvedimento di rigetto, oltre al richiedente - di cui nessuna norma, tra l'altro, prevede l'esclusione in caso di alienazione - anche l'eventuale acquirente dell'immobile interessato in tutto o in parte dalla sanatoria. Il che, peraltro, determinerebbe un notevole aggravio procedimentale a carico del Comune.

E si comprende che una simile stringente applicazione del dato normativo trova ragionevole rispondenza in evidenti esigenze di certezza e celerità che devono assistere procedimenti e provvedimenti riguardanti beni ed interessi di rilevanza generale, come la tutela del territorio, soprattutto ove con la stessa venga ad interferire un regime derogatorio quale quello introdotto da norme di sanatoria di interventi realizzati in assenza di titolo edilizio o in difformità dalla disciplina urbanistica vigente; ne discende che del tutto ragionevolmente il legislatore ha indicato il solo richiedente come soggetto interlocutore del procedimento di condono, nonché quale formale destinatario del provvedimento finale, affidando alla tutela predisposta dal diritto civile ogni questione che possa sorgere da eventuali vicende traslative di diritti dominicali interessanti le opere e gli immobili per cui è stato richiesto il beneficio urbanistico; vicende che, a ben vedere, poco o quasi nulla rilevano ai fini dell'ordinato sviluppo del territorio cui la disciplina urbanistica si rivolge (cfr. T.A.R. Campania Napoli Sez. II, Sent., 04-11-2011, n. 5148)”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 1135 del 2014

Solo un’offerta paria zero è inattendibile

19 Ago 2014
19 Agosto 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 17 luglio 2014 n. 3805 si sofferma sulla valutazione dell’anomalia delle offerte della stazione appaltante.

Dopo aver sottolineato il forte potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, chiarisce che soltanto un’offerta pari a zero o in perdita è ex se inattendibile e, quindi, va esclusa: “7.3.2. Circa l’ambito del sindacato esercitabile dal giudice amministrativo sul giudizio di non anomalia, il Collegio rinvia ai principi elaborati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenze nn. 7 e 8 del 2014 e 36 del 2012, successivamente Sez. V, n. 244 del 2014), secondo cui la valutazione di anomalia (e a fortiori quella di non anomalia) attiene a scelte rimesse alla stazione appaltante quale espressione di autonomia negoziale in ordine alla convenienza dell’offerta ed alla serietà e affidabilità del concorrente, ed è pertanto sindacabile solo ab externo, nei limiti della abnormità, manifesta irragionevolezza e travisamento dei fatti presupposti (evenienze queste che non si configurano nel caso di specie dove, al contrario, si è avuta la prova empirica della serietà dell’offerta atteso che tutte le prestazioni contrattuali sono state realizzate senza contestazioni e nei termini pattuiti).

7.3.3. Nel merito si rileva, in una con la consolidata giurisprudenza (cfr. da ultimo la richiamata Sez. V, n. 2444 del 2014, nonché Sez. VI, n. 4676 del 2013; Sez. IV, n. 1633 del 2013; C.g.a. n. 250 del 2013; Sez. IV, n. 4206 del 2012, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10 c.p.a.), che:

a) il giudizio di verifica della congruità delle offerte ha natura globale e sintetica abbracciando l’offerta nel suo insieme, esso pertanto non ha ad oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze essendo finalizzato ad accertare se l’offerta sia seria e attendibile nel suo complesso restando irrilevanti, sotto tale angolazione, singole voci di scostamento da parametri ordinari (nella specie il dato maggiormente contestato è stato quello della sottostima del costo della mano d’opera che è stato però ritenuto congruo dal c.t.u., in termini monetari, e anomalo, in relazione al rapporto fra numero di ore lavorate e numero di addetti);

b) il mancato rispetto dei minimi tabellari sul costo del lavoro o, in mancanza, dei valori indicati dalla contrattazione collettiva non determina l’automatica esclusione dalla gara ma costituisce un indice di anomalia dell’offerta che va poi verificato mediante un giudizio complessivo di remuneratività ed affidabilità che consente all’impresa di fornire le proprie giustificazioni di merito;

c) solo un utile pari a zero o l’offerta in perdita rendono ex se inattendibile l’offerta economica (circostanze queste che non si sono verificate nel caso di specie);

d) in occasione della verifica in contraddittorio della congruità dell’offerta è consentito un limitato rimaneggiamento degli elementi costitutivi di quest’ultima purché l’originaria proposta contrattuale non venga modificata sostanzialmente ovvero non venga alterata la sua logica complessiva (anche tali evenienze non si sono realizzate nel caso concreto);

