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Il fermo amministrativo può essere disposto solo dalle autorità statali

05 Apr 2014
5 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 05 marzo 2014 n. 288 chiarisce che la autorità che possono disporre il fermo amministrativo ex art. 69 del R.D. n. 2440/1923 sono soltanto quelle statali: “7. Quanto al fermo amministrativo adottato sempre dall’Avepa, esso, oltre ad essere illegittimo poiché fondato esclusivamente sul medesimo presupposto dell’interposizione fittizia della Ri.ba, è anche viziato per incompetenza dell’ente che lo ha emesso.

7.1. Tale provvedimento è stato infatti disposto dall’Avepa, ai sensi dell’art. 69 commi 5 e 6 del R.D. n. 2440/1923, su richiesta e nell’interesse di AGEA.

Tale articolo prevede che “Qualora un'amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo.

Tra le amministrazioni dello Stato devono intendersi le Agenzie da esso istituite, anche quando dotate di personalità giuridica. Alle predette amministrazioni devono intendersi equiparate l'Agenzia del demanio e l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), in considerazione sia della natura delle funzioni svolte, di rilevanza statale e riferibili direttamente allo Stato, sia della qualità, relativamente all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, di rappresentante dello Stato italiano nei confronti della Commissione europea ai sensi del decreto legislativo 27 maggio 1999, n. 165, e successive modificazioni”.

In base a tale norma, quindi, come correttamente rilevato dalla ricorrente, il fermo amministrativo può essere adottato soltanto da un’amministrazione dello Stato, dalle Agenzie istituite dallo Stato, dall’Agenzia del Demanio e dall’Agea.

Secondo la giurisprudenza, il fermo disposto ai sensi dell'art. 69 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 costituisce un'eccezionale forma di autotutela cautelare in relazione al patrimonio dello Stato, quale misura preordinata alla compensazione delle obbligazioni nei rapporti reciproci tra due soggetti, lo Stato e il debitore-creditore pecuniario (Cassazione civ. Sez. I 7 marzo 1983 n.1673).

Esso ha quindi lo scopo di legittimare la sospensione in via cautelare e provvisoria del pagamento di un debito liquido ed esigibile da parte di un'amministrazione dello Stato a salvaguardia, appunto, di eventuale compensazione legale con altro credito che la stessa o altra amministrazione statale pretenda di avere nei confronti del suo creditore (Cassazione sezioni Unite n.7945/2003).

Sulla scorta di quanto testé affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, il fermo presuppone che le Amministrazioni tra le quali si attua siano tutte statali e non può essere disposto in ordine ad obbligazioni facenti capo ad amministrazioni non statali.

7.2. Nella specie, il fermo è stato adottato dall’Avepa, che è un’agenzia regionale, su somme dalla stessa dovute alla Ri.ba, per salvaguardare un credito dell’Agea.

E’evidente, pertanto, il vizio d’incompetenza denunciato”.

Nella stessa sentenza, inoltre, con riferimento ai presupposti per sospendere il pagamento, i Giudici asseriscono che le indebite percezioni dei contributi devono risultare da notizie circostanziate: “In primo luogo, sotto il profilo dell’illegittimità provvedimentale, quanto alla sospensione delle erogazioni da parte dell’Avepa, appare fondata l’eccezione di violazione dell’art. 33 del 228/2001, il quale stabilisce che “i procedimenti per erogazioni da parte degli Organismi pagatori…sono sospesi riguardo ai benefìciari nei cui confronti siano pervenute da parte di organismi di accertamento e di controllo, notizie circostanziate di indebite percezioni di erogazioni a carico del bilancio comunitario o nazionale, finché i fatti non siano definitivamente accertati”.

4. La norma in esame indica, dunque, fra i presupposti della sospensione delle erogazioni, l’esistenza di “notizie circostanziate d’ indebite percezioni a carico del bilancio comunitario o nazionale” pervenute “da parte di organismi di accertamento e controllo”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 288 del 2014

Nel project financing spetta all’ente individuare la proposta di pubblico interesse

05 Apr 2014
5 Aprile 2014

Il Consiglio di Stato, sez. III, nella sentenza del 20 marzo 2014 n. 1365, si occupa dell’istituto del project financing, ovvero della finanza di progetto attualmente disciplinato dagli artt. 153 e ss. del D. Lgs. n. 163/2006 affermando che spetta all’ente pubblico individuare e valutare il pubblico interesse della proposta formalizzata dal privato: “Va premesso, in generale, che, in materia di finanza di progetto, la procedura di scelta del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è volta alla ricerca non solo di un ‘contraente' ma di una ‘proposta', che integri l'individuazione e la specificazione dell'interesse pubblico perseguito ( Cons. St., I, 29 aprile 2013, n. 7153 ).

Il legislatore, nel disciplinare l’istituto del project financing, ha invero distinto le fasi in cui si articola il complesso procedimento volto alla realizzazione di opere pubbliche senza oneri finanziari da parte della amministrazione.

La legge prevede in particolare che, in seguito alla presentazione di una proposta da parte dei soggetti cui è riconosciuta detta facoltà, l’amministrazione deve operare una valutazione della medesima a sua volta propedeuetica all’indizione delle procedure di gara per l’aggiudicazione della concessione.

