Riflessioni sulla nuova disciplina del mutamento di destinazione d’uso edilizio nella Regione Veneto
L'avvocato Domenico Chinello, che sentitamente ringraziamo, ci invia una nota, che volentieri pubblichiamo, sul nuovo art. 42-bis, della L.R. del Veneto n. 11/2004, introdotto dall’art. 22 della L.R. n. 6/2025: "Riflessioni sulla nuova disciplina regionale del mutamento di destinazione d’uso edilizio".
Il cambio di destinazione d’uso richiede sempre nuovi standard urbanistici? In che misura il ripristino della destinazione originaria incide sulla valutazione del carico urbanistico? Quali principi operativi si possono ricavare per gli interventi di rigenerazione nei centri storici?
Ripristino della destinazione originaria e carico urbanistico: interviene il Consiglio di Stato
In un momento in cui i temi della rigenerazione urbana e del riuso del patrimonio edilizio esistente sono centrali per le politiche urbanistiche e per l’attività tecnica quotidiana, resta spesso aperta una domanda concreta: quando un cambio di destinazione d’uso comporta un effettivo aggravio di carico urbanistico e richiede quindi il reperimento di nuovi standard (parcheggi, servizi, verde)?
La risposta fornita dal Consiglio di Stato con la sentenza 29 maggio 2025, n. 4686 è di grande utilità operativa: se il mutamento d’uso ripristina una funzione originaria compatibile e già ammessa dagli strumenti urbanistici, senza incrementare i flussi o il carico insediativo, non si produce aggravio di carico urbanistico. Un principio che tecnici e progettisti potranno utilizzare come riferimento solido nella gestione di molte pratiche di rigenerazione.
Il tutto immagino nella presunzione che: La dotazione di parcheggi pubblici o di uso pubblico di modifica delle destinazioni d’uso anche senza opere, inizialmente sia avvenuto quale insediamento di destinazioni d’uso originariamente considerate nel dimensionamento urbanistico dei piani urbanistici attuativi o negli interventi diretti convenzionati; e se non fosse stato così?
Almeno vanno reperiti gli standard all’interno degli A.T.O., in quota parte rispetto alla carenza di standard sia essi residenziali, produttivi, commerciali / direzionali.
Sentenza che sostanzialmente va incontro al salva casa.
Ci sarebbe da valutare se il cambio d’uso dell’epoca aveva comportato un aumentato di carico urbanistico aggiuntivo, e oggi si possa ricalcolare il tutto, … immagino di no, altrimenti si creerebbe un dai e togli infinito, non sostenibile urbanisticamente.
Mi rimane sempre un dubbio, visto che:
La dotazione di parcheggi pubblici o di uso pubblico in genere è così determinata:
– destinazione residenziale: m² 5 ogni abitante teorico;
– destinazioni commerciale e direzionale: m² 100 ogni 100 m² di superficie lorda (SL).
– destinazioni artigianale e industriale: m² 10 ogni 100 m² superficie fondiaria;
Come si fa a dire che per il passaggio di categoria, in certi casi, non si devono ricavare gli standard?
Si cerca di spiegare perchè la CILA non è sufficiente, nel mentre serve la Scia per i mutamenti d’uso senza opere.
Punto 7), si dice:
Nella prima versione del decreto, al comma 1-quinquies, si diceva anche che:
“restano ferme le eventuali leggi regionali più favorevoli”.
Cioè: le Regioni potevano continuare ad applicare regole più permissive o semplici, se già in vigore. Quella frase (restano ferme le leggi regionali più favorevoli) è stata eliminata.
Ma al comma 3 dell’art. 23-ter, è precisato:
“le regioni sono tenute ad adeguarsi ai nuovi principi statali sulla liberalizzazione del mutamento d’uso, salva la possibilità per le regioni medesime di prevedere livelli ulteriori di semplificazione”.
Cosa implica questa modifica?
Prima: le Regioni che avevano già norme più favorevoli (ad esempio: niente SCIA o iter ancora più snelli) potevano mantenerle.
• Ora: quella possibilità non è più garantita automaticamente. Le Regioni devono adeguarsi ai nuovi principi statali.