e) la legge di gara non ha previsto modalità formali, presidiate dalla sanzione della esclusione, per la produzione delle giustificazioni in sede di offerta; inoltre, tutte le paventate irregolarità nella compilazione delle schede di analisi potevano essere superate dal concorrente, per espressa volontà del bando <<…con analisi più dettagliate e con quant’altro ritenga opportuno fornire a giustificazione del ribasso offerto>> (pagina 9 del bando); quanto all’inidoneità professionale di due ditte indicate quali sub appaltatrici, è sufficiente rilevare che: I) la previsione del sub appalto, nel caso di specie, incide sulla fase della esecuzione del contratto; II) la ditta Polaris non ha mai svolto attività di sub appaltatrice; III) la ditta Rainoldi ha prestato la propria attività nell’ambito di un’a.t.i. e dunque nei limiti delle proprie capacità; IV) in ogni caso, da un lato, il sub appalto è stato debitamente autorizzato in concreto dalla stazione appaltante, dall’altro, il Consorzio era munito di tutti i requisiti di capacità richiesti dal bando per poter eseguire direttamente le opere”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3805 del 2014

La legge che attribuisce alla Giunta il potere di approvare i piani attuativi non è incostituzionale

18 Ago 2014
18 Agosto 2014

La questione è esaminata dal TAR Veneto nella sentenza n. 986 del 2014.

Si legge nella sentenza: "La riconosciuta inammissibilità del ricorso per quanto riguarda i ricorrenti Gradini, Florean e Geronazzo, richiede, tuttavia, la delibazione circa i profili di incostituzionalità prospettati, in via subordinata, dai ricorrenti con riguardo proprio alla disposizione introdotta dall’art.5, comma 13 della legge 106/11. La difesa istante ha infatti evidenziato come detta norma si ponga in palese contrasto con i principi di rispetto delle autonomie dettati dalla Costituzione, così come espressamente richiamati nel T.U.E.L., nella parte in cui rileva come le norme in esso contenute siano espressione di principi generali, non modificabili se non per espressa previsione normativa, nonché dal richiamo contenuto nel medesimo corpo normativo all’art. 128 della Costituzione, che ribadisce il rispetto delle autonomie, principio che, proprio attraverso la sottrazione della competenza all’approvazione del PUA al Consiglio Comunale, sarebbe stato violato dalla norma contestata. Ritiene il Collegio che la questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante ai fini della decisione in esame, non presenti elementi di manifesta fondatezza per le considerazioni che seguono. In primo luogo, vanno ribadite le considerazioni sopra accennate circa la ratio della norma e la conseguente insussistenza di un reale pregiudizio per le funzioni assegnate al Consiglio. Al riguardo è stato messo in rilievo come detta previsione, da un punto di vista squisitamente politico, attribuendo il compito di approvazione dei PUA ad un organo di maggioranza, faccia di per sé venire meno il ruolo dell’opposizione (ed è infatti questo il punto che ha spinto i ricorrenti a impugnare le delibere): tuttavia, come già osservato, il profilo non è dirimente, in quanto i piani di cui si discute debbono essere conformi al PRG, che a sua volta è stato, seppur in passato, votato dal Consiglio comunale. Invero, proprio tenuto conto delle specifiche condizioni in presenza delle quali è possibile concentrare in capo alla Giunta l’adozione e l’approvazione del PUA, ossia la sua conformità alle previsioni di PRG, è evidente che se il PUA non presenta innovazioni rispetto al PRG, esso si porrà in sintonia con ciò che il Consiglio Comunale ha già deliberato in occasione della redazione del PRG. La concentrazione dell’intera procedura in capo alla Giunta, quindi, risponde ad esigenze di celerità e semplificazione che comunque non diminuiscono le competenze del Consiglio, trattandosi  dell’approvazione di uno strumento urbanistico di secondo grado coerente e conforme a quanto già deliberato dal Consiglio Comunale. Per altro verso e con espresso riguardo al rispetto delle disposizioni costituzionali che assicurano le autonomie ed al richiamo contenuto nel T.U.E.L. all’art. 128 Cost. (proprio al fine di impedire, quale norma di salvaguardia, la deroga o, più correttamente, l’abrogazione tacita delle disposizioni in esso contenute per effetto di leggi sopravvenute, non aventi tale specifica e conclamata finalità), il Collegio osserva in primo luogo come detto richiamo alla norma costituzionale non abbia più valore, per effetto dell'art. 9, comma 2, L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che ne ha disposto l’abrogazione. Eliminato il richiamo costituzionale, l’analisi della norma dell’art.5, comma 13 – ferme restando le considerazioni sopra espresse circa il rispetto delle autonomie e delle competenze degli organi - deve quindi essere operata solo attraverso il rapporto che intercorre tra le due fonti normative, da un lato un T.U.E.L., decreto legislativo 267/01, normazione delegata dal Parlamento, e dall’altro una legge ordinaria, L. n. 106/11. In punto di stretto diritto, se sussiste un rapporto di sovra ordinazione gerarchica fra le due norme, il problema è pacificamente risolto nel senso che sarà la norma superiore a prevalere, rendendo l’altra invalida. Diversamente, nell’ipotesi in cui siano norme di pari rango normativo, dovrà essere seguito il criterio cronologico, per cui la norma successiva abrogherà quella precedente. Seguendo la tesi maggioritaria che attribuisce ai Testi Unici il medesimo livello gerarchico delle leggi del Parlamento, applicando anche nel caso  in esame il criterio cronologico, la legge 106/11 deve prevalere ed abrogare, nelle specifiche ipotesi, la norma dell’art. 42 del T.U.E.L. Essendo venuto a mancare il richiamo all’art. 128 Cost. contenuto nell’art. 1 T.U.E.L., difettando un ulteriore fondamento costituzionale delle disposizioni contemplate dal testo unico, e applicando dunque il  principio cronologico, la nuova disciplina, avente pari forza della precedente, ne determina l’abrogazione. Non profilandosi, quindi, neppure sotto il profilo del contrasto con i principi costituzionali, ragioni per  non dare applicazione alla normativa applicata nel caso in esame, restano confermate le conclusioni sopra espresse circa l’inammissibilità del ricorso proposto dai tre Consiglieri comunali".