La fase di valutazione della proposta era nella fattispecie all’esame ratione temporis disciplinata dall’art. 37-ter della legge n. 109/1994, che, nella formulazione allora vigente, prevedeva che “entro il 31 ottobre di ogni anno la amministrazioni aggiudicatrici valutano la fattibilità delle proposte presentate ... verificano la assenza di elementi ostativi alla loro realizzazione e, esaminate le proposte stesse anche comparativamente, sentiti i promotori che ne facciano richiesta, provvedono ad individuare quelle che ritengono di pubblico interesse”.

Quindi, alla verifica della fattibilità del progetto e dell’assenza di elementi ostativi alla realizzazione dell’opera, doveva necessariamente seguire la individuazione della proposta di pubblico interesse e solo a seguito di tale individuazione le amministrazioni avrebbero potuto procedere alla indizione della gara di cui all’art. 37-quater, co. 1, lett. a), della legge n. 109/1994 ed alla successiva aggiudicazione della concessione mediante una procedura negoziata, da svolgersi tra il soggetto che avesse presentato la proposta progettuale iniziale (cd promotore) e i soggetti presentatori delle due migliori offerte della gara in precedenza indetta (cfr. ex plurimis, da ultimo, Cons. Stato, VI, 8 marzo 2013, n. 1315).

Inoltre, in materia di "project financing", anche nella vigenza della precedente disciplina di cui agli art. 37-bis, ter e quater della legge 11 febbraio 1994, n. 109, l'amministrazione - una volta individuato il promotore e ritenuto di pubblico interesse il progetto dallo stesso presentato ( dichiarazione nella fattispecie non intervenuta ), non era tenuta a dare corso alla procedura di gara, essendo libera di scegliere - attraverso valutazioni attinenti al merito amministrativo e non sindacabili in sede giurisdizionale - se, per la tutela dell'interesse pubblico, fosse più opportuno affidare il progetto per la sua esecuzione ovvero rinviare la sua realizzazione ovvero non procedere affatto.

Nella specie, tuttavia, il progetto facente capo alla società Siemens non ha esaurito nemmeno la fase del complesso procedimento iniziale, non essendo stata valutata, come già detto, di pubblico interesse o, rectius, essendo stata dichiarata tale solo, “ad un sommario esame”, che tuttavia implicava, propedeuticamente al giudizio definitivo, la necessità di “... nominare una commissione di esperti che valuti gli aspetti tecnici ed economici della proposta medesima” (cfr. delibera n. 1726/01 della ASL Sa 1) e la approvazione regionale”.

Nella stessa sentenza il Collegio, dopo aver sottolineato che: “la ASL non aveva alcuna autonoma possibilità di approvare e realizzare il progetto che rientrava nella pianificazione regionale, atteso anche, sotto altro profilo, che l’istituto del project financing non puòritenersi svincolato, a mente della legge n. 109/1994, art. 37-ter, dalla normativa di settore, essendo imposto alla amministrazione di verificare l’assenza di elementi ostativi alla realizzazione dell’opera”, ricorda che: “l'amministrazione è titolare del potere, riconosciuto dall'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, di revocare, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo quando ciò avvenga prima del consolidarsi delle posizioni delle parti (cfr., proprio in relazione ad un project financing, Cons. Stato Sez. III, 4026, 30 luglio 2013; Sez. III, n. 2838 del 24 maggio 2013; Sez. V, n. 2418 del 6 maggio 2013).

In disparte ogni approfondimento in merito alla questione della cd. pregiudiziale amministrativa, ora disciplinata dall’art. 30 cod. proc. amm., deve osservarsi che nel caso in esame nessuna violazione del dovere di correttezza negoziale è dato di ravvisare nel comportamento dell'amministrazione, che non ha mai dato luogo al benché minimo affidamento sul consolidamento di una posizione precontrattuale riconducibile a quella tipica del promotore, avendo le ricorrenti presentato il progetto di cui si tratta assumendosi il rischio che esso non venisse giudicato conforme all'interesse pubblico e dovendosi considerare insito nella posizione del promotore ( o, meglio, dell’aspirante a tale qualificazione ) il rischio economico della redazione e mancata realizzazione del progetto presentato, nella misura in cui esso è assoggettato al potere di verifica di fattibilità dell'amministrazione, con conseguente, concreta, possibilità di abbandono di qualsiasi ipotesi di esecuzione dell'intervento.

Essendo peraltro solo l'atto di scelta del promotore idoneo a determinare una immediata posizione di vantaggio per il soggetto prescelto, nessuna lesione di una situazione giuridicamente protetta può ravvisarsi nella mancata scelta facente seguito alla statuizione di inefficacia delle anzidette deliberazioni per effetto della mancata inclusione dell’opera nel piano sanitario regionale; sì che alcun legittimo affidamento può dirsi insorto in capo all’odierna appellante e nessuna lesione, come tale risarcibile, di siffatto affidamento può ravvisarsi.

7. Infine, non risulta pertinente la richiesta di rimborso avanzata ai sensi dell'articolo 37-septies, co. 1, lett. c), l. 11 febbraio 1994, n. 109, trattandosi di disposizione tesa a porre il concessionario al riparo degli effetti rivenienti da una possibile rivalutazione dell'interesse pubblico, prevedendo a suo favore un obbligo di tipo strettamente indennitario; laddove, nel caso di specie, nessun contratto risulta stipulato fra le parti, né le società ricorrenti hanno mai assunto la qualità di concessionarie previsto dall'allora vigente art. 37 septies della legge n. 104 del 1994”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1365 del 2014

