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Come si la calcola la distanza di 10 metri tra pareti finestrate?

02 Dic 2013
2 Dicembre 2013

Segnaliamo un commento pubblicato sulla “Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana”, news del 25 novembre 2013

"Si attenziona la presente sentenza in quanto il Consiglio di Stato, nella risoluzione della controversia in esame, ripercorre e richiama compiutamente la copiosa giurisprudenza sia di legittimità civile che amministrativa elaborata in subiecta materia. In particolare viene in primo luogo condivisa dal Collegio la consolidata giurisprudenza secondo la quale, perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse. Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez. II, 20-06-2011, n. 13547): “la norma dell´art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati - che, siccome emanata in attuazione dell´art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali - va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell´edificio preesistente, essendo sufficiente, per l´applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28-09-2007, n. 20574). Questo Consiglio di Stato ha condiviso – o forse è meglio dire anticipato - tale approdo (Cons. Stato Sez. IV, 05-12-2005, n. 6909), affermando che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell´edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all´altra. Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall´art. 9, D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l´intero fronte dell´edificio la parte utilizzabile per l´uso abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909). Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell´art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l´esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d´Appello, Catania, 22 novembre 2003; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. III, 4 dicembre 2001, n. 1734; T.A.R. Piemonte, Torino, 10 ottobre 2008 n. 2565; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 7 giugno 2011, n. 1419). Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: T.A.R. Abruzzo L´Aquila Sez. I, 20-11-2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell`art. 9 d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l´illegittimo avvicinamento.”, ma anche T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 28-09-2012, n. 1624 )....Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui all’art. 9 del d.M. 2 aprile 1968 n. 1444 così prevede: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; 3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all´altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12. Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di: ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7; ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15; ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15. Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all´altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all´altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.”. V’ è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell´art. 9, numero 2, del d.m. 2 aprile 1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l´adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l´obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”. Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ. Sez. Unite, 07-07-2011, n. 14953) “in tema di distanze tra costruzioni, l´art. 9, secondo comma, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell´art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall´art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”. La gravata decisione ha applicato il principio – di recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa – secondo il quale (T.A.R. Toscana Firenze Sez. III, 09-06-2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico l´art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell´art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 2008 n. 3381; TAR Lazio, 31 marzo 2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10 luglio 2009 n. 1736).”. La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 7 luglio 2008 n. 3381, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17 luglio 2007, n. 15913; 7 settembre 1996, n. 8159), con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”

A tal fine si pubblica la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 22 novembre 2013 n. 5557 a cui si riferisce parte dell’articolo.

sentenza 22.11.2013 pubblicato in "Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana"
lunedì 25 novembre 2013 13:55 -
www.gazzettaamministrativa.it

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 5557 del 2013

Non tutte le vegetazioni arboree costituiscono un bosco

02 Dic 2013
2 Dicembre 2013

Segnaliamo un commento pubblicato sulla “Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana”, news del 25 novembre 2013

