I chiarimenti del Consiglio di Stato sulla nozione di ristrutturazione edilizia
Il Consiglio di Stato ha affermato che l’evoluzione della normativa (tra cui la riscrittura a più riprese dell’art. 3, co. 1, lett. d d.P.R. 380/2001) ha portato all’individuazione di tre distinte ipotesi di ristrutturazione edilizia, che possono tutte portare «ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»: una prima ipotesi, spesso definita “ristrutturazione conservativa”, che non comporta la demolizione del preesistente fabbricato e che può apportarvi anche modifiche di significativo impatto, compresi, in linea generale, l’inserimento di nuovi volumi o la modifica della sagoma; nonché una seconda e una terza ipotesi, definite anche “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione”, caratterizzate, rispettivamente, dalla demolizione e ricostruzione di un edificio e dal ripristino di un fabbricato crollato o demolito.
In caso di demo-ricostruzione il proprietario può sfruttare il volume dell’edificio demolito, mentre nell’ipotesi di nuova costruzione può utilizzare solo la volumetria espressa dall’area di edificazione. Inoltre, la ri-costruzione è consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti (come oggi codificato nell’art. 2-bis, co. 1-ter d.P.R. 380/2001), mentre i nuovi edifici devono rispettare i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dall’art. 9 d.m. 1444/1968.
L’evoluzione dell’art. 3, co. 1, lett. d d.P.R. 380/2001 è innegabilmente caratterizzata da un progressivo allontanamento dall’obbligo originario della fedele ricostruzione, mediante l’eliminazione dei vari vincoli e la conseguente estensione della nozione di ristrutturazione edilizia.
Il requisito del “nesso di continuità” tra il fabbricato preesistente e quello risultante dall’intervento, se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’ultimo testo della lett. d cit., sul quale il legislatore è intervenuto nel 2020 con l’intenzione – ricavabile oggettivamente dalle modifiche apportate (l’espressa puntualizzazione che possono mutare «sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche») ed esplicitato nei lavori parlamentari (in particolare, nella relazione illustrativa al Senato), e nella circolare congiunta del MIT e del Ministero per la P.A. del 2 dicembre 2020 – di ricomprendere, per gli immobili non vincolati, qualsiasi intervento di demolizione e ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvo il limite della volumetria.
Tuttavia, da un’altra prospettiva, un’esegesi che sia rispettosa della lettera e della logica della disposizione non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi – di per sé sola e in assenza di specifiche previsioni di legge o degli strumenti urbanistici – una sorta di “credito volumetrico” che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della ristrutturazione edilizia, dovendo quest’ultima rispettare una serie di limiti e condizioni, che si ricavano dalla lett. d cit. e ai quali deve essere ricondotta ogni pretesa di “continuità”.
In primo luogo, l’intervento deve avere a oggetto un unico edificio, nel senso che nella fase di ricostruzione è precluso – meglio, esorbita dall’ambito della ristrutturazione ricostruttiva – l’accorpamento di volumi precedentemente espressi da manufatti diversi ovvero il frazionamento di un volume originario in più edifici di nuova realizzazione. Ciò vale anche se uno dei due edifici che si volessero accorpare fosse una pertinenza.
In secondo luogo la norma affronta due ipotesi di ristrutturazione ricostruttiva, a seconda che l’edificio di partenza esista, oppure sia crollato o demolito. Nel primo caso, si presuppone necessariamente una contestualità temporale tra la demolizione e la ricostruzione, dando luogo ad una “unitarietà” dell’intervento, nel senso, dunque, che entrambe debbono essere legittimate dal medesimo titolo. Nel secondo caso, la continuità che si perde sul piano temporale viene recuperata, dal legislatore, con la reintroduzione del limite costituito dal rispetto della preesistente consistenza del fabbricato non più esistente, cioè la necessità di rispettare, nel nuovo fabbricato, la volumetria del fabbricato crollato o demolito. La differenza tra le due ipotesi si coglie soprattutto sui presupposti per la legittimità dell’intervento: nel primo, l’edificio è ancora presente nel momento in cui il privato instaura il rapporto con la P.A., presentando l’istanza di rilascio del PdC ovvero la SCIA alternativa allo stesso, cosicché la sua consistenza può essere verificata dalla P.A., nell’istruttoria preordinata al rilascio del titolo abilitativo ovvero ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri inibitori, repressivi e conformativi di cui all’art. 19, co. 3 l. 241/1990; nel secondo, il privato deve dimostrarne la “preesistente consistenza”, onere che logicamente non può essere assolto unicamente mediante i rilievi e le asseverazioni del tecnico di fiducia – i quali devono a loro volta essere verificabili – ma deve esserlo mediante elementi oggettivi, quali gli atti di fabbrica o i titoli edilizi che hanno interessato il precedente fabbricato, ovvero le planimetrie catastali, purché da essi siano ricavabili in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire, poiché solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili. La demolizione e la ricostruzione devono essere realizzate in forza di un unico titolo legittimante (anche al fine di consentire al Comune di verificare l’esatta consistenza del fabbricato preesistente prima che ne inizi la demolizione).
In terzo e ultimo luogo, il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché la lett. d cit. stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali». Devono ritenersi escluse – meglio, conducono a qualificare l’intervento come nuova costruzione – tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di ristrutturazione ricostruttiva che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica.
Come espressamente stabilito dal comma 2 dell’art. 3 d.P.R. 380/2001, le definizioni contenute al precedente comma 1 prevalgono sugli strumenti urbanistici e sui regolamenti edilizi.
Post di Alberto Antico – avvocato
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Molto utile e condivisibile. Buona giornata
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