I silos delle aziende agricole sono delle nuove costruzioni

04 Apr 2014
4 Aprile 2014

Nella sentenza n. 281/2014 il T.A.R. Veneto, per quanto concerne la natura edilizia dei silos usati negli allevamenti e nelle aziende agricole, afferma che essi devono essere considerati delle nuove costruzioni perché: “non sia rinvenibile nei silos la pretesa natura di opere precarie e/o pertinenziali, sebbene teoricamente amovibili, prive di autonoma utilizzabilità ed inidonee ad alterare lo stato dei luoghi in ragione delle loro modeste dimensioni. Invero, a prescindere dalle caratteristiche costruttive e di impiego dei silos, essi rappresentano, complessivamente intesi (trattasi di otto strutture su basamento in calcestruzzo), una considerevole trasformazione del territorio, essendo strettamente e funzionalmente ancorati all’edificio cui accedono, poggiando su una platea di calcestruzzo (come confermato in occasione dell’istanza di condono successivamente presentata ed anche dalla difesa istante in occasione della presentazione del terzo gravame, avverso il diniego di condono dei medesimi silos), comportando all’evidenza un intervento di trasformazione del territorio urbanisticamente rilevante e quindi soggetto a permesso di costruire, in quanto opere sicuramente eccedenti la manutenzione ordinaria. Rientrano invero nella nozione giuridica di costruzione, costituente modifica del territorio comunale per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, non necessariamente infissi al suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come nella specie, ove trattasi di silos prefabbricati, poggianti su platea di calcestruzzo e collegati alle stalle da sistemi di trasporto del mangime. Né è possibile ricondurre i silos ad impianti tecnologici, non essendo destinati ad ospitare alcun impianto di natura tecnologica, non potendo quindi essere esclusi, quale volume tecnico, dall'obbligo del rilascio del permesso di costruire, né a mere pertinenze, che per essere tali, ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, debbono essere privi di autonomia rispetto ad altra costruzione, circostanza non sussistente nel caso di specie vista la funzione dei silos, impiegati per lo stoccaggio, oltre alla distribuzione, del mangime per gli animali. In conclusione, per quanto riguarda specificamente i silos va ritenuta l’infondatezza dei motivi aggiunti, trattandosi di opere che necessitavano del permesso di costruire, che hanno dato luogo ad interventi eccedenti la manutenzione ordinaria, come tali inibite dall’art. 85 n.t.a. e sanzionabili con la demolizione e rimessione in pristino”.

Inoltre, per quanto concerne la condonabilità di questi manufatti, il Collegio chiarisce la portata dell’art. 32 della L. n. 326/2003 (c.d. terzo condono): “L'art. 32 comma 27 lett. d) L. 24 novembre 2003 n. 326 consente, come noto, la sanatoria delle opere abusive realizzate su aree vincolate soltanto in due ipotesi da tenere disgiunte, costituite dalla realizzazione delle opere stesse prima dell'imposizione dei vincoli e dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.

E’ possibile quindi ottenere la sanatoria ai sensi della legge n. 326 cit. delle opere abusive anche se realizzate in zona sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa, a condizione che sussistano i requisiti di cui all'art. 32 comma 27 lett. d), della predetta legge n. 326, e cioè che non si tratti di opere realizzate dopo l'imposizione del vincolo, in assenza o difformità dal titolo abilitativo, e che risultino conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ferma restando, in ogni caso, la non condonabilità degli abusi realizzati in aree sottoposte a vincolo di inedificabilità assoluta”.

dott. Matteo Acquasaliente

Allevamenti intensivi: competenza del Sindaco o del Dirigente?

04 Apr 2014
4 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 05 marzo 2014 n. 281, si occupa della competenza dei provvedimenti connessi agli allevamenti di carattere intensivo.

Innanzitutto il T.A.R. si sofferma sulla natura e sui presupposti dell’ordinanza sindacale contingibile ed urgente ex art. 50 D. Lgs. n. 263/2000 affermando che: “Lo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente è, come noto, uno strumento particolare di tutela che, eccezionalmente ed in presenza di condizioni di urgenza ed indifferibilità dei rimedi da adottare, è demandato al Sindaco, anziché, in via ordinaria, all’organo amministrativo, a maggior riprova dell’eccezionalità del mezzo utilizzato e dell’impossibilità di ricorrere agli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento. Essendo evidente, se non altro proprio in considerazione dell’organo che ha adottato l’ordinanza, che il provvedimento è stato assunto ai sensi del richiamato art. 50, ne discendono i profili di illegittimità denunciati da parte ricorrente, proprio sulla base dell’insussistenza delle condizioni di contingibilità ed urgenza che dovevano giustificare il provvedimento. La stessa ricostruzione degli avvenimenti pregressi e delle proposte progettuali per l’abbattimento degli odori, così come presentate dalla ricorrente e poi non ritenute soddisfacenti dall’amministrazione, confermano l’insussistenza delle condizioni per l’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente, quale rimedio straordinario, in alternativa agli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento. La necessità di presentare nuove proposte progettuali e di effettuare nuove analisi non costituiva quindi il presupposto per richiedere tali adempimenti mediante un’ordinanza di tal specie, la quale, per definizione, non solo ha come presupposto la presenza di un pericolo imminente per la salute pubblica (in questo caso non evidenziato se non in termini generici, con riferimento alla natura di industria insalubre di prima classe dell’insediamento, tanto da sollecitare la presentazione di un nuovo progetto, dopo aver peraltro concesso in precedenza una proroga ai termini assegnati con la prima ordinanza), ma presuppone che gli effetti debbano prodursi nell’immediato, circostanza questa che, oggettivamente, proprio tenuto conto delle prescrizioni impartite, non sussiste nel caso in esame, essendo state ordinate attività destinate a spiegare indefinitamente effetti nel tempo e soprattutto subordinate ad un nuovo e successivo esame delle proposte progettuali da parte dell’amministrazione. Ribadito quindi, come da costante interpretazione, che l'ordinanza sindacale ex art. 50 D. Lgs. n. 263 del 2000 deve contenere specifica motivazione circa la sussistenza, in concreto, degli elementi giustificativi dell'esercizio del potere, con indicazione dell'istruttoria compiuta e dei presupposti di fatto considerati, posto che il relativo potere presuppone la necessità di provvedere, con immediatezza, riguardo a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, alle quali sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento (v. T.A.R. Liguria Genova, Sez. I, 22/9/2011 n. 1409), la situazione di fatto così come rappresentata nel provvedimento impugnato non è riconducibile a tali presupposti, non essendo state evidenziate condizioni di immediato pericolo e soprattutto l’impossibilità di far fronte ai disagi rappresentati con i mezzi ordinari”.