Nel giudizio in esame con un primo motivo di appello il ricorrente deduce in sostanza che, sulla base della dizione normativa di cui all’art. 2 della legge 227 del 2001, che definisce come bosco i terreni con estensione non inferiore a metri quadrati 2000, larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, si desume che non ogni formazione vegetazionale arborea e/o arbustiva può ritenersi per forza area boscata, ma soltanto quelle formazioni normativamente specificate e elencate nella disposizione e solo quelle, tra esse, dalle caratteristiche dimensionali definite dalla norma, mentre il primo giudice ha considerato a tal fine solo le caratteristiche dimensionali; sostiene di avere dedotto come, per caratteristiche intrinseche delle vegetazioni, non poteva qualificarsi bosco l’area in questione, a prescindere dalle caratteristiche di dimensioni; può infatti essere considerato bosco solo la formazione vegetazionale (diversa da giardini e frutteti) costituente un ecosistema completo; la perizia giurata depositata in atti era idonea a comprovare che l’area in questione non conteneva alcuna delle vegetazioni previste dalla disciplina normativa (vegetazione forestale arborea o arbustiva, castagneto, sughereto, macchia mediterranea) né potevano considerarsi sufficienti i resti di un frutteto (escluso comunque dalla nozione di bosco) o i giardini privati. In definitiva, sarebbe erronea la sentenza di prime cure laddove ha sostenuto la mancanza di prova circa la insussistenza del bosco e al fine si chiede disporsi, ove necessario, consulenza tecnica di ufficio o verificazione sulla inconsistenza arborea. Il D.Lgs.227 del 18 maggio 2001 (Gazz. Uff., 15 giugno, n. 137) all’art. 2 definisce il bosco e l’arboricoltura da legno nel modo seguente: 1. Agli effetti del presente decreto legislativo e di ogni altra normativa in vigore nel territorio della Repubblica i termini bosco, foresta e selva sono equiparati. 2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo le regioni stabiliscono per il territorio di loro competenza la definizione di bosco e: a) i valori minimi di larghezza, estensione e copertura necessari affinché un´area sia considerata bosco; b) le dimensioni delle radure e dei vuoti che interrompono la continuità del bosco; c) le fattispecie che per la loro particolare natura non sono da considerarsi bosco. 3. Sono assimilati a bosco: a) i fondi gravati dall´obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell´aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell´ambiente in generale; b) le aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva a causa di utilizzazioni forestali, avversità biotiche o abiotiche, eventi accidentali, incendi; c) le radure e tutte le altre superfici d´estensione inferiore a 2000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco non identificabili come pascoli, prati e pascoli arborati (1). La definizione di cui ai commi 2 e 6 si applica ai fini dell´individuazione dei territori coperti da boschi di cui all´articolo 146, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490. Per arboricoltura da legno si intende la coltivazione di alberi, in terreni non boscati, finalizzata esclusivamente alla produzione di legno e biomassa. La coltivazione è reversibile al termine del ciclo colturale. Il comma 6 prevede che “nelle more dell´emanazione delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d´arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell´adesione a misure agro ambientali promosse nell´ambito delle politiche di sviluppo rurale dell´Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti. È fatta salva la definizione bosco a sughera di cui alla legge 18 luglio 1956, n. 759. Sono altresì assimilati a bosco i fondi gravati dall´obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell´aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell´ambiente in generale, nonché le radure e tutte le altre superfici d´estensione inferiore a 2000 metri quadri che interrompono la continuità del bosco non identificabili come pascoli, prati o pascoli arborati o come tartufaie coltivate”. Pertanto, secondo la tesi appellante, sono necessari sia un requisito di tipo qualitativo che un requisito a carattere dimensionale. Il primo giudice avrebbe dichiarato erroneamente inammissibile il motivo sulla base della asserita mancanza di principio di prova; secondo la tesi appellante, al contrario, la perizia di parte, nel descrivere lo spazio antistante retrostante il fabbricato esistente come totalmente libero da piantumazioni di alcun tipo nonché la descrizione degli alberi presenti ai margini della stessa area di pertinenza come sparsi in piccoli gruppi (il tutto all’interno di una particella catastale della estensione di 75,5 are) e comprovando a mezzo del rilievo celerimetrico in perizia e la documentazione fotografica le “inconsistenze arboree”, ritiene di avere soddisfatto l’onere del principio di prova relativamente alla inconsistenza dimensionale e qualitativa rispetto alla categoria normativa di bosco. In effetti, la definizione normativa alla quale deve rifarsi l’interprete prevede quale requisito necessario, ma non sufficiente, il dato dimensionale, la cui assenza, secondo il primo giudice, non è stata dimostrata. In realtà, come deduce parte appellante, il dato normativo, valevole in mancanza di normativa regionale (in tal senso questa sezione, 6 agosto 2012, n.4502), prevede anche una componente naturalistica qualitativa costituita da: vegetazione forestale, castagneti, sugherete, macchia mediterranea. Nella specie, dalla perizia depositata in atti, si evince che l’area in questione non comprende alcuna delle formazioni di vegetazione sopra elencate. Pertanto, non ogni formazione di vegetazione arborea e/o arbustiva può condurre al riconoscimento di un’area boscata, ma solo quelle normativamente specificate ed enumerate come tali e solo tra esse quelle che hanno i requisiti di dimensioni previste dalla legge e tenute in considerazione dal primo giudice. I rilievi fotografici e la perizia hanno dimostrato: la totale assenza di formazioni vegetazionali riconducibili alla nozione di bosco; lo spazio antistante e retrostante il fabbricato esistente è totalmente libero da piantumazioni di alcun tipo e gli alberi presenti ai margini della stessa area di pertinenza, sparsi in piccoli gruppi, rappresentano i resti di un frutteto, allo stato incolto, privo ontologicamente di caratteristiche forestali. Pertanto, è fondato il primo motivo di appello e deve ritenersi la assenza, in relazione all’area di proprietà di parte appellante, dei requisiti qualitativi per sostenere la presenza di un bosco ai fini di legge, con conseguente illegittimità della destinazione impressa di “Area boscata” e le consequenziali previsioni di minore edificabilità. L’accoglimento del primo motivo di appello determina quindi la caducazione dell’inserimento dell’area di proprietà all’interno delle aree boscate.

