Author Archive for: SanVittore

Sì agli oneri di urbanizzazione se c’è aumento del carico urbanistico

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Il T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, nella sentenza del 05 maggio 2014 n. 468 si occupa del discrime tra la ristrutturazione edilizia (leggera o pesante che sia) e la manutenzione straordinaria affermando che: “(a) in base alle definizioni contenute nell’art. 3 comma 1-b-d del DPR 6 giugno 2001 n. 380 (v. art. 27 comma 1-b-d della LR 12/2005), l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio. Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l’introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, ma se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell’insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione;

(b) perché vi sia ristrutturazione non è necessario che cambi la destinazione dei locali o che vi siano incrementi nel volume o nella superficie (questi sono semmai indici della ristrutturazione pesante ex art. 10 comma 1-c del DPR 380/2001). La ristrutturazione presuppone soltanto che si possa apprezzare una differenza qualitativa tra il vecchio e il nuovo edificio;

(c) nello specifico, l’insieme delle opere previste dal progetto rivela chiaramente la finalità di trasformare l’edificio in questione da struttura produttiva unitaria in agglomerato di microimprese. Poiché cambiano profondamente sia gli spazi interni sia le modalità di utilizzazione dell’immobile, è evidente che il nuovo assetto dell’edificio è il prodotto di una ristrutturazione e non di una semplice innovazione, seppure riferita a elementi strutturali”.

Chiarito ciò, per quanto concerne gli oneri di urbanizzazione, il Collegio afferma che la loro debenza - in caso di intervento edilizio - sia dovuta soltanto se vi è un incremento del carico urbanistico. Per il loro calcolo concreto, inoltre, bisogna sottrarre quelli già versati al momento della costruzione dell’edificio: “(e) la normativa regionale (v. art. 44 comma 12 della LR 12/2005) disciplina la fattispecie della ristrutturazione con cambio di destinazione, prevedendo che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria siano commisurati all’eventuale maggiore somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente. Questa norma mette in evidenza il carattere corrispettivo degli oneri di urbanizzazione, che compensano le spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un edificio nuovo o rinnovato. Quando si verifica un cambio di destinazione, la pretesa dell’amministrazione è limitata al costo aggiuntivo delle urbanizzazioni per la nuova destinazione, perché non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;

(f) valutazioni analoghe devono essere svolte nel caso in esame, dove non cambia la destinazione ma è comunque evidente che il nuovo assetto dell’edificio ne consentirà un uso più intenso e quindi con maggiori costi riflessi per la collettività. La principale novità introdotta dalla ristrutturazione è rappresentata infatti dall’incremento del carico urbanistico, che può essere assimilato (a scopo esemplificativo) a quello che si verifica quando da una sola grande unità immobiliare si passa a una pluralità di unità immobiliari autonome. In particolare, con la presenza di numerose microimprese e di spazi di deposito si possono ragionevolmente presumere aggravi nella viabilità e nella movimentazione delle merci, e una maggiore produzione e diversificazione dei rifiuti;

(g) pertanto, fermo restando l’obbligo di corrispondere per intero il contributo collegato allo smaltimento dei rifiuti, e prendendo atto della rinuncia dell’amministrazione ad applicare il contributo sul costo di costruzione in conseguenza della natura produttiva dell’edificio (v. memoria del Comune depositata il 3 gennaio 2014), gli oneri di urbanizzazione devono essere ricalcolati in modo da tenere conto soltanto dell’incremento del carico urbanistico. Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall’importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell’edificio e dei successivi ampliamenti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Brescia n. 468 del 2014

Entro il 1° giugno c’è l’obbligo per i comuni di disciplinare l’installazione delle centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Ringraziando l’arch. Emanuela Volta per la segnalazione, ricordiamo il testo dell’art. 4, c. 1-ter, 1-quater, 1-quinquies  del D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17-quinquies, c. 1, della L n. 134/2012, che introduce importanti novità edilizio-urbanistiche nella costruzione di nuovi edifici diversi da quello residenziali. In particolare l’articolo prevede l’obbligo per i Comuni, entro il 1° giugno 2014, di disciplinare l’obbligo di installare le centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali: “1-ter. Entro il 1º giugno 2014, i comuni adeguano il regolamento di cui al comma 1 prevedendo, con decorrenza dalla medesima data, che ai fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio sia obbligatoriamente prevista, per gli edifici di nuova costruzione ad uso diverso da quello residenziale con superficie utile superiore a 500 metri quadrati e per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia, l’installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate nel regolamento stesso.

1-quater. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 1-ter del presente articolo, le regioni applicano, in relazione ai titoli abilitativi edilizi difformi da quanto ivi previsto, i poteri inibitori e di annullamento stabiliti nelle rispettive leggi regionali o, in difetto di queste ultime, provvedono ai sensi dell’articolo 39.

