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Oneri specifici ed appalto di lavori secondo il TAR Campania

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, nella sentenza del 08 aprile 2014 n. 2010, chiarisce che anche negli appalti di lavori vi è l’obbligo di indicare gli oneri specifici a pena di esclusione: “ritiene il Collegio che, alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa. Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi. In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara.

Riguardo al precetto applicabile, l’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 stabilisce che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

Dal punto di vista formale della composizione dell’offerta, esiste, dunque, per l’impresa partecipante l’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza, che devono anche essere assistiti da un rafforzato carattere di specificità. E non è seriamente dubitabile che tale adempimento non sia stato assolto dalla società ricorrente.

Alla questione, poi, se alla violazione di tale prescrizione consegua la sanzione espulsiva, occorre rendere risposta affermativa: tanto, sia perché in base alla formulazione letterale della norma è imposto un formale “dovere” di specifica indicazione dei costi della sicurezza, sia perché, dal punto di vista funzionale, non postergare tale rappresentazione alla fase di verifica dell’anomalia rivela l’interesse prioritario del legislatore verso la sicurezza sui luoghi di lavoro; inoltre, lo spostamento in avanti di tale accertamento – id est al momento della verifica della anomalia - potrebbe addirittura determinarne la totale pretermissione, trattandosi comunque di un subprocedimento non indefettibile nella dinamica del procedimento di gara; del resto, assumere la specificazione del costo della sicurezza come elemento costitutivo dell’offerta finisce per attribuire a tale elemento rilevanza anche dal punto di vista della presentazione di una proposta contrattuale seria che comprenda la valutazione di tutti gli oneri economici ricadenti nell’ambito del rapporto di convenienza e sostenibilità tecnico-economica dell’impegno contrattale che si va ad assumere.

Va aggiunto, quanto all’asserita inidoneità del progetto definitivo a contenere gli elementi necessari per il calcolo degli oneri di sicurezza, che, spettando all’impresa concorrente la redazione del progetto esecutivo - che la società ricorrente assume essere il livello di progettazione sufficiente per compiere tale valutazione – è su tale elaborato che avrebbe dovuto essere calcolata l’incidenza di tale elemento di costo, ai fini della elaborazione anche dell’offerta economica; ne discende, sotto tale profilo, la mancanza di lesività in punto di fatto della disciplina tecnica di gara.

Tali considerazioni trovano riscontro anche in recente giurisprudenza, secondo cui “nelle gare pubbliche, considerata la differenza che intercorre fra tra gli oneri di sicurezza per le cc.dd. interferenzee (che sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell'ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto) e gli oneri di sicurezza da rischio specifico o aziendale (la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta), l'omessa indicazione specifica nell'offerta sia dell'una che dell'altra categoria di costi giustifica la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell'offerta e venendo, quindi, a mancare un elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (Adunanza Plenaria 25 febbraio 2014 n. 9; Consiglio di Stato III Sezione 23 gennaio 2014 n.348; Consiglio di Stato III Sezione 3 luglio 2013 n.3565)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Campania n. 2010 del 2014

No alle attivitĂ  commerciali in zona agricola

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 09 aprile 2014 n. 490 si occupa della D.I.A. e della impossibilitĂ  di realizzare delle attivitĂ  commerciali in zona agricola.

Per quanto concerne il primo aspetto si legge: “Il collegio prescinde dall’esame delle eccezioni preliminari, essendo il ricorso infondato nel merito.

Il collegio evidenzia che il provvedimento inibitorio del 4 Settembre 2007 non è tardivo.

Infatti alla data dei provvedimenti impugnati il testo vigente dell’art. 19 della legge n° 241 del 1990 era il seguente:

Il secondo comma stabiliva che l'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente. Contestualmente all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà comunicazione all'amministrazione competente.

Il terzo comma aggiungeva che l'amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalitĂ  e fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attivitĂ  e di rimozione dei suoi effetti.

Il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio non decorreva dunque dalla data di presentazione della d.i.a., ma dalla comunicazione di inizio dell’attività, successiva di almeno 30 giorni rispetto alla data di presentazione della d.i.a.