Significato concreto: le Regioni non possono più ignorare la norma statale. Devono, al contrario, armonizzarsi ad essa (quindi, almeno la SCIA è necessaria).
La frase “salva la possibilità… di prevedere livelli ulteriori di semplificazione” lascia spazio alle Regioni per innovare in senso ancora più snello, ma non per andare contro o ignorare i principi statali.
• Quindi: una Regione può semplificare di più, ad esempio con silenzio-assenso più rapido, meno documentazione, ecc., ma non può eliminare del tutto la SCIA o creare un sistema incompatibile con quello statale.
L’eliminazione della clausola “restano ferme le leggi regionali più favorevoli” rafforza l’unitarietà dell’ordinamento nazionale in tema di mutamento d’uso senza opere.
• Tuttavia, con la clausola “salva la possibilità…”, si mantiene una finestra per l’autonomia regionale, purché le semplificazioni restino coerenti con la struttura nazionale e non la contraddicano.
al punto 2) si dice:
Per esempio, una unità immobiliare ad uso produttivo, in zona D), può liberamente transitare alla destinazione d’uso direzionale senza limite alcuno, salvo il rispetto delle normative di settore.
Nel mentre già le N.T.O. dei P.I. stabiliscono che,
le attività commerciali/ricettive/direzionali previa integrazione delle aree a standard di cui all’art. 9 bis delle presenti Norme Tecniche Operative da ricavarsi all’interno del lotto edificabile, fino alla concorrenza del 30% della potenzialità edificatoria del lotto, nel rispetto della L.R. 28 dicembre 2012 n. 50 e del relativo regolamento regionale di cui all’allegato A D.G.R. n. 1047 del 18 giugno 2013.
Le limitazioni come quella del 30% sono stabilite per garantire che l’uso del suolo non comprometta la funzione originaria della zona (in questo caso industriale). Un cambiamento indiscriminato potrebbe portare a problemi di congestionamento, viabilità, o infrastrutture inadeguate. Le zone industriali sono pensate principalmente per attività produttive, quindi i comuni vogliono evitare che venga trasformato tutto lo spazio, che potrebbe non essere compatibile con le altre attività industriali.
Per cui ha fatto bene la Regione a fare questa modifica, cioè a collocare produttivo e direzionale non nella stessa categoria funzionale, rendendo il passaggio tra le due destinazioni rilevante urbanisticamente; anche se il direzionale sarebbe meno “pesante” del commerciale. Il direzionale è generalmente considerato meno impattante sul piano urbanistico rispetto al commerciale, perché: genera meno traffico veicolare e pedonale, ha orari più regolari (uffici chiusi la sera e nei weekend), non attira clientela generica dall’esterno.
Tuttavia, anche il direzionale può essere limitato: per evitare che intere aree industriali diventino “quartieri di uffici”, per garantire la permanenza delle attività produttive e logistiche,
art. 6 – esclusi dall’individuazione:
a) le aree o gli edifici ricadenti nelle zone di pericolosità individuate dai vigenti Piani Stralcio di Assetto Idrogeologico (PAI) e dai Piani di Gestione del Rischio Alluvioni (PGRA)
Per cui anche le Zone P1 e P2 immagino.
“Sui cambi d’uso in generale – indipendentemente dal piano seminterrato, terra o primo – ai fini del rischio alluvioni non si deve valutare solo il danno al primo piano fuori, ma l’insieme di tutti i fattori, come la Si parla pure di vulnerabilità dei beni esposti. Per questo motivo, anche destinare unità a uso residenziale al secondo piano può contribuire ad aggravare il rischio potenziale, ad esempio aumentando la presenza di famiglie in aree esposte. Limitare l’esclusione solo alle unità poste al primo piano fuori terra appare quindi in contrasto con i criteri generali – e in particolare con le disposizioni operative – delle NTA del PGRA, che stabiliscono: ‘Per tutti gli ampliamenti non può essere mutata la destinazione d’uso degli edifici.’