1-quinquies. Le disposizioni di cui ai commi 1-ter e 1-quater non si applicano agli immobili di proprietà delle amministrazioni pubbliche”.

Riusciranno i Comuni ad adeguarsi tempestivamente a tale novità?

le serre una volta esaurita la finalità per la quale sono state realizzate, devono essere rimosse e non è ammesso un diverso utilizzo

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "4. Altrettanto censurabile è l’argomentazione, contenuta nel terzo motivo, diretta a sostenere l’inesistenza del contestato mutamento di destinazione d’uso e, ciò, contestualmente alla dedotta carenza di un’idonea motivazione circa l’interesse pubblico esistente a superare un presunto affidamento ingenerato nei ricorrenti.

4.1 L’esame del provvedimento impugnato consente di smentire le argomentazioni di parte ricorrente. In primo luogo va rilevato come la Regione Veneto abbia accertato (come è evincibile dal provvedimento impugnato) la non conformità delle opere interne esistenti con le concessioni edilizie n. 97/122 e 99/144, difformità queste ultime verificate anche per quanto attiene il permesso di costruire n.10/002.

4.2 Per quanto attiene detto ultimo titolo abilitativo va rilevato, sin d’ora, come la demolizione sia una conseguenza diretta di quanto previsto dal comma 6 dell’art. 44 della L. reg.11/2004 e dalla successiva Delibera di Giunta regionale n. 172/2010. In particolare l’art. 44 comma 6 sopra citato, disciplina quest’ultima che costituisce il fondamento per il rilascio del permesso di costruire n. 10/002, prevede il potere della Giunta regionale di individuare “le caratteristiche costruttive e le condizioni da rispettare per l'installazione delle serre tunnel di cui al presente comma”.

4.3 In ossequio a detta disposizione la Delibera di Giunta n. 172/2012 ha previsto che “le serre una volta esaurita la finalità per la quale sono state realizzate, devono essere rimosse e non è ammesso un diverso utilizzo né il cambio di destinazione d’uso del relativo volume/superficie”. Ne consegue che la legislazione regionale ha attribuito ad una successiva delibera il potere di disciplinare le “condizioni da rispettare per l’installazione”, delibera che a sua volta ha esplicitamente sancito l’obbligo della rimozione delle serre tutte le volte che ne sia cessato l’uso in relazione al quale le stesse erano state realizzate. In considerazione della vigenza della normativa sopra richiamata è del tutto evidente che l’Amministrazione comunale non poteva che disporre la demolizione della serra di cui ora si tratta e, ciò, nel momento in cui si era accertato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso e lo svolgimento di un’attività di vendita di piante all’ingrosso. 

4.4 Si consideri, ancora, che l’ordinanza impugnata ha evidenziato la violazione dell’art. 26 punto 3 delle vigenti NTO del Piano di
intervento, rilevando sia la violazione dei parametri di superficie che potrebbero essere dedicati alla vendita al minuto su dette aree sia,  ancora, la violazione del limite delle distanze dai confini di proprietà e, ciò, contestualmente alla realizzazione di opere interne. Ne consegue come deve ritenersi configurata la fattispecie del mutamento di destinazione d’uso con opere che, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale richiede l’emanazione di un correlato permesso di costruire.

4.5 Ciò premesso va comunque evidenziato che il mutamento di destinazione d’uso di cui si tratta doveva considerarsi soggetto a
permesso di costruire anche considerando come in conseguenza di detta variazione si era determinato un incremento del carico urbanistico, da ricondurre all’ampiezza e alla prevalenza (circa il 70% di quella complessiva) della superficie destinata alla vendita all’ingrosso".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

La sanzione demolitoria per gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Segnaliamo un passaggio della sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014: "4.6 Per quanto attiene la dedotta carenza motivazionale, e con riferimento all’interesse pubblico alla demolizione (quarta censura del ricorso), va ritenuto applicabile quel costante orientamento giurisprudenziale in base al quale il provvedimento demolitorio non necessiti di un particolare onere motivazionale, integrando la fattispecie di un atto dovuto al quale l’Amministrazione è obbligata ad ottemperare in presenza dell’obbligo di vigilanza sul territorio di cui all’art. 27 del Dpr 380/2001.

4.7 Va, inoltre, evidenziato come nel caso di specie non sussistevano nemmeno i presupposti per configurare l’esistenza di un contestuale affidamento del privato. Come si rileva nel testo del ricorso erano stati gli stessi ricorrenti a presentare, in data 16/03/2011, una scheda progettuale diretta a realizzare alcune opere in attuazione del Piano degli interventi che, a sua volta, prevede l’ammissibilità di un intervento di perequazione urbanistica mediante la cessione di alcune aree e previa l’adozione di una delibera del Consiglio Comunale.