Dario Meneguzzo - avvocato 

sentenza TAR Veneto n. 986 del 2014

Un accordo di pianificazione ex art. 6 L. 11/2004 non è impugnabile fino a quando non diventi efficace dopo il recepimento nel PAT o nel PI

18 Ago 2014
18 Agosto 2014

Segnaliamo su questa questione la sentenza del TAR Veneto n. 986 del 2014.

Scrive il TAR: "è da osservare come, anche a voler superare la dedotta tardività, sia indubitabile che in ogni caso la lesività di detto accordo si paleserà soltanto una volta che lo stesso sarà divenuto efficace e operativo. Infatti, come la stessa difesa di parte ricorrente ha riconosciuto, detto accordo necessita, per essere efficace, di essere recepito e divenire parte integrante dello strumento urbanistico, ossia del PAT e quindi del PI. Prima di tale momento, l’accordo - sebbene esprima la volontà, politica, del Comune di dare avvio ad un intervento che darà luogo, nella specie, alla realizzazione di un parcheggio pubblico sotterraneo e che prevede anche una ben precisa contropartita in favore della Parrocchia - non è tuttavia in grado di produrre alcun effetto: ne consegue che, in ogni caso, le censure dedotte avverso tale atto sono comunque inammissibili in quanto riferite a contenuti dell’accordo che, quanto meno al momento in cui è stato proposto il ricorso, non erano in alcun modo operativi. Solo nell’ipotesi in cui si dovesse accertare che il contenuto dell’accordo è già stato recepito nel PUA impugnato, allora si potrà valutare l’eccezione di tardività".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 986 del 2014

Quando è possibile ottenere il trasferimento per assistere un familiare disabile?

18 Ago 2014
18 Agosto 2014

Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 06 agosto 2014 n. 4200 si occupa dei requisiti che devono sussistere affinché un dipendente pubblico possa chiedere ed ottenere il trasferimento, presso una diversa Pubblica amministrazione, al fine di poter assistere un familiare disabile.

Il Collegio, dopo aver ricordato le recenti modifiche effettuate con la L. n. 183/2010, si sofferma sul “forte” potere discrezionale della Pubblica Amministrazione. In particolare si legge che: “A seguito della novella di cui alla legge nr. 183 del 2010, è stata eliminata dall’art. 33 della legge nr. 104 del 1992 la previsione dei requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza: tali requisiti, pertanto, non possono più essere pretesi dall’Amministrazione come presupposto per la concessione dei benefici di cui al citato art. 33, e dunque gli unici parametri entro i quali l’Amministrazione deve valutare se concedere o meno i benefici in questione – nella fattispecie concreta, il trasferimento presso la Casa Circondariale di Matera – sono da un lato le proprie esigenze organizzative ed operative e dall’altro l’effettiva necessità del beneficio, al fine di impedire un suo uso strumentale.

Ciò premesso, va rilevato che la richiesta di trasferimento in base alla normativa suindicata non configura un diritto incondizionato del richiedente: la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento di un proprio dipendente, presentata ai sensi dell’art. 33, quando le condizioni personali e familiari dello stesso recedono di fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon funzionamento degli uffici e del prestigio dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2014, nr. 1073).