Lei dice al punto 4):
Per non parlare della possibilità – per gli Enti locali – di limitare il cambio d’uso verticale, ammettendo solo «la finalizzazione del mutamento alla forma di utilizzo dell’unità immobiliare conforme a quella prevalente nelle altre unità immobiliari presenti nell’immobile», giusta la facoltà espressamente consentita dal Legislatore statale, nel comma 1-quater dell’art. 23-ter del Testo Unico.
Visto che questo passaggio non è previsto nella legge regionale, si applica lo stesso?
Si cita quello che deve fare il PAT:(art. 18 PDL 244)
– indica i criteri quantitativi, localizzativi e prestazionali per la determinazione delle dotazioni territoriali, in rapporto al dimensionamento teorico effettuato, assicurando il rispetto delle dotazioni minime complessive dei servizi ai sensi dell’articolo 38; dimensiona le aree per servizi per i singoli ATO in rapporto alle caratteristiche del tessuto insediativo; determina il fabbisogno di dotazioni territoriali per i settori produttivo, commerciale, direzionale e turistico anche in funzione dei cambi di destinazione d’uso e delle trasformazioni consentite; può aggregare e ridefinire le quantità delle dotazioni territoriali, stabilendo anche i limiti e i criteri generali per l’eventuale monetizzazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 38, comma 7;
Per cui, sinceramente, non capisco a cosa serva una variante ad hoc (punto 4 della nota), se il comma 8 già prevede ciò che il PAT sostanzialmente fa, e il comma 9 esclude standard e altro, ma solo in misura limitata (una unità) e solo nelle zone A, B e C già urbanizzate.
Un Comune che, nelle sue norme relative alle Zone B e C, include questo passaggio di un articolo, che recita:
É sempre consentita, con le limitazioni di cui al presente articolo relativamente ai beni di cui alle categorie ***) e ***), la modifica delle destinazioni d’uso in atto, tra quelle previste dal presente articolo con le limitazioni di cui alla lettera *), purché venga assicurata la necessaria dotazione di aree a parcheggio come indicato all’art. 9 bis.; tale modifica è ammessa solo nei casi in cui non vi sia la necessità di opere o strutture in contrasto con la tipologia delle classi di appartenenza e l’indotto, in termini di accessibilità e sosta, non comporti modifiche strutturali alle aree libere di pertinenza, in contrasto con le norme di tutela;
deve ora consentire il cambio d’uso oppure le limitazioni previste restano comunque applicabili?
La domanda – seppur formulata in termini retorici – mira a sollevare un dubbio interpretativo rilevante, anche in riferimento al punto 1 della premessa contenuta nella sua nota: se oggi, in base alla normativa sovraordinata, il cambio d’uso è consentito anche in assenza di standard (sia urbanistici che funzionali), che efficacia mantiene la parte della norma comunale che subordina la modifica d’uso alla disponibilità di parcheggi e all’assenza di interventi che impattino su tipologia edilizia, accessibilità e aree libere? In altre parole: le condizioni restrittive previste dal Comune sono ancora opponibili oppure risultano superate o quantomeno derogabili alla luce della disciplina vigente?
Al punto 5 si legge:
“5. Le prescrizioni del comma 8 della nuova norma regionale e l’immediato dietro-front del successivo comma 9.”
Ma va rilevato che il comma 8 si applica a tutti gli interventi, comprese le zone E, F e D, quindi è corretto che sia formulato in questo modo e non rappresenta affatto un “dietro-front”.
Il comma 9, invece, si limita ad allinearsi alla normativa nazionale, presumendo che nelle zone A, B e C non siano richiesti ulteriori standard urbanistici, né la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria.
Pertanto, non si tratta di alcun ripensamento normativo, ma di una distinzione coerente con la logica delle diverse destinazioni urbanistiche.
La >CILA non è ammessa nemmeno dall’art. 3 c. 1 let.b) del dpr n. 380/2001 – che infatti dice:
….e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico.
a pag. 6 di dice<.