4.8 Ne consegue che le opere di cui si tratta avrebbero dovuto trovare il loro fondamento nell’applicazione di detto Piano di intervento, la cui mancata esecuzione non è suscettibile di fondare, nemmeno indirettamente, un affidamento del privato al mantenimento delle difformità contestate.

4.9 Deve inoltre condividersi l’argomentazione di parte resistente nella parte in cui evidenzia il breve lasso temporale trascorso dal rilascio dei permessi (giugno 2010) e il venire in essere degli abusi, la cui conoscenza è stata acquisita dal Comune di Camposampiero solo a seguito dell’acquisizione del verbale dell’Unità Periferica regionale per i servizi Fitosanitari e, quindi, solo in data 31 Luglio 2012.

5. E’, altresì, legittima anche la sanzione erogata e, ciò, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente nel quinto motivo.
L’Amministrazione ha accertato, infatti, il contrasto delle opere realizzate con l’art. 26 comma 3 delle NTO del Piano degli Interventi,
constatando la realizzazione di una superficie lorda di pavimento adibita ad attività commerciale superiore al limite di 400 mq e, ancora, l’esistenza di una distanza dal confine di proprietà inferiore ai 5 metri.

5.1 Si è così verificata l’esistenza di un incremento di superfici e di volumi, contestualmente al sopra ricordato mutamento di destinazione d’uso, circostanze queste ultime che consentono di ritenere applicabile la fattispecie di cui all’art. 32 Dpr n. 380/2001 e, ciò, considerando come si sia in presenza di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.  A conforto di detta conclusione va ricordato che un costante orientamento giurisprudenziale ha affermato che … "a norma degli artt. 31 e 32 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, T.U. delle disposizioni in materia edilizia, gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 1726 del 21-03-2011)”.

5.2 Ne consegue la legittimità della sanzione demolitoria.

6. Deve ritenersi legittima anche la sanzione del ripristino della destinazione d’uso per quanto concerne la serra di cui alla concessione
edilizia n. 97/122, risultando applicabile il disposto dell’art. 26 delle NTO sopra richiamato nella parte in cui legittima solo l’attività di
commercio al minuto e, ciò, peraltro nel rispetto di parametri prestabiliti".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Gare pubbliche e malafede

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 08 maggio 2014 n. 579, dichiara legittima l’esclusione di una ditta che aveva omesso di comunicare la condanna dell’amministratore con riferimento ad una diversa gara d’appalto: “Con riferimento al merito del ricorso il Collegio ritiene assorbente e dirimente, ai fini della legittima esclusione del ricorrente, il comportamento complessivo tenuto dalla società ricorrente e puntualmente descritto nel verbale del 17 ottobre 2013, in cui la Commissione giudicatrice, alla luce delle successive informazioni ad essa pervenute e, conseguentemente, accertate ha ritenuto che la predetta società è precedentemente incorsa, nell’ambito della sua attività professionale, in errori gravi.

Tale evenienza, invero si concretezza non già e non solo con la definizione degli eventuali procedimenti penali ovvero amministrativi, ma può essere induttivamente ricavata dalla stazione appaltante attraverso indizi seri, precisi e concordanti che consentono di affermare la negligenza ovvero la malafede nella esecuzione di prestazioni già affidate alla candidata, così che può ricavarsi un giudizio prognostico circa la inaffidabilità della concorrente per la futura esecuzione del lavoro o del servizio eventualmente alla stessa aggiudicato.

Nel caso di specie risulta dagli atti che la ricorrente è stata condannata, anche se la sentenza non è passata in giudicato, per gravi reati ( art. 319, 320 e 321 c.p.), inoltre risulta che alla predetta sono stati revocati, per gravissime irregolarità professionali, i servizi cimiteriali già aggiudicati per i comuni di Villafranca e Vigonza.

Questo Tribunale con le sentenze n. 703/2012 e 96/2013 ha respinto le censure al riguardo avanzate dalla ricorrente in merito alle riferite revoche.

E’ opportuno precisare che la prima decisione è passata in giudicato, non avendo la ricorrente proposto ricorso in appello, mentre per la seconda, tutt’ora pendente innanzi al Consiglio di Stato, l’attuale ricorrente non ha neppure chiesto l’adozione della misura cautelare.