Il c.d. “diritto al trasferimento” è quindi rimesso ad una valutazione relativamente discrezionale dell’Amministrazione ed è soggetto ad una duplice condizione: che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e disponibile e che vi sia l’assenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione; ne discende che, quand’anche il requisito della vacanza e della disponibilità risulti soddisfatto, il beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza o di destinazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 aprile 2014, nr. 1677).

Quando poi risulta che la persona portatrice di handicap ha altri familiari in loco e che il richiedente non ha in precedenza prestato attività di assistenza nei suoi confronti, la p.a. può legittimamente respingere l’istanza di trasferimento (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere nr. 3297 del 21 novembre 2013)”.

La sentenza, inoltre, conferma quanto già statuito dal giudice di prime cure, ovvero che per avere il “diritto al trasferimento” il dipendente deve già assistere, sin da quando è in servizio, una persona disabile.  I Giudici ancorano tale statuizione al tenore dell’art. 33, c. 3 della L. n. 104/1992, secondo cui: “il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità”. 

Che si davvero questa, però, la ratio legis?

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 4200 del 2014

Lo spunto del sabato: L’uomo è fame

16 Ago 2014
16 Agosto 2014

Da Don Andrea Gallo "Sopra ogni cosa. Il Vangelo laico secondo Fabrizio De Andrè nel testamento di un profeta":

"Siamo tutti affamati d'amore. Ogni essere umano sulla nostra Madre Terra è un affamato, un assetato, un perenne insoddisfatto... L'essere umano è, per sua stessa natura, destinato a essere tormentato da una fame acuta e inestinguibile. La sua ricerca di qualcosa che possa saziarlo è sovente frenetica. E' una fame che talvolta degenera in bulimia... E' fame di cibi ricercati e preziosi, ma anche di oggetti, di comodità, di esperienze nuove, di emozioni, di sentimenti... Simone Weil diceva che "l'uomo è fame". L'individuo sovente non lo sa (o fa finta di non saperlo), mentre -aggiungeva la grande filosofa francese- "l'essenziale è sapere che si ha fame". Un perenne senso d'insoddisfazione attraversa tutta la parabola dell'esistenza umana. L'uomo crede di poter essere felice se risolve tutti i propri bisogni fisici, materiali, intellettuali, affettivi, relazionali e persino spirituali, ma quando ha raggiunto o ottenuto ciò che desidera, percepisce nuovi bisogni e sente forte la mancanza di qualcosa che possa finalmente pacificarlo mettendo a tacere la sua inquietudine profonda... Il dramma è l'insufficienza della creatura umana, la sua finitezza, il suo limite. Ecco perchè l'essere umano spasima tutta la vita una pienezza che non potrà mai ottenere, se non in rari e fugacissimi momenti. Il cuore dell'uomo anela a un'ulteriorità che lo trascende. L'uomo è un perenne insoddisfatto, anche quando pare appagato in tutto... L'accettazione della propria fame è un cammino difficile. L'uomo saggio grida la propria fame, ma ancora prima la riconosce e l'accetta. L'uomo è affamato di un senso. E fino a che non l'ha trovato non trova pace. la pace, qui sulla terra, è realtà sempre provvisoria e sfuggente. E tuttavia essa ci aiuta a proseguire il cammino, anche di fronte al mistero della sofferenza, anche di fronte al nonsenso e all'assurdità di tante situazioni. L'uomo deve gridare la propria fame di attenzione e di amore, proprio come fece Faber nella sua Amico Fragile, perchè quando l'uomo diventa consapevole della propria fame comincia a uscire da se stesso, a diventare umile, compassionevole, tollerante".

Dedicato alla memoria di Robin Williams

Dario Meneguzzo

Il debito pubblico italiano è eccessivo e pericoloso

14 Ago 2014
14 Agosto 2014

A giugno il debito pubblico italiano è salito a 2.168,4 miliardi di euro, aumentando di 99 miliardi in soli sei mesi dall'inizio dell'anno.

E' evidente che non si può sostenere ancora per molto una situazione del genere: se, per accumulare 2000 miliardi di debito pubblico, l'Italia ha impiegato circa 70 anni, c'è molto che non quadra, se adesso il debito aumenta al ritmo di 200 miliardi all'anno. Ormai gli addetti ai lavori sembrano rassegnati all'idea del commissariamento dell'Italia da parte della BCE, con la conseguente adozione di misure drastiche (leggasi come un imponente drenaggio di denaro a carico dei cittadini).

Segnaliamo sulla questione l'interessante articolo di Guido Salerno Aletta, ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi, al seguente link

http://www.formiche.net/2014/08/13/vi-spiego-perche-urgente-intaccare-il-debito-pubblico/

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