Gli strumenti urbanistici comunali, nel «fissare specifiche condizioni», potranno prevedere misure di contingentamento delle richieste di cambio di destinazione d’uso, anche reintroducendo verosimilmente obblighi prima previsti in via generale (per esempio, il reperimento di aree a servizi, o la dotazione minima di parcheggi), ma potranno farlo non più in via astratta e generalizzata, bensì magari per determinate zone del proprio territorio, o con riguardo a specifici immobili, congruamente motivando sulle ragioni della scelta.
Insomma, sembra ipotizzare che le prescrizioni finora stabilite dagli strumenti urbanistici siano discriminatorie e non motivate.
Il reperimento di aree a standard è sempre stato richiesto sulla base delle norme tecniche operative dei Piani degli interventi ove, per esempio, il dimensionamento degli standard a livello territoriali non era sufficiente a supportare cambi d’uso indiscriminati, in particolare verso destinazioni d’uso a maggior consumo di standard. Per lo stesso motivo, in alcune ZTO le destinazioni d’uso diverse dalla residenza sono consentite solo per una parte degli immobili.
La norna che ora rompe questo equilibrio, consente senza limite alcuno (“sono, altresì, sempre ammessi”) l’insediamento nelle zone A, B e C di destinazioni d’uso non previste, non solo potenzialmente non supportate dal minimo di aree per funzioni collettive, ma addirittura incompatibili: sembra infatti ammesso anche il cambio di destinazione d’uso verso una destinazione “produttiva” anche in zona A.
Per chiunque mastichi la materia, ma non per alcuni, è perfettamente chiaro che “aree per servizi”, “opere di urbanizzazione primaria” e “oneri di urbanizzazione primaria” sono tre cose diverse.
(fonte S.A)
Esempi di mutamenti intra-categoria che potrebbero richiedere titolo edilizio:
• Mutamenti da una tipologia di commercio a un’altra (come il passaggio da commercio all’ingrosso a commercio al dettaglio) che potrebbero alterare la destinazione d’uso pratica di un’area (anche se rimani dentro la categoria “commerciale”), soprattutto in termini di afflusso di persone, parcheggi, viabilità e servizi. In questo caso, si dovrebbe richiedere una comunicazione di avvio attività o una SCIA.
• Mutamenti da un’attività artigianale a industriale: anche se si rimane nella stessa categoria funzionale (attività produttive), l’intensità e il tipo di impatto (soprattutto ambientale) potrebbero richiedere un esame preliminare o una comunicazione formale al comune.
Lei afferma:
In buona sostanza, la più articolata disciplina veneta appare ampiamente giustificata dalla previsione della norma statale che rinvia alle Regioni per eventuali ulteriori livelli di semplificazione.
Traducendo quindi con riferimento agli interventi senza opere e su unità inferiori ai 250 mq, si ritiene sufficiente la CILA.
Mi permetto di dissentire.
Questa impostazione, a mio avviso, costituiva una forzatura già in passato, e lo è tuttora. Potrà certamente richiamarsi – come già fecero a suo tempo alcuni avvocati “vicini” alla Regione – al comma 4 dell’art. 6-bis del DPR n. 380/2001. Tuttavia, occorre considerare anche quanto previsto dal comma 2 dell’art. 10, che attribuisce alle Regioni la facoltà di stabilire con legge quali mutamenti di destinazione d’uso, connessi o meno a trasformazioni fisiche, siano subordinati a permesso di costruire o a SCIA. Questo è ulteriormente confermato dall’art. 23-ter.
Sul piano applicativo, le difficoltà sono evidenti: già il comma 10, crea difficoltà nei “mutamenti” intra-categoria (es. da industriale ad artigianale, o da commercio all’ingrosso a dettaglio), visto he rientrano in attività considerate libere.
Pertanto, ritenere che un intervento urbanisticamente rilevante possa essere soggetto a CILA, non solo appare in contrasto con la norma nazionale, ma è anche incompatibile con le conseguenze pratiche che derivano in sede di sanatoria, dove è richiesto almeno il ricorso alla SCIA in sanatoria (mai la CILA tardiva). Basti pensare, ad esempio, alla questione del calcolo degli standard urbanistici o alla determinazione degli oneri da corrispondere.
Sarebbe opportuno un approfondimento su questi aspetti in occasione del webinar dell’11 luglio.
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