Tali obiettive ed univoche evenienze confortano, senza dubbio, l’opinione della stazione appaltante circa le pregresse incompetenze e carenze professionali evidenziate da circostanze oggettive di significativa gravità, emergendo, così, la inaffidabilità della ricorrente nella gestione del servizio eventualmente alla stessa aggiudicato”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 579 del 2014

L’aggiudicazione tacita non equivale a quella definitiva

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 14 maggio 2014 n. 632, si occupa di alcune questioni relative all’aggiudicazione provvisoria: “considerato che è infondata la prima censura con la quale parte ricorrente afferma la violazione dell’art. 12 del codice dei contratti per avere la stazione appaltante revocato il provvedimento di aggiudicazione provvisoria quando, essendo spirato il termine perentorio di trenta giorni dalla sua adozione, si era già formalizzata l’aggiudicazione definitiva: l’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi dell’art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre parole, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente, e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, quale atto conclusivo della procedura concorsuale (cfr. CdS, III, 16.10.2012 n. 5282; IV, 26.3.2012 n. 1766; TAR Veneto, I, 8.2.2013 n. 178);

che ha pregio nemmeno l’ulteriore motivo con cui l’interessata assume l’illegittimità della revoca per violazione della legge n. 241/1990, in quanto disposta senza contraddittorio. L’adottato provvedimento si qualifica non già come revoca in senso tecnico - l'aggiudicazione provvisoria è, infatti, atto endoprocedimentale, instabile e ad effetti interinali -, ma come mera, mancata conclusione della procedura concorsuale per riscontrata carenza dei requisiti di moralità in capo al legale rappresentante dell’aggiudicataria provvisoria: non si tratta, dunque, di un nuovo procedimento che necessita del contraddittorio con l’interessato (come, invece, nell’ipotesi di revoca dell’aggiudicazione definitiva divenuta efficace), ma della fase conclusiva – il diniego di aggiudicazione definitiva, in questo caso (e la contestuale aggiudicazione all’impresa seconda graduata) - del medesimo procedimento azionato dalla parte con la domanda di partecipazione alla gara (cfr., ex multis, CdS, III, 11.7.2012 n. 411)”.

Nella stessa sentenza il Collegio, con specifico riferimento alla causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett. c) del Codice Appalti, affronta il rapporto tra il sindaco giurisdizionale ed i poteri discrezionali dell’Amministrazione “che, analogamente, non può condividersi il terzo rilievo con cui la ricorrente contesta il giudizio di valore reso dalla stazione appaltante in ordine al reato commesso dal legale rappresentante della ditta aggiudicataria, ritenuto grave ed incidente sulla moralità professionale e, dunque, tale da comportare l’esclusione della concorrente ai sensi dell’art. 38, I comma, lett. c) del codice. I provvedimenti emanati nell’esercizio del potere discrezionale tecnico della pubblica Amministrazione – tra i quali rientrano a pieno titolo quelli che con adeguata e congrua motivazione valutano l'idoneità del reato ad integrare la causa di esclusione dalla gara - sono sindacabili dal giudice amministrativo per vizi di legittimità e non di merito, nel senso che non è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo c.d. di tipo "forte" sulle valutazioni comunque opinabili, che si tradurrebbe nell'esercizio da parte del giudice di un potere sostitutivo spinto fino a sovrapporre la propria valutazione a quella dell'Amministrazione. È ben vero che l'esercizio della discrezionalità non è di per sè idoneo a determinare l'affievolimento dei diritti soggettivi di coloro che dal provvedimento amministrativo siano eventualmente pregiudicati, ma è anche vero che il ricorso a criteri discrezionali conduce sovente ad un ventaglio di soluzioni possibili, destinato inevitabilmente a risolversi in un apprezzamento non privo di un certo grado di opinabilità: in situazioni di tal fatta il sindacato del giudice, essendo pur sempre un sindacato di legittimità e non di merito, è destinato ad arrestarsi al limite oltre il quale la stessa opinabilità dell'apprezzamento operato dall'Amministrazione impedisce d'individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell'apprezzamento illegittimo. Con la conseguenza che compete al giudice di vagliare la correttezza dei criteri, la logicità e la coerenza del ragionamento e l'adeguatezza della motivazione con cui l'Amministrazione ha supportato le proprie valutazioni. In altre parole, quando il giudizio presenta apprezzamenti che presuppongono un oggettivo margine di opinabilità, il sindacato giurisdizionale, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Amministrazione che si sia mantenuta entro i suddetti margini. Si tratta di limiti che perimetrano in termini chiari, puntuali e ineludibili l'ambito entro il quale il giudice amministrativo può svolgere il proprio compito, che, avendo – come si è detto - ad oggetto la verifica della regolarità del procedimento, non gli consente in alcun caso di sovrapporre il proprio convincimento a quello espresso dall'organo a ciò deputato. Ciò premesso – e precisato che l'espressione "in danno dello Stato o della Comunità" non si riferisce a tipologie di reato qualificate, ma va letta nel più ampio contesto della fattispecie indicata alla lettera c): una simile restrizione, infatti, non si evince né dalle direttive comunitarie né dall'ordinamento penale italiano, che non contempla una categoria di reati in danno dello Stato o della Comunità; pertanto, indipendentemente dallo specifico oggetto giuridico della singola norma incriminatrice, deve trattarsi di reati idonei a creare allarme sociale rispetto ad interessi di natura pubblicistica -, e passando all'esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che la valutazione di gravità (ove vengono presi in esame tutti gli elementi che possono incidere negativamente sul vincolo fiduciario quali, ad esempio, l'elemento psicologico, l'epoca e la circostanza dei fatti, il tempo trascorso dalla condanna, il bene leso dal comportamento delittuoso, in relazione anche all'oggetto ed alle caratteristiche dell'appalto), e l’incidenza dei due reati commessi (utilizzo di un lavoratore extra comunitario privo di permesso di soggiorno e falso in atto pubblico) sulla moralità professionale del rappresentante legale dell’impresa (in quanto manifestano una radicale contraddizione con i principi deontologici della professione), effettuata dall’Amministrazione, non possa che riconoscersi congruamente motivata in relazione, appunto, ai palesati elementi dell’epoca (recente) della risalenza dei fatti per i quali è stato condannato, delle peculiarità del caso concreto, del peso specifico dei reati ascritti e della prestazione che la ditta aggiudicataria deve espletare”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 632 del 2014