 

Chiarito ciò il Collegio ritiene che i provvedimenti atti a limitare le sostanze odorigine provenienti dagli allevamenti siano di competenza del Sindaco, confermando quanto già commentato nei post del 19.11.2013 e del 01.10.2013 perché: “L’assunto, tuttavia, non merita di essere condiviso, stante la piena vigenza della specifica disposizione di cui all’art. 217 del T.U.LL.SS. che assegna al Sindaco i poteri di intervento in materia di igiene e sanità pubblica. L'art. 217 del testo unico della leggi sanitarie (27 luglio 1934 n. 1265) dispone infatti che "quando vapori, gas o altre esalazioni ... provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il podestà (oggi il sindaco, ovviamente) prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno". Il sindaco pertanto agisce in questa veste quale autorità sanitaria locale, chiamato ad esercitare poteri-doveri di controllo, anche preventivo, a tutela dell'ambiente e della salute pubblica. Ai sensi degli art. 216 e 217 t.u., il sindaco è infatti titolare di un generale potere di vigilanza sulle industrie insalubri e pericolose che può anche concretarsi nella prescrizione di accorgimenti relativi allo svolgimento dell'attività, volti a prevenire, a tutela dell'igiene e della salute pubblica, situazioni di inquinamento, e tale potere è ampiamente discrezionale ed esercitabile in qualsiasi tempo, sia nel momento in cui è richiesta l'attivazione dell'impianto, sia in epoca successiva (T.A.R. Veneto, sez. II, 16 dicembre 1997, n. 1754). Presupposto per l'esercizio di siffatto potere è la sussistenza di un concreto pericolo per l'ambiente e dunque per la salute pubblica, da valutare complessivamente a seguito di attenta ed approfondita istruttoria. Peraltro, come osservato dalla difesa istante, di detta competenza attribuita al Sindaco era ben consapevole la stessa amministrazione, quando proprio in occasione della deliberazione n. 36/2002 ha dettato gli indirizzi per la tutela del proprio territorio agricolo al fine dell’individuazione delle aziende che ricadono in zona impropria, demandando al Sindaco l’eventuale adozione di provvedimenti ai sensi degli artt. 216 e 217 T.U.LL.SS., oltre a quelli ai sensi dell’art. 50 del D.lgs. 267/00, laddove se ne verificasse la necessità”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 281 del 2014

A chi incombe l’onere di dimostrare la colpa nelle gare d’appalto?

04 Apr 2014
4 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 19 marzo 2014 n. 349, chiarisce che nelle gare pubbliche il privato non ha l’obbligo di dimostrare la colpa dell’Amministrazione, poiché la stessa può essere desunta sia dalla comune esperienza sia dalle presunzioni ex art. 2727 c.c.: “Peraltro, come la giurisprudenza anche di questo Tribunale ha più volte evidenziato, non è richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione, la quale può essere definitivamente accertata attraverso l’applicazione al caso concreto delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c.

Orbene, rileva il Collegio che nel caso di specie è stato violato non solo l’art. 5 della Legge n. 14 del 02.02.1973, ma anche una norma fondamentale della lex specialis di gara, sicché deve ritenersi integrata, sotto tali aspetti, la prova dell’elemento soggettivo del danno, anche in ragione del fatto che l’Amministrazione comunale non ha prodotto elementi tali da superare la presunzione di colpa che ne discende”.

 

Chiarito ciò, per quanto riguarda il risarcimento del danno il Collegio ritiene che: “Preliminarmente va rigettata la domanda risarcitoria avente ad oggetto i costi di partecipazione alla gara, i quali per consolidato orientamento giurisprudenziale restato a carico delle imprese concorrenti sia in caso di aggiudicazione che in caso di mancata aggiudicazione.

Il Collegio ritiene invece che debba essere riconosciuto a titolo di lucro cessante il profitto che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto.

In ordine alla quantificazione di tale voce di danno, l’impresa chiede un risarcimento pari ad € 49.063,41 ritenendo che l’utile che la stessa avrebbe conseguito qualora avesse ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto sarebbe stato il 20% del prezzo offerto.

Tuttavia il lucro cessante può essere risarcito per intero solo nel caso in cui l’impresa possa documentare di non aver impiegato le proprie strutture per altre commesse, e tale prova non è stata fornita dall’Impresa ricorrente.

Alla luce delle considerazioni che precedono, pertanto, risulta equo liquidare a titolo di lucro cessante la somma del 10% dell’utile che l’impresa avrebbe conseguito pari ad € 24.531,70.