Nel caso di specie la comunicazione di inizio dell’attività successivamente alla presentazione della d.i.a. non si è avuta e dunque l’amministrazione non è decaduta dall’esercizio del potere inibitorio”.

 Invece, con riferimento alla seconda questione: “3. Non sussistono i lamentati vizi di violazione di legge, difetto di motivazione, carenza d’istruttoria ed eccesso di potere.

Infatti i provvedimenti impugnati sono atti dovuti e vincolati.

Parte ricorrente non può esercitare attività commerciale in zona agricola.

Il collegio evidenzia che era stato oggetto di condono soltanto l’edificio in cui si svolge l’attività commerciale, ma non l’area di pertinenza.

Tale ambito della sanatoria risulta particolarmente dalla relazione tecnico – illustrativa allegata all’istanza di condono, secondo cui l’intervento consiste nel condono edilizio di “un edificio”.

Né vale il richiamo di parte ricorrente a casistica giurisprudenziale relativa a parcheggi in zona agricola perché devono essere analizzate in concreto le caratteristiche del parcheggio per valutarne la compatibilità del parcheggio con la zona agricola.

Nel caso di specie il parcheggio ha lo scopo di servire all’attività di vendita di autovetture e dunque, qualificandosi l’attività di parcheggio in relazione allo scopo, si caratterizza come attività commerciale, che è incompatibile per sua natura con la destinazione di zona agricola.

Sotto tale profilo va evidenziato che la stessa parte ricorrente ha qualificato nella d.i.a. l’attività da svolgere sull’area scoperta come attività commerciale”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 490 del 2014

Corte Costituzionale: non spetta alla Corte dei Conti il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza  della Corte Costituzionale n. 130 del 2014: "Le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, con ricorsi rispettivamente notificati il 9 e 12 agosto e il 5 settembre 2013, depositati i successivi 16 e 21 agosto e 6 settembre, iscritti ai numeri 8, 9 e 10 del registro conflitti tra enti del 2013, hanno promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione ad alcune deliberazioni della sezione delle autonomie e delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, con cui si è, rispettivamente, orientato ed esercitato, in relazione all’esercizio finanziario 2012, il potere di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari a norma dell’art. 1, commi 9, 10, 11 e 12, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 dicembre 2012, n. 213.

Tutte le ricorrenti ( Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte ) lamentano, in primo luogo, che la Corte dei conti abbia leso la loro autonomia organizzativa e contabile, ed in particolare quella dei consigli regionali e dei loro gruppi consiliari, tutelata dall’art. 121, secondo comma, Cost., esercitando in relazione al 2012 un potere ad essa non attribuito dalla legge.

I commi 9, 10, 11 e 12 dell’art. 1 del d.l. n. 174 del 2012 detterebbero, infatti, una disciplina del controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari completa, non frazionabile e comunque esercitabile solo secondo i criteri previsti nelle linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato solo il 21 dicembre 2012 ed entrato in vigore il 17 febbraio dell’anno seguente.

L’immediata operatività del controllo è stata affermata, al contrario, dalla sezione delle autonomie in ragione dell’assenza di una norma transitoria contenuta nel d.l. n. 174 del 2012 e sul rilievo che le leggi regionali vigenti già prevedevano degli obblighi di rendicontazione nei confronti dei consigli regionali ovvero di loro articolazioni.

Ebbene, ai sensi dell’art. 1, comma 9, del d.l. n. 174 del 2012, il rendiconto in esame è «strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri […]». Il comma 11, poi, attribuisce alla sezione regionale di controllo un giudizio di conformità dei rendiconti medesimi alle prescrizioni dettate dall’art. 1, e quindi ai già detti criteri contenuti nelle linee guida.

Il dettato normativo configura dunque il potere di controllo in esame come condizionato alla previa individuazione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’evidente presupposto della loro indispensabilità.

Questa Corte, del resto, con la sentenza n. 39 del 2014, ha chiarito che «il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale [...]. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale».