Considerazioni sulla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 in materia di concordato preventivo

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Considerazioni di prima lettura in ordine alla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 “Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni contenute nell’art. 38, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 163/2006 afferenti alle procedure di concordato preventivo a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 186-bis della legge fallimentare (concordato con continuità aziendale)”.

Con la determinazione n. 3, del 23 aprile 2014, l’AVCP ha fornito linee interpretative aggiornate in ordine alle ripercussioni della nuova disciplina del concordato preventivo sulla qualificazione degli operatori economici nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Il nuovo provvedimento distingue tra concordato preventivo ordinario o "liquidatorio" e concordato preventivo "con continuità aziendale" e si occupa, altresì, degli effetti sulla disciplina degli appalti pubblici della domanda di concordato "in bianco".

 Il provvedimento dell’AVCP parte dalla constatazione che le precedenti indicazioni operative, contenute nel Comunicato alle SOA n. 68, del 29 novembre 2011, debbono ritenersi superate alla luce della sopravvenuta riforma dell’istituto del concordato preventivo, introdotta nel corpo della legge fallimentare (Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) dal decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, oltreché dalla coeva modifica dell’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

Premessa

Dalla “riforma” operata nel 2012 ed integrata dal c.d. decreto “destinazione Italia” (art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, emergono i seguenti tratti salienti dell’istituto del concordato preventivo, rilevanti ai fini della disciplina della qualificazione degli operatori economici ad operare nel mercato dei contratti pubblici, della relativa capacità di partecipare alle procedure di affidamento di tali contratti e della sorte dei contratti in corso di esecuzione.

Distinzione tra concordato preventivo “con continuità aziendale” e concordato puramente “liquidatorio”

Il primo, introdotto dall’art. 186-bis della legge fallimentare, si ha quando il piano concordatario prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, oppure la cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione. Il secondo è, invece, caratterizzato da un piano concordatario che prevede il soddisfacimento dei creditori esclusivamente attraverso la liquidazione dei beni aziendali, senza alcuna prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività imprenditoriale.

 Possibilità di presentazione di una domanda (rectius: ricorso) di concordato preventivo c.d. “in bianco”

In questo caso il debitore si riserva di depositare la proposta e il piano concordatari nel termine fissato dal giudice, compreso tra 60 e 120 giorni, ulteriormente prorogabile, in presenza di giustificati motivi, per non più di 60 giorni (art. 161, sesto comma, L.F.). Alla presentazione della domanda, ancorché meramente “prenotativa” o “in bianco”, la nuova disciplina del concordato associa l’impossibilità per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore (art. 168 L.F.), nonché, con specifico riguardo ai contratti in corso con le pubbliche amministrazioni, l’esplicita statuizione della relativa non risolvibilità per effetto dell’apertura delle procedura di concordato, mentre la partecipazione a nuove gare è subordinata alla previa autorizzazione del tribunale, sentito il commissario giudiziale se nominato (art. 186-bis, quarto comma, L.F., introdotto dall'art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9).

Dal quadro testé riassunto, l’AVCP ricava le nuove indicazioni operative.

Concordato preventivo “con continuità aziendale”

Il combinato disposto degli artt. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici e 186-bis, commi 3, 4, 5 e 6, della Legge Fallimentare, delinea il seguente regime.

 1^ fase - dalla presentazione della domanda di concordato preventivo “con continuità aziendale” (art. 161 L.F.) al decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.)

 a) I contratti in corso di esecuzione, ancorché stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono (art. 186-bis, terzo comma).

b) La partecipazione alle gare deve essere autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato (art. 186-bis, quarto comma).

c) L’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo. Analogamente, le imprese prive di attestazione possono richiederla per la prima volta. In tutte queste circostanze, peraltro, la determinazione 3/2014 precisa che “resta fermo l’obbligo delle SOA di monitorare lo svolgimento della procedura concorsuale in atto e di verificare il mantenimento del requisito con l’intervenuta ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, pena la decadenza dell’attestazione in caso di mancata ammissione (ndr.: al concordato preventivo “con continuità aziendale”) per sopravvenuta perdita del requisito”.