Deve, altresì, essere risarcito il lamentato danno curriculare, posto che l’esecuzione di un appalto pubblico è indubbiamente fonte per l’impresa di un vantaggio economico relativo alla crescita della capacità di competere sul mercato in vista della possibilità di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti, che il Collegio stima equo quantificare con una somma pari al 10% di quanto liquidato a titolo di lucro cessante.

Pertanto, alla somma di € 24.531,70, devono aggiungersi € 2.453,17 a titolo di danno curriculare, per un risarcimento complessivo di € 26.984,87.

Trattandosi di debito di valore, alla ricorrente spetta la rivalutazione monetaria dal giorno in cui è stata emessa la determinazione comunale che ha dato luogo alla perdita di aggiudicazione dell’appalto, sino alla pubblicazione della presente sentenza, momento in cui il tale debito si trasforma in debito di valuta.

Spettano inoltre gli interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione, fino all’effettivo soddisfo”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 349 del 2014

Piano casa. Dai Comuni capoluogo (alcuni) s’ode un grido. “O la VAS o la spacca(s)!”

03 Apr 2014
3 Aprile 2014

Ripubblichiamo la nota del Dott. Roberto Travaglini che commenta le deliberazioni dei Consigli comunali di Vicenza, Padova, Venezia, che approvano una proposta di legge regionale per modificare la L. R. Veneto n. 32/2013 c.d. Terzo Piano Casa, aggiornata con le deliberazioni consiliari dei Consigli comunali di Treviso e Belluno.


Lo scorso 25 marzo il Consiglio comunale di Vicenza ha deliberato l’approvazione di una proposta di legge regionale d’iniziativa dal medesimo Consiglio, unitamente a quelli di Belluno, Padova, Treviso e Venezia, avente ad oggetto la modifica della L.R. 29.11.2013, n. 32, meglio nota come “Piano Casa 3”.

Il testo della stessa proposta è stata già approvata dai consigli comunali di Treviso (deliberazione n. 6, del 26 febbraio 2014), Padova (deliberazione n. 20, del 3 marzo 2014) Venezia (deliberazione n. 14, del 17 marzo 2014) e Belluno (deliberazione n. 9 del 17 marzo 2014).

Dalla lettura delle deliberazioni consiliari si possono conoscere i numerosi rilievi di “presunta” illegittimità costituzionale mossi alla L.R. 32/2013, così come quelli concernenti l’altrettanto “presunta” violazione della direttiva 2001/42/CE sulla valutazione degli impatti di determinati piani e programmi sull'ambiente (VAS - valutazione ambientale strategica) e del D. Lgs. 152/2006, per la parte in cui ha recepito la richiamata norma comunitaria.

Quanto alla proposta di legge d’iniziativa dei Consigli comunali dei citati capoluoghi di provincia, ci si limita a richiamare l’attenzione del lettore sul comma 2 dell’articolo unico di cui la proposta si compone.

Detto comma prevede l’inserimento di due nuovi commi in chiusura dell’art. 14 della L.R. 32/2013, rubricato “Disposizioni attuative e transitorie”. Le novità proposte consistono:

a)    nella fissazione di un termine di 90 giorni dalla pubblicazione della legge regionale recante tale nuova disposizione, entro il quale i Comuni “possono deliberare se o con quali limiti e modalità consentire l’applicazione delle disposizioni di cui ai precedenti articoli 3 (ampliamento), 4 (demolizione e ricostruzione con ampliamento), 6 (interventi per favorire la rimozione e smaltimento dell’amianto), 7 (interventi su edifici in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica e idrogeologica), 8 (oneri ed incentivi) e 10 (ambito di applicazione)” della legge regionale sul Piano casa, “in base ad una valutazione della loro sostenibilità”;

b)    nell’assoggettamento della deliberazione comunale di cui alla precedente lett. a) al parere della Commissione VAS regionale, “che si esprime, tenendo conto della Valutazione Ambientale Strategica eseguita per la presente legge, entro e non oltre i 30 giorni successivi al deposito della stessa”, trascorsi i quali il parere si intende reso positivamente;

c)    nella previsione che trascorso il termine di cui alla lett. a) senza che il Comune abbia deliberato, le norme della legge regionale sul Piano casa si applicano integralmente.

La qualità formale della normativa proposta lascia alquanto a desiderare, come dimostrano, ad esempio:

1)    la mancata indicazione dell’organo competente a deliberare, che non può essere altro che il Consiglio comunale;

2)    la previsione di un termine di 90 giorni per deliberare se o con quali limiti e modalità il Piano casa sia applicabile in ciascun Comune, ignorando che la L.R. 32/2013 è già pienamente vigente ed applicabile in tutto il territorio regionale a far data dal 1° dicembre 2013.

Quanto al merito della proposta, l’impressione è che si tratti di un’iniziativa “mediatica”, volta ad accreditare i proponenti come gli unici tutori del territorio, del paesaggio e dell’ambiente, anche in antitesi con l’Associazione dei Comuni del Veneto (ANCI VENETO), fautrice invece di una politica di confronto con la Regione Veneto, che ha portato alla predisposizione del testo del disegno di legge licenziato il 26 marzo dalla Giunta Regionale ed ora assegnato alla II^ Commissione per il parere propedeutico al voto dell’Assemblea.