A tal fine si pubblica la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 18 novembre 2013 n. 5452 a cui si riferisce parte dell’articolo.

Sez IV pubblicato in "Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana" domenica 24 novembre 2013 07:28 - www.gazzettaamministrativa.it

dott. Matteo Acquasaliente

CDS n. 5452 del 2013

La differenza tra retrocessione totale e parziale di beni espropriati in un caso di cessione volontaria

02 Dic 2013
2 Dicembre 2013

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5346 del 2013 chiarisce la differenza tra retrocessione totale e parziale e ribadisce che l'istituto si applica anche nel caso di cessione volontaria.

Si legge nella sentenza: "Negli atti di parte, la questione è discussa con riferimento alla configurazione che la sentenza impugnata ha dato della vicenda controversa, cioè quella di una retrocessione c.d. totale. Si tratta di una configurazione che il Collegio non condivide. Non è contestato che il P.E.E.P. di cui si tratta abbia avuto effettiva attuazione (l’appello del Comune richiama ripetutamente, a questo proposito, le affermazioni contenute alla pag. 2 del ricorso introduttivo delle controparti); sarebbero rimaste però inutilizzate le aree delle appellate, che pertanto ne chiedono la retrocessione. Senonché, quando l'espropriazione di uno o più beni rientri nell'ambito di una più vasta dichiarazione di pubblica utilità, come quella relativa a un piano di edilizia economica e popolare, l'effettiva esecuzione dell'opera pubblica o di interesse pubblico deve essere riferita all'intero complesso dei beni da quest'ultima interessati e non a singoli beni eventualmente rimasti inutilizzati allo scadere dell'efficacia di tale dichiarazione. Ne consegue che la mancata realizzazione di una o più delle opere previste dal piano, per le quali sia stato emesso il decreto di esproprio non fa sorgere il diritto alla retrocessione degli immobili a tal fine ablati, ma solo l'interesse legittimo all'accertamento della inservibilità dei beni, cui consegue il diritto alla restituzione (cfr. Cass. civ., sez. I, 29 novembre 2001, n. 15188). Queste notazioni non mutano quando - come nel caso in oggetto - i beni siano stati acquisiti dall’Amministrazione in forza non di un provvedimento espropriativo, ma di una cessione volontaria, venendo in tal caso in questione uno strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del provvedimento finale (appare inequivoco l’art. 45, comma 4, t.u., e la giurisprudenza è costante; da ultimo, v. Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4179, e ivi riferimenti ulteriori). E neppure mutano quando il carattere parziale della realizzazione dell’opera pubblica abbia concretamente escluso in toto le aree di cui i privati chiedano la restituzione. E’ ben vero che l’art. 47 t.u. parla di ”restituzione della parte del bene … che non sia stata utilizzata” (comma 1; e v. anche comma 3). E su questa dizione fa leva la difesa delle appellate, sottolineando l’area di proprietà di queste ultime sarebbe rimasta per intero inutilizzata. “Cosa sia avvenuto per le abitazioni da realizzare in zona P.E.E.P.” aggiunge “è, ai nostri fini, assolutamente irrilevante” (memoria di costituzione del 19 luglio 2006, pag. 10). Tuttavia, un’interpretazione razionale indice a porre il discrimine tra retrocessione totale e retrocessione parziale in termini, per così dire, oggettivi e non soggettivi. La differenza, cioè, non risiede nel presupposto – a ben vedere, casuale – che il bene del singolo privato non sia stato utilizzato in tutto o in parte, bensì piuttosto nella circostanza che l’opera pubblica o di pubblica utilità non sia stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni (cfr. art. 46, comma 1, t.u.) ovvero realizzata entro tale termine, ma senza completa utilizzazione dei fondi espropriati. D’altronde, lo stesso art. 60 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 ricollegava la retrocessione a ciò, che, dopo l’esecuzione di un’opera di pubblica utilità, qualche fondo a tal fine acquistato non avesse ricevuto “in tutto o in parte” la preveduta destinazione. E nulla indica che l’art. 47 t.u., che degli artt. 60 e 61 della legge del 1865 ha preso il posto, in un nesso di sostanziale continuità, abbia inteso in qualche modo innovare sotto il profilo specifico. Da quanto sopra esposto deriva che: nella fattispecie, si verte in materia di retrocessione c.d. parziale; la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo; i privati sono titolari di un interesse legittimo; tale interesse deve essere fatto valere nel rispetto delle procedure previste dalla legge (artt. 60 e 61 della legge n. 2359 del 1865; in seguito, art. 47 t.u.), che hanno il loro fulcro nella dichiarazione - da parte del Prefetto prima e della Regione oggi - della inservibilità dei beni rispetto all’opera pubblica da compiere. Nulla di ciò è avvenuto nella presente controversia. Al contrario, il Comune ha depositato documenti (il nuovo P.R.G.) che - con riguardo a due delle tre particelle interessate (744 e 745; nulla si dice della 743) - attestano il permanere dell’interesse pubblico alla destinazione delle aree a parcheggio e viabilità. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello del Comune è fondato e va pertanto accolto, con annullamento della sentenza impugnata e conferma del provvedimento oggetto del ricorso di primo grado".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS 5346 del 2013