Non può essere accolta, infine, la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui l’immediata operatività si ricaverebbe dalla circostanza dell’utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza, dal momento che quest’ultimo sottende una scelta di opportunità non rilevante in questa sede e logicamente non incompatibile con la decorrenza dell’operatività dei controlli dall’esercizio successivo all’entrata in vigore del decreto.

 Deve pertanto concludersi nel senso che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012.

 La Corte Costituzionale dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie, adottare le deliberazioni 5 aprile 2013, n. 12, e 5 luglio 2013, n. 15, nonché alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, le deliberazioni 12 giugno 2013, n. 234, e 10 luglio 2013, n. 249, alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, le deliberazioni 29 aprile 2013, n. 105, e 13 giugno 2013, n. 160, ed alla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, la deliberazione 10 luglio 2013, n. 263, con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012".

geom. Daniele Iselle

sentenza Corte Costituzionale n. 130 del_2014

Il curatore fallimentare non può essere destinatario dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 09.11.2012 n. 1398 aveva chiarito che il curatore fallimentare, di regola, non può essere destinatario dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti perché: “la giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19 marzo 2010, n. 700; Tar Campania , Salerno, Sez. I, 18 ottobre 2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 settembre 2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17 aprile 2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10 maggio 2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12 marzo 2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 1 agosto 2001, n. 1318), perché altrimenti gli effetti economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente estranei, fino a prova contraria, alla condotta dell’abbandono dei rifiuti”. Tale pensiero era stato confermato anche dalla sentenza dello stesso Giudice del 04.12.2012 n. 1498 ove si legge che: “la giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19 marzo 2010, n. 700; Tar Campania , Salerno, Sez. I, 18 ottobre 2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 settembre 2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17 aprile 2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10 maggio 2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12 marzo 2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 1 agosto 2001, n. 1318). In definitiva, applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, discende che, ferma restando la validità del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone obblighi in capo all’altro comproprietario del compendio immobiliare, il provvedimento impugnato è illegittimo e va annullato per incompetenza e nella parte in cui ha posto obblighi ed oneri direttamente in capo al fallimento, quando invece, qualora il Comune proceda all'esecuzione d'ufficio, per recuperare le somme anticipate, ha a disposizione il solo rimedio dell’insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare”.

 Queste conclusioni sono avvalorate dalla giurisprudenza maggioritaria (ex multis T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, 19.10.2012 n. 1662 e T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 31.10.2012, n. 385), mentre soltanto parte recessiva della giurisprudenza sembra ammettere una sorta di responsabilità o meglio di corresponsabilità del curatore fallimentare (cfr. Cass. pen, sez. III, 12.06.2008, n. 37282).

Recentemente quanto esposto dal T.A.R. Veneto è stato confermato anche dal T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 09.01.2013 n. 56, secondo cui: “Dello stesso orientamento è, del resto, anche la costante giurisprudenza amministrativa di primo e secondo grado (cfr. TAR Toscana, sez. III, 1 agosto 2001, n. 1318; Cons. di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328 e, più di recente, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3765), la quale sottolinea l’assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall’impresa fallita.

Fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinanti, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3765).

Il fatto che la curatela abbia la disponibilità giuridica dell’area inquinata non è sufficiente per imporre alla medesima l’adempimento di obblighi gravanti sull’impresa fallita – sempre che ne venga accertata la responsabilità -.

Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta, infatti, necessariamente, il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.

Proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia, invece, che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi piĂą strettamente correlati alla responsabilitĂ 

dell’imprenditore fallito (vedi, sul punto, Cons. di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328, citato in precedenza)”, nonché dal T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, 20.01.2014 n. 118 il quale prevede che: “Nel merito il ricorso deve essere accolto in relazione alla sostanziale mancanza di legittimazione passiva degli organi delle procedure concorsuali che non possono essere chiamati ad effettuare bonifiche in relazione ad inquinamenti di alcun tipo in quanto non hanno alcuna responsabilità della situazione ambientale in cui si trovano i beni e non possono utilizzare risorse per motivi diversi dalla soddisfazione dei creditori. E ciò vale anche in relazione alla rimozione di materiali contenenti amianto

Si tratta di un orientamento consolidato nella giurisprudenza amministrativa; in quanto ai precedenti di questa sezione è sufficiente far riferimento alla sentenza 157/2011 che diffusamente motiva sul punto: “In particolare, deve essere condivisa, alla luce della prevalente giurisprudenza espressasi sulla questione, la doglianza del ricorrente, per cui la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo dell’impresa fallita (C.d.S., Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4328). Al riguardo si è, infatti, sottolineata l’erroneità delle argomentazioni per cui: a) la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entrerebbe giuridicamente nella titolarità del curatore, sul quale graverebbe, per conseguenza, il dovere di rimuoverli secondo le leggi vigenti; b) il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all’impresa fallita e perciò sarebbe tenuto all’adempimento dei doveri derivanti dall’accertata responsabilità della stessa impresa, come dimostrerebbe tra l’altro la disciplina della legge fallimentare sulla prosecuzione dei contratti facenti capo all’impresa fallita. In realtà, se l’ordinanza impugnata è rivolta al fallimento per effetto dell’inottemperanza dell’impresa a precedenti provvedimenti (com’è avvenuto sia nella fattispecie analizzata dalla giurisprudenza ora riportata, sia nel caso oggetto del ricorso in epigrafe), la curatela fallimentare deve esser considerata estranea alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell’area interessata. Non basta, a far scattare un obbligo in capo alla curatela, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti qualificati come rifiuti inquinanti: il potere di disporre dei beni fallimentari, secondo le regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato, non comporta necessariamente – per la giurisprudenza del Consiglio di Stato in commento, le cui affermazioni il Collegio condivide – il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, volti alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica dei fattori inquinanti. D’altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti a dimostrare che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito, non potendosi invocare l’art. 1576 c.c., poiché l’obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da altre disposizioni, dirette ad altro scopo (C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003, cit.)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR FVG 385-2012

sentenzaTAR Veneto n. 1398 del 2012

TAR Veneto n. 1498 del 2012

TAR Lombardia n. 56 del 2013

TAR Toscana n. 118 del 2014

Oneri specifici: TAR Veneto e Consiglio di Stato la pensano diversamente

16 Mag 2014
16 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 07 maggio 2014 n. 2343, ha riformato la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. I, n. 1388/2013 commentata nel post del 13.12.2013 che, con riferimento agli oneri specifici, aveva dichiarato l’obbligo di indicarli anche negli appalti di lavori.

Nella sentenza del Giudice di Appello, infatti, si legge: “Reputato, infatti, che merita condivisione l’indirizzo di questa Sezione (sentenza 9 ottobre 2013, n. 1050), dal quale il Giudice di primo grado si è esplicitamente discostato, secondo cui l’obbligo di indicazione, in sede di offerta, del costo relativo alla sicurezza è imposto dal legislatore, ex art. 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici, esclusivamente per le procedure relative agli appalti di servizi e forniture mentre in materia di lavori pubblici la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100, d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici, fermo restando l’obbligo di verifica dell’adeguatezza degli oneri per tutti i contratti pubblici in forza dell’art. 86, comma 3 bis, del codice dei contratti pubblici;

Reputato che, in ogni caso, l’ ATI Andreola, pur non essendo tenuta, ha proceduto all’indicazione degli oneri di sicurezza e che l’unitarietà dell’offerta economica, complessivamente riconducibile al raggruppamento, non consente di accedere alla tesi, sposata dalla sentenza appellata, secondo cui ognuna delle imprese raggruppate avrebbe dovuto indicare la quota individuale degli oneri a sé imputabile”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2343 del 2014

Cosa succede se il Soprintendete esprime il parere di compatibilità paesaggistica oltre il termine di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D. Lgs. 42/2004

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 583 del 2014, in relazione alla tesi del ricorrente secondo la quale il parere tardivo sarebbe nullo.

Scrive il TAR