Ma a parte il marketing politico, va sottolineato che la proposta di legge d’iniziativa dei citati Comuni capoluogo:

·         consente ai Comuni che lo volessero di escludere del tutto l’applicazione del Piano Casa nel loro territorio (“deliberare se … consentire l’applicazione …”), ovvero di assoggettarla, oltre che a “limiti”, anche a”modalità” non previste dalla L.R. 32/2013 (ad es: PUA in luogo dell’intervento edilizio diretto?; permesso di costruire in luogo della DIA?);

·         richiede che la deliberazione comunale sia assoggettata a valutazione ambientale strategica (questo pare essere il significato del non certo impeccabile inciso “tenendo conto della Valutazione Ambientale Strategica eseguita per la presente legge” contenuto nel proposto, nuovo, comma 2 ter) e che su detta VAS esprima entro 30 giorni dal relativo deposito (da intendersi presso la Commissione regionale) il parere la Commissione VAS regionale.

Come sia possibile conciliare la tempistica delineata dal comma 2-ter con la disciplina della VAS dettata dal D. Lgs. 152/2006 e dalle DGR 1717/2013, 384/2013, 791/2009, non è dato sapere ed è più che lecito dubitare!

Ma c’è di più: se si ritiene che “la nuova legge regionale si viene a configurare di fatto sia a livello regionale sia a livello comunale quale vero e proprio piano o programma di interventi edilizi” (cfr. 4° capoverso di pag. 4 della deliberazione del Consiglio comunale di Padova, ma come più volte sottolineato il medesimo testo si trova anche nelle deliberazione degli altri capoluogo), che senso ha prevedere che “decorso inutilmente tale termine si applicano integralmente le disposizioni della presente legge regionale” (cfr. ultimo capoverso del proposto nuovo comma 2 bis dell’art. 14 della L.R. 32/2013)?

Con tale norma “di chiusura”, infatti, viene minata alla radice la stessa ratio della disciplina proposta, in quanto si ammette che nei comuni il Piano casa possa operare, così come astrattamente delineato dalla legge regionale, pur in assenza della valutazione dei relativi impatti sull’ambiente, valutazione che la proposta di legge reputa, al contrario, essenziale e, perciò, irrinunciabile.

Addirittura, la trasposizione normativa “coerente” della filosofia alla base della proposta di legge in esame richiederebbe che ad essere sottoposta alla valutazione ambientale strategica fosse la stessa legge 32/2013, perché potenzialmente applicabile ovunque senza esclusioni e/o limitazioni, essendo quest’ultime rimesse all’iniziativa di ciascun Comune nel termine di 90 gg.!

Tesi, quella della sottoposizione a VAS non già di singoli piani e/o programmi, bensì della legge in quanto tale, del resto adombrata nel già riportato passaggio della deliberazione consiliare (“la nuova legge regionale si viene a configurare di fatto sia a livello regionale sia a livello comunale quale vero e proprio piano o programma di interventi edilizi”), e che non costituisce altro che la riproposizione dell’argomentazione con la quale il Consiglio comunale di Asiago aveva deliberato di “disapplicare” la L.R. 32/2013 (cfr. Gli ammutinati del piano casa – 1, Venetoius 31 dicembre 2013).

Ha certamente ragione Fernando Lucato (cfr. Appunti critici sul Seminario in materia di perequazione, Venetoius 18 marzo 2014) quando invita ad affrontare i temi complessi che sempre più spesso caratterizzano l’urbanistica in chiave multidisciplinare (disciplina e tecnica pianificatoria, diritto, ecc.), ma quando si scrivono norme giuridiche (come quelle contenute nelle proposte di legge, ma lo stesso vale anche per le norme inserite nei piani urbanistici e nei regolamenti edilizi) la precondizione dovrebbe essere quella di conoscere, oltre alla specifica materia di cui le redigende disposizioni si occupano, anche i fondamentali del diritto e della tecnica di produzione normativa.

Ma tant’è: come ormai quotidianamente c’insegna la politica, l’importante non è che le preannunciate norme siano giuridicamente sostenibili e concretamente applicabili, quanto la loro spendibilità mediatica.

Almeno in questo caso, peraltro, c’è da prevedere che il tutto si risolva in una “bolla di sapone” (mediatica, appunto!), e che il “grido” richiamato nel titolo si traduca in una “grida” di manzoniana memoria[1].

                                                                                              Roberto Travaglini


[1] Le "gride" erano i provvedimenti di legge che il governo del Ducato di Milano emanava nel XVII secolo e venivano chiamate così per l'uso da parte dei banditori di gridarle, appunto, sulla pubblica piazza (gran parte della popolazione era infatti analfabeta, anche se una copia di queste leggi veniva affissa nelle strade ed esibita all'occorrenza). Nel 1° capitolo de I Promessi Sposi, Manzoni sottolinea l'assoluta inutilità di questi provvedimenti, che "diluviavano" (erano cioè numerosissimi) e minacciavano pene e castighi assai severi, che naturalmente non venivano mai applicati a causa dell'inefficienza e della corruzione del sistema giudiziario.

 

Venezia_DC_2014_14_DELIBERAZIONE

 

E’ utile anche consultare il comunicato stampa della Regione Veneto al seguente indirizzo:

http://www.regione.veneto.it/web/guest/comunicati-stampa/dettaglio-comunicati?_spp_detailId=2683873

Quali presupposti deve avere la revoca di un atto amministrativo?

03 Apr 2014
3 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 05 marzo 2014 n. 285 chiarisce che la riprogrammazione delle risorse disposte dalla D.G.R.V. n. 2801/2012 non costituisce un atto di revoca e, di conseguenza, non determina la corresponsione di un indennizzo.