Ecco il Terzo Piano Casa

29 Nov 2013
29 Novembre 2013

Approvato il Terzo Piano Casa della Regione Veneto.

Pubblichiamo il testo approvato nelle sedute del Consiglio Regionale di giovedì 28 e venerdì 29 novembre 2013.

TERZO PIANO CASA

La Corte dei Conti del Veneto interpreta in senso ampio gli incentivi alla pianificazione

29 Nov 2013
29 Novembre 2013

In materia di incentivi alla pianificazione urbanistica, con un parere depositato in data 22 novembre 2013, la Corte dei Contio del Veneto conferma la propria linea interpretativa (in dissenso dalle altre sezioni regionali della Corte dei Conti) di ammissibilità generale, anche al di fuori della stretta correlazione con opere pubbliche.

parere Corte Conti Veneto

Seminario sul terzo piano casa del Veneto: Spinea 13 dicembre 2013

28 Nov 2013
28 Novembre 2013

Il Comune di Spinea organizza un seminario sul terzo piano casa del Veneto in corso di approvazione da parte del Consiglio regionale del Veneto.

Il seminario si svolgerà a Spinea il 13 dicembre 2013 dalle ore 9 alle ore 14 e prevede il seguente programma:

- Relazione dell'arch.  Bruno Berto Dirigente della Regione Veneto;

- Relazione dell'avv. Stefano Bigolaro;

- Conclusioni dell'arch. Fiorenza Dal Zotto

Programma e Scheda iscrizione

Il silenzio-accoglimento del condono edilizio si perfeziona anche se mancano i presupposti per l’accoglimento della domanda