2^ fase – dal decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.) al decreto di omologazione (artt. 180-181 L.F.)

a) I contratti in essere, stipulati con pubbliche amministrazioni dal debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale”, possono essere ulteriormente eseguiti purché il debitore produca la relazione del professionista che ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.

b) La partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici è consentita purché il debitore presenti la documentazione di cui alla precedente lett. a), nonché la dichiarazione di avvalimento di altro operatore economico. E’ consentita anche la partecipazione in raggruppamento temporaneo di imprese, purché il debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale” assuma la veste di mandante e non di capogruppo-mandatario.

c) Analogamente a quanto stabilito in relazione alla 1^ fase, anche successivamente al decreto di ammissione al concordato l’’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo.

Concordato preventivo “ordinario” o “liquidatorio”

Laddove l’impresa in stato di crisi (ex art. 160 L.F.) presenti una domanda di concordato preventivo che non preveda la continuità aziendale, non è applicabile l’art. 186-bis L.F. e si configura la causa ostativa al requisito generale per la qualificazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

 Conseguentemente:

a) I contratti in corso con le pubbliche amministrazioni sono soggetti a risoluzione per sopravvenuto difetto di qualificazione del contraente privato, con facoltà per la stazione appaltante di interpellare progressivamente i concorrenti postergati nella graduatoria formata in esito della gara che ha portato all’aggiudicazione in favore del debitore richiedente il concordato preventivo (art. 140 D. Lgs. 163/2006).

b) L’attestazione di qualificazione eventualmente posseduta dall’impresa è soggetta alla procedura di decadenza per sopravvenuta perdita del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a) del Codice dei contratti pubblici (art. 40, comma 9-ter, D. Lgs. 163/2006);

c) Non è consentita la partecipazione alle procedure di affidamento di nuovi contratti pubblici. Per quanto, in particolare, attiene ai contratti pubblici di lavori, l’effetto ostativo si produce sia nei confronti dei lavori d’importo superiore a 150.000 euro, sia per quelli d’importo pari o inferiore alla soglia del sistema unico di qualificazione.

Domanda di concordato preventivo “in bianco”

 L’ultima parte della determinazione in commento, dedicata alla fattispecie della domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161, sesto comma, L.F.), giunge a conclusioni che non paiono del tutto coerenti con le norme assunte a riferimento.

 Vi si legge, infatti, che “poiché la presentazione del piano è presupposto per l'applicabilità dell'art. 186 bis L.F., le domande di concordato "in bianco" non risultano essere idonee, di per sé, a permettere la prosecuzione dell'attività.

Da ciò ne deriva che tale ipotesi costituisce causa ostativa per la qualificazione nonché presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito”.

 In particolare, l’affermazione riportata nell’ultimo capoverso prefigura, quale diretta conseguenza della presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ancorché “prenotativa” di un successivo piano per la “continuità aziendale”:

1) l’assenza del requisito generale necessario per acquisire e mantenere la qualificazione, nonché per partecipare alle gare, per essere affidatari di subappalti e per stipulare i contratti ed i subcontratti disciplinati dal Codice (art. 38, comma 1, lett. a, D. Lgs. 163/2006);

2) il verificarsi di una “causa ostativa per la qualificazione” (nel caso di prima richiesta di attestazione), ovvero del “presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito” (nel caso di attestazione già rilasciata e, quindi, efficace).

Simili conseguenze, peraltro, appaiono incompatibili con il regime delineato dal quarto comma dell’art. 186-bis della L.F. relativamente alla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici “successivamente al deposito del ricorso”.

Detta partecipazione è certamente subordinata alla previa autorizzazione del tribunale (sentito il commissario giudiziale, se nominato), ma comunque presuppone la permanente validità ed efficacia dell’attestazione posseduta dall’impresa e, in ogni caso, il persistere del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici. Infatti, quest’ultima norma esclude l’effetto ostativo non solo in capo al provvedimento che ammette il debitore al concordato preventivo “con continuità aziendale”, ma anche alla pendenza del procedimento a ciò finalizzato (che, a norma dell’art. 161, comma 6, L.F., si ha anche con il semplice deposito della domanda “in bianco”, purché prefigurante un successivo concordato “con continuità”).

Altrettanto dicasi anche in ordine alle conseguenze della domanda “prenotativa” di concordato “con continuità” nei confronti dei contratti con pubbliche amministrazioni, in corso di esecuzione alla data di deposito della domanda.

 L’iter argomentativo seguito dall’AVCP nella determinazione in commento dovrebbe comportare il sopravvenire, anche nel caso da ultimo in esame, di una causa di risoluzione di tali contratti, analogamente a quanto indicato nell’ipotesi di domanda di ammissione al concordato “ordinario” o “liquidatorio”.