Chiarito che l’art. 21 quinquies, c. 1, della L. n. 241/1990 recita: “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo”, il Collegio asserisce che, per disporre la revoca di un atto amministrativo, non è sufficiente voler ripristinare la legalità violata atteso che: “3. Nemmeno sussiste la violazione dell’art. 21 quinquies della L. n. 241/90 e, ciò, considerando come non integri la fattispecie di un vizio di legittimità dell’atto, la mancata previsione dell’indennizzo in una delibera che, peraltro, dispone la riallocazione delle risorse di un intervento infrastrutturale.

3.1 Sul punto assume carattere dirimente constatare come la delibera n. 2801/2012 non ha le caratteristiche di un atto di revoca, in quanto non determina il ritiro dall’ordinamento di un precedente atto amministrativo.

3.2 Detta delibera n. 2801/2012 non contiene, proprio in ragione delle sue caratteristiche, nessuna valutazione circa l’esistenza di “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, o ipotesi di “mutamento della situazione di fatto” o, ancora, l’individuazione del venire in essere di una “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”, questi ultimi tutti requisiti che l’art. 21 quinquies riconduce all’esercizio di un potere di revoca di un precedente provvedimento.

3.3 Nemmeno è possibile individuare la volontà dell’Amministrazione di procedere al ripristino della legalità violata, requisito quest’ultimo, ulteriore (e peraltro di per sé non sufficiente) affinché l’Amministrazione faccia ricorso ai poteri di autotutela e, ciò, considerando come la sentenza n. 3149/2012 del Consiglio di Stato aveva sancito la legittimità dei provvedimenti di revoca sul punto emanati.

3.4 Detta interpretazione risulta confermata dall’esame del contenuto di tutte le delibere impugnate nell’ambito delle quali non è previsto, in nessuna di esse, una valutazione dell’Amministrazione circa l’esistenza dei presupposti perché l’Amministrazione procedesse ad una liquidazione dell’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies.

3.5 Ne consegue allora, che la delibera impugnata costituisce la conclusione di un diverso procedimento amministrativo, del tutto avulso dall’emanazione di un atto di ritiro o dalla liquidazione di un indennizzo e, in quanto tale, diretto, esclusivamente, a riprogrammare “le risorse della delibera CIPE 84/2000 inizialmente assegnate al progetto “Sistema informativo Territoriale della Venezia Orientale””.

 

Nella stessa sentenza, per quanto concerne il principio del ne bis in idem, ovvero dell’impossibilità per il Giudice di esprimersi due volte sulla medesima fattispecie se vi è già stata formazione del giudicato, si legge che: “L’inammissibilità è allora evidente, laddove si consideri l’applicabilità sul punto del principio del ne bis in idem (Cons. Stato Sez. IV, 28-10-2013, n. 5197) in base al quale si è previsto che "al giudice del medesimo grado di giurisdizione sia precluso il potere di pronunciarsi su questioni già definite con sentenza, con la conseguenza che è inammissibile che una questione già decisa possa essere oggetto di una nuova decisione (sia pure confermativa) dopo il passaggio in giudicato della precedente. Ne consegue che il principio non risulta applicabile alla diversa fattispecie dell'impugnazione, con separati mezzi, di medesimi atti, quando non risulti una pronuncia sull'oggetto della domanda giudiziale (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. V, n. 21830/2010)”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 285 del 2014

La servitù di pubblico passaggio impedisce l’occupazione dell’area

03 Apr 2014
3 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 20 aprile 2014 n. 375, chiarisce che il suolo privato gravato da una servitù di pubblico passaggio osta ex se all’occupazione pubblica dell’area: di conseguenza l’Amministrazione non può rilasciare alcuna autorizzazione a riguardo. Sul punto si legge infatti che: “Considerato che il motivo unico si rileva infondato, in quanto l’Amministrazione, dopo aver instaurato il contradditorio, ha revocato l’autorizzazione di occupazione pubblica di cui trattasi motivando correttamente con l’incompatibilità di tale uso con la caratteristica di suolo privato gravato da servitù di pubblico passaggio;

Rilevato, infatti, che appare indubbio come la servitù di pubblico passaggio consente all’Amministrazione di disporre e gestire il suolo pubblico solo ai fini, appunto, del pubblico passaggio e non ad altri fini, quali lo svolgimento di attività commerciali da parte di un soggetto privato terzo concessionario (cfr. Cass. S.U., 18.3.99, n. 158; C.d.S., VI, 6/5/2013 n. 2416; Cass. II, 12/7/2007 n. 15661; Cass. II, 14.12.05, n. 27567; TAR Lombardia, III, 11.2.11, n. 466);

Ritenuto che nel senso di cui sopra si deve, quindi, interpretarsi anche il riferimento ai poteri di gestione in tali aree indicati nel regolamento comunale;

Sottolineato come difetti anche l’autorizzazione alla utilizzazione commerciale di tale suolo da parte del soggetto privato proprietario, controinteressato in giudizio”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 375 del 2014

Il Comune non può imporre delle modifiche all’istanza di condono

02 Apr 2014
2 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 20 marzo 2014 n. 359, afferma che, dinnanzi ad un’istanza di condono edilizio, l’Amministrazione comunale non può imporre al privato la realizzazione di nuovi e/o diversi interventi edilizi subordinanti l’accoglimento dell’istanza, perché il compito dell’ente è soltanto quello di valutare la compatibilità urbanistico-edilizia e paesaggistico-ambientale della richiesta di condono avanzata: “si rileva altresì l’illegittimità del provvedimento impugnato con riferimento all’ulteriore profilo denunciato, con il quale è stata evidenziata la violazione delle normative in materia di procedimento amministrativo, sotto il profilo del divieto di aggravamento procedimentale, nonché, nello specifico, per quanto riguarda il procedimento di sanatoria (recte, condono), nella parte in cui viene richiesta, al fine dell’accoglimento della domanda, la presentazione di un progetto di ricomposizione volumetrica, da esaminare successivamente e contestualmente all’istanza di sanatoria.