28 Nov 2013
28 Novembre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1264 del 2013.

Si legge nella sentenza: "4. Ne è possibile condividere quelle argomentazioni dell’Amministrazione comunale nella parte in cui sostiene che il silenzio assenso non si sarebbe formato in conseguenza della carenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria.
4.1 Dall’esame del comma 37 dell’art. 32 della L. 326/2003 non è possibile evincere il principio sopra citato e, ciò, considerando come, al contrario, la stessa norma subordini il silenzio assenso al verificarsi di alcune circostanze (quali il pagamento degli oneri concessori e la presentazione di un’idonea documentazione), il cui mancato venire in essere non è stato contestato dall’Amministrazione comunale.
4.2 Sul punto va richiamato quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda Cons. Stato Sez. V, Sent., 12-03-2012, n. 1364) che ha sancito che il silenzio-accoglimento si perfeziona anche se mancano i presupposti per l'accoglimento della domanda.
4.3 La stessa pronuncia sopra citata ha rilevato che in conseguenza dell’avvenuto formarsi del silenzio assenso l’Amministrazione avrebbe dovuto procedere all’esercizio dei poteri di autotutela (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 marzo 1997, n. 286), misura quest’ultima “che consente di contemperare il ripristino della legalità con l'esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l'istituto del silenzio accoglimento (così Cons. St. , V, n. 4114/06)”.
4.4 Si consideri, ancora, come ulteriori decisioni (per tutti si veda Cons. Stato Sez. V, 02-05-2013, n. 2395) hanno ribadito che “Nell'ipotesi di opere edilizie abusive realizzate su aree sottoposte a vincolo, il silenzio - assenso dell'amministrazione comunale può formarsi con il decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emanazione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso e soltanto se tale parere è favorevole all'istante (Conferma della sentenza del T.a.r. Friuli-Venezia Giulia, 27 novembre 2000, n. 1245)”.
5. Constatando l’avvenuto decorso del termine dei ventiquattro mesi, ne consegue che non può essere nemmeno considerata preclusiva la circostanza in base alla quale le attività di cui all’istanza di sanatoria avrebbero inciso su un’area sottoposta a vincolo e, ciò, in applicazione dell’art. 32 comma 27 lett. d) del D.L. 269/2003.
5.1 Sul punto risulta dirimente constatare che l’intervento di cui si tratta, non solo sia stato ritenuto espressamente conforme alla disciplina paesaggistica, ma nel contempo, va considerato che l’istanza di sanatoria proposta era diretta a sanare un mutamento di destinazione d’uso in residenziale, del tutto ammissibile ai sensi dell’art. 3 comma 4 della L. reg. Veneto 21/2004. Detta norma ha, infatti, sancito che sono suscettibili di sanatoria edilizia quei mutamenti di destinazione d’uso, con o senza opere, qualora la nuova destinazione d’uso non comporti un ampliamento dell’immobile".

sentenza Tar Veneto 1264 del 2013

Elenco dei corsi d’acqua da escludere, in tutto o in parte, dal vincolo paesaggistico

27 Nov 2013
27 Novembre 2013

Sul Bur n. 101 del 26 novembre 2013 è stata pubblicata la Deliberazione della Giunta Regionale n. 1638 del 17 settembre 2013, recante "Elenco dei corsi d'acqua da escludere, in tutto o in parte, dal vincolo paesaggistico ai sensi dell'art. 142, comma 3, D.Lgs. 42/2004; deliberazioni/Cr 13/2013 e Cr 43/2013".

DGRV 1638 del 2013

Sono suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica (vincolo paesaggistico) anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici

27 Nov 2013
27 Novembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1270 del 2013  si occupa anche della sanabilità dal punto di vista paeaggistico di alcune opere consistenti nella realizzazione di una piattaforma elevatrice (ascensore) e di un cappotto termico in zona soggetta al vinclo paesaggistico: il problema consiste nello stabilire se si tratti di opere valutabili in termini di superficie o volume (se lo fossero, sarebbero escluse dall'accertamento della compatibilità paesaggistica)  

Si legge nella sentenza: "la Commissione Edilizia, nel proprio parere, ha chiesto all’odierno ricorrente di “dimostrare che le opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica non hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, al fine di poter accedere alla possibilità di regolarizzazione delle stesse sotto il profilo paesaggistico. Si rileva infatti che l’elevatore realizzato configurerebbe un incremento di volume ai fini urbanistici che, sebbene assentibile sotto il profilo edilizio-urbanistico ai sensi della L.R. 16/2007, non rientrerebbe nella fattispecie delle opere sanabili ai sensi del D.Lgs. 42/2004 ”. Anche tale richiesta è ingiustificata, essendo fondata su di una interpretazione delle norme in argomento non condivisibile. Infatti, premesso che nella fattispecie oggetto di gravame è pacifico che l’intervento abusivo consiste in un “vano  tecnico”, ciò che la Commissione Edilizia sembra negare è che la realizzazione di un vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi minori” per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Invero, la giurisprudenza prevalente, al quale questo Collegio ritiene di aderire, è di contrario avviso, essendo stato chiarito, che “la stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica” (v. TAR Campania, Napoli, sez. VII 14 gennaio 2011, n. 176; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 15 settembre 2010, n. 435; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 3 novembre 2009, n. 6827). Ed inoltre, si è ritenuto come “..esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale” (cfr. T.A.R. Puglia Bari, Sez. III, 11 gennaio 2013, n. 35; T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 15 dicembre 2010, n. 27380). Pertanto, nel caso in esame, non sembra si possa dubitare dell’ astratta sanabilità paesaggistica delle opere oggetto di causa ai sensi del D.lgs 42/2004".