 Ma tale conclusione si pone in inconciliabile contrasto con la prima parte del terzo comma dell’art. 186-bis L.F., il cui contenuto (ovvero la sopravvivenza dei contratti in corso, anche nei confronti della pubblica amministrazione) trova applicazione anche nel caso della semplice domanda “in bianco” o “prenotativa”, purché finalizzata ad un concordato “con continuità aziendale”.

 E augurabile, pertanto, che l’Autorità riveda le indicazioni interpretative contenute nella determinazione 3/2014, nella parte dedicata al c.d. concordato “in bianco”.

                                                       dott. Roberto Travaglini -  Confindustria Vicenza 

AVCP_determinazione_3-2014_qualificazione_e_concordato_preventivo

Nel caso di abusi in materia di serre l’istruttoria può essere svolta dall’Unità regionale per i Servizi fitosanitari

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "1. E’ infondato il primo motivo del ricorso principale nell’ambito del quale si sostiene che l’istruttoria del procedimento, poi concluso con l’ordinanza di demolizione, avrebbe dovuto essere svolta dall’Ufficio tecnico comunale, non potendosi fondare sulle risultanze dell’accertamento posto in essere dall’Unità per i Servizi fitosanitari.

2. Nel provvedimento impugnato è lo stesso Comune a dare conto che i poteri di controllo, sull’attività dichiarata “florovivaismo”, erano propri dell’Unità Periferica per i Servizi Fitosanitari della Regione Veneto, “in qualità di autorità preposta al rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività”, competenza che in considerazione della specificità della materia trattata non poteva essere attribuita agli uffici comunali. Si consideri, ancora, che l’Unità Periferica regionale per i servizi fitosanitari, nel corso dell’accertamento posto in essere in data 21/06/2012, aveva accertato come solo parte di una delle due strutture (quella di cui al permesso di costruire n.10/002) fosse destinata alla  coltivazione di piante, mentre sia nella parte residua (pari a 441,86 mq) di questa prima struttura sia, ancora, sull’intera superficie della serra contigua (di cui alla concessione n. 97/122), era svolta l’attività commerciale di vendita piante.

2.1 Ne consegue che, una volta acquisita la conoscenza di dette difformità per il tramite dell’autorità effettivamente competente, il
Comune era obbligato ad attivare il procedimento sanzionatorio e, ciò, senza per questo essere tenuto a porre in essere un’ulteriore verifica dello stato dei luoghi che, in quanto tale, nulla avrebbe potuto aggiungere a quanto in precedenza accertato.

2.2 Non può, pertanto, essere condivisa la tesi in base alla quale il Comune avrebbe violato il disposto di cui all’art. 27 del dpr 380/2001. Sul punto va ricordato come detta disposizione riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e di controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storicoartistico, senza tipizzare gli adempimenti e le verifiche da realizzare.

2.3 Sulla base di detta disposizione l’Amministrazione comunale è obbligata, per il tramite del dirigente competente, ad adottare
immediatamente provvedimenti definitivi al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato, nell’ambito del quale non sussistono margini di discrezionalità (per tutti T.A.R. Campania Napoli Sez. III, 05-04-2012, n. 1647).

2.4 Una volta acquisito il verbale sopra citato deve ritenersi, allora, come l’Amministrazione comunale si sia correttamente attivata al fine di  instaurare il procedimento sanzionatorio previsto in relazione agli abusi contestati, inviando la comunicazione di avvio del procedimento e, nel contempo, svolgendo quell’attività istruttoria che, di per sé, non può essere circoscritta all’effettuazione di un ulteriore sopralluogo, essendo al contrario composta da una serie di verifiche e accertamenti, anche sui documenti catastali, istruttoria anch’essa diretta a verificare la compatibilità e la legittimità delle verifiche già poste in essere".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Deve esserci esatta corrispondenza tra l’avviso di avvio del procedimento e il provvedimento finale?

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Alla domanda risponde negativamente la sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "3. Altrettanto non condivisibile è l’argomentazione di parte ricorrente (contenuta nel secondo motivo) diretta a fondare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino in considerazione del fatto che l’avviso di avvio del procedimento avrebbe dovuto indicare le norme violate e la sanzione che l’Amministrazione intendeva applicare.

3.1 Costituisce principio consolidato quello diretto a sancire che la funzione degli art. 7 e 8 della L. n.241/90 è quella di garantire una
partecipazione alla formazione del provvedimento definitivo, mediante un’effettiva collaborazione tra privato e Amministrazione che, in quanto tale, si instaura nella fase procedimentale. Detta partecipazione procedimentale parte dal presupposto della necessità di realizzare una formazione “progressiva” del provvedimento definitivo, circostanza quest’ultima che comporta l’impossibilità di
sancire un'assoluta identità tra il contenuto dell'avviso e la decisione finale.