Premesso che detta richiesta si pone in palese contrasto con il presupposto da cui parte, ossia la realizzazione di interventi di ricomposizione da realizzare su opere abusivamente realizzate e non sanate, è palese l’illegittimità del provvedimento laddove subordina la concedibilità della sanatoria, mediante condono, all’esecuzione di interventi di adeguamento delle opere abusive.

Invero, l’istanza di condono per opere realizzate in assenza di titolo su aree soggette a vincolo deve essere valutata di per sé, in rapporto alla compatibilità degli interventi realizzati con l’ambito tutelato, senza alcuna possibilità, per l’autorità competente, di imporre prescrizioni o condizioni ai fini del rilascio del parere in termini favorevoli.

Come invero osservato nella pronuncia, C.d.S., IV, n. 2438/2013, richiamata nella memoria finale dalla difesa istante, diversamente da quanto è consentito in occasione del procedimento per il rilascio di un ordinario permesso di costruire, in sede di esame dell’istanza di condono non è prevista la predisposizione di adattamenti progettuali alle opere già realizzate al fine di renderle ammissibili alla sanatoria, essendo compito delle autorità preposte alla tutela del vincolo valutare unicamente la compatibilità degli interventi abusivi, così come realizzati, con il vincolo stesso, senza possibilità di richiedere adattamenti di sorta, anche se finalizzati a rendere compatibile l’opera.

In buona sostanza, l’intervento abusivo, ai fini del condono, deve essere valutato nella sua oggettiva consistenza, senza alcuna possibilità di subordinare la sanatoria a progetti di adeguamento”.

Nella medesima sentenza il T.A.R. indica l’importanza di fornire una motivazione specifica, chiara ed approfondita nei provvedimenti amministrativi de quibus perché: “sussiste il vizio di difetto di motivazione, in quanto il mero riferimento al contrasto dell’opera “per tipologia e forma” con il contesto tutelato costituisce affermazione del tutto priva di contenuto, apodittica, inidonea a rendere edotto il richiedente delle ragioni della ritenuta incompatibilità (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 maggio 2008, n.2111, sez. V, 4 aprile 2006, n. 1750; sez. IV, 22 febbraio 2001 n. 938, sez. V, 25 settembre 2000 n. 5069, T.A.R. Veneto, sez. II, 22.6.2012, n. 866 e 3.4.2013, n. 483)”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 359 del 2014

Il bando di gara vincola anche la stazione appaltante

02 Apr 2014
2 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 13 marzo 2014 n. 328 dichiara che le indicazioni contenute negli atti di gara sono vincolanti anche per la stazione appaltante. Nel caso di specie il Comune di Padova aveva indetto una procedura negoziata da attribuire con il prezzo più basso ma, successivamente, dopo aver pubblicato il bando, aveva aggiudicato la gara utilizzando una procedura aperta: “Le gare pubbliche hanno, sia la finalità di individuare l'aggiudicatario secondo criteri trasparenti ed imparziali, che di determinare il contenuto del contratto in conformità alle esigenze dell'amministrazione e sulla base di previsioni che siano per essa le più convenienti (Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2001, n. 3245).

La stazione appaltante ha adottato, per l’aggiudicazione della fornitura di cui alla gara, una procedura negoziata, provvedendo, però, al contempo ad utilizzare il criterio della procedura aperta, con pubblicazione del bando e del disciplinare.

Ciò ha comportato una significativa limitazione delle prerogative previste per tale metodo di aggiudicazione, in particolare la possibilità di limitare i candidati da invitare, la individuazione discrezionalmente dell’operatore cui stipulare il conseguente contratto secondo una successiva fase negoziata.

Nel caso di specie, pertanto, la stazione appaltante ha ritenuto di utilizzare una procedura non dissimile a quella prevista per l’evidenza pubblica e, segnatamente, dell’appalto di pubbliche forniture.

E’ evidente, quindi, che la disciplina normativa, che nel caso di specie deve trovare applicazione, è quella inerente alla natura sostanziale del contratto previsto dalla stazione appaltante e non il mero nomen iuris ad esso formalmente assegnato.

Pertanto nella presente vicenda, proprio alla luce delle indicazioni fornite dal bando di gara e dal disciplinare, si deve escludere qualsivoglia apporto dialettico, nella definizione dell’offerta, da parte dei concorrenti ammessi alla gara, avendo la stazione appaltante indicato in modo rigido ed esaustivo le caratteristiche del prodotto richiesto.

E’ la volontà espressa nella lex specialis che deve necessariamente prevalere secondo i canoni ermeneutici propri dell’interpretazione dei contratti.

Ciò comporta la immodificabilità della prestazione richiesta nei termini indicati dal bando e dal disciplinare proprio per tutelare la par condicio tra i vari concorrenti e non alterare le condizioni di partecipazioni alla selezione ( TAR Veneto, sez. 1°, 3 novembre 2003, n. 5439)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 328 del 2014

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