Anche un diniego di sanatoria può essere illegittimo per difetto di motivazione

27 Nov 2013
27 Novembre 2013

Anche un esempio di questo è contenuto nella sentenza del TAR Veneto n. 1270 del 2013.

Si legge nella sentenza: "Il ricorso è fondato.
1. In particolare merita accoglimento la censura relativa al difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati. In proposito, deve osservarsi,  innanzitutto, che la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato. In particolare, in caso di domanda di titolo abilitativo edilizio, poiché il presupposto per il rilascio dello stesso è la conformità del progetto agli strumenti urbanistici e alla normativa urbanistico edilizia vigenti, il provvedimento di diniego, per essere legittimo, deve contenere una specifica esposizione delle ragioni di contrasto del progetto con le norme che regolano gli insediamenti sul territorio. Ciò premesso, nel caso di specie, il Comune di Lazise avrebbe dovuto dar conto in motivazione delle specifiche e reali ragioni ostative al rilascio del titolo abilitativo in sanatoria; ragioni che non potevano che essere il frutto di un’attività vincolata, consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio in questione con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Invece, nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune di Lazise (Ufficio edilizia privata) ha comunicato al ricorrente che la sua domanda di sanatoria edilizia, presentata ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. 380/2001, non poteva essere accolta, e ciò richiamando unicamente il parere della Commissione Edilizia Integrata, la quale ultima si era espressa nei seguenti termini: “Esaminati gli elaborati allegati alla richiesta di sanatoria ai sensi del DPR 380/2001, si rigetta l’istanza di sanatoria e si esprime parere favorevole al prosieguo dell’iter di legge in materia di abusi edilizi. Si evidenziano inoltre le seguenti carenze documentali, che dovranno essere ottemperate in caso di presentazione  di regolare istanza di sanatoria:…”. E’ evidente che il provvedimento di diniego di sanatoria in esame è viziato per carenza assoluta di motivazione, come denunciato dal ricorrente con il primo motivo di ricorso, non essendo state affatto indicate le effettive ragioni ostative al rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, e ciò in violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
2. In ogni caso, il diniego di sanatoria risulta illegittimo anche nel caso in cui si volesse porre a fondamento motivazionale dello stesso la mancata integrazione della documentazione richiesta dal Comune. Ed infatti, come rilevato dal ricorrente, l’amministrazione comunale era in possesso di tutti gli elementi necessari e sufficienti per poter provvedere sull’istanza.
2.1. In particolare, non risulta, che gli interventi realizzati dal ricorrente (elevatore e cappotto termico) siano in contrasto le norme legislative o con quelle dettate dagli strumenti urbanistici vigenti e, comunque, pena la violazione del divieto di aggravare il procedimento di cui all’art. 1 della L. 241/1990, non può l’amministrazione onerare, genericamente, l’istante di “dimostrare il requisito della doppia conformità delle opere oggetto di regolarizzazione”, senza che la stessa, in seguito all’idonea istruttoria che le compete, abbia previamente segnalato quali possano essere le criticità dell’intervento sotto tale profilo, anche rispetto a quanto asseverato nella relazione illustrativa allegata all’istanza. Peraltro, quanto alla dimostrazione del rispetto delle distanze, pure genericamente pretesa dall’amministrazione, almeno dalle fotografie depositate in atti, non risulta la presenza di edifici vicini che possano essere interessati da una violazione delle norme in tema di distacchi".

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