3.2 Deve, allora, ritenersi come sia possibile che l'amministrazione possa emettere un provvedimento finale anche parzialmente diverso da quello preannunziato e, ciò, sulla base degli accertamenti e delle verifiche poste in essere nel corso dell’esplicarsi dell’attività istruttoria.  Come ha rilevato un prevalente orientamento giurisprudenziale il limite delle diversità e delle differenze di contenuto tra atto di avviso e atto finale, integra una nozione di “aderenza” non riferita all'integrità dei rispettivi contenuti, perché così si renderebbe inutile l'intera fase partecipativa ed istruttoria, trasformando l'atto di avvio in un mero adempimento formale (Cons. Stato Sez. IV, 22-05-2012, n. 2961).

3.3 Si consideri, ancora, come sia altrettanto dirimente constatare che l’art. 8 della L. n. 241/90, nel disciplinare i contenuti minimi della comunicazione di avvio, non prevede, nell’ambito degli elementi propri di detta comunicazione, l’indicazione delle sanzioni da applicare. Il motivo è pertanto infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

La scala esterna e le distanze ex D.M. n. 144/1968

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

La scala esterna è considerata una costruzione. E la sua chiusura?

La giurisprudenza è unanime nell’affermare che la scala esterna costituisce una costruzione accessoria al fabbricato e che, di conseguenza, deve rispettare sia la disciplina civilistica sulla distanza tra fabbricati ex art. 873 c.c. sia quella posta in materia di pareti finestrate ex D.M. n. 144/1968.

A tal fine, ex multis; si ricorda che: “Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni posta dall'art.873 codice civile o da norme regolamentari di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto presenta connotati di consistenza e stabilità (Cassazione civile Sez. II 30/1/2007 n.1966; Tar Basilicata 19/9/2013 n.574)” e che: “Invero, rilevato che la scala costituisce, come già sopra evidenziato, struttura o corpo aggettante da considerarsi ai fini del computo della distanza, quest'ultima con riferimento al parametro edilizio posto dalla norma di cui all'art.9 del citato Decreto risulta inferiore ai previsti 10 metri, limite minimo da ritenersi inderogabile, fermo restando che la disposizione statale in rassegna si rivela sovraordinata ad altra norma regolamentare locale che fissi una diversa, minore distanza (ex multis, Cons. Stato Sez. IV 17/5/2012 n. 2847)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1000); “È fondato, invece, il terzo motivo del ricorso introduttivo, nella parte in cui contesta la distanza della scala di accesso dell'edificio rispetto al confine est (prop. Mi.). In effetti i gradini della scala esterna di accesso al costruendo edificio risultano sporgere ad una distanza inferiore al 10 ml di cui al DM 1444/1968. Sul punto, la costante giurisprudenza osserva come, in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, rientrano invece nel concetto civilistico di costruzioni le scale (CdS Sez. IV 17.5.2012 n. 2847)” (T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 19.12.2013, n. 941); “Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall'art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l'altro e quindi a pregiudicare l'esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime. In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che "Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia" (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne)” e che: “Del pari è fondata la quarta censura, attinente alla violazione dell'art. 9 D.M. 1444/68 e dell'art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. di Cellamare, per il mancato rispetto della distanza di m. 10 prevista per la zona B tra pareti e pareti finestrate, emergendo pacificamente dagli atti di causa (anche dalla perizia di parte dei controinteressati) che la distanza risulta maggiore di m. 10 solo se computata dalla scala e non dalla parete retrostante, di tal che, considerando per quanto detto sopra la scala corpo aggettante da considerare nel computo, la distanza risulta inferiore” (T.A.R. puglia, Bari, sez. III, 21.06.2012, n. 1219) oltre che: “L'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1404, che prescrive che tra pareti finestrate deve essere osservata la distanza di m. 10, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata. L'anzidetto distacco minimo deve osservarsi, pertanto, nel caso in cui la costruzione fronteggiante la parte finestrata sia costituita da una scala esterna in muratura incorporata ad un edificio, del quale costituisce accessorio, dovendo ravvisarsi una parete nella facciata dei pilastri e dei gradini. Questo principio trova applicazione con riguardo al PRG del comune di Massa approvato con d.m. 31 marzo 1972 n. 1807, il cui art. 48 richiama l'art. 9 del d.m. del 1968, senza prevedere alcuna deroga nei riguardi delle costruzioni di natura accessoria e pertinenziale” (Cass. civ., sez. II, 06.05.1993, n. 5226).

Alla luce di ciò ritengo che le considerazioni suesposte valgano anche per la chiusura della scala esterna e la conseguente creazione di un nuovo vano.

E i lettori cosa ne pensano?

dott. Matteo Acquasaliente

CDS n. 1000 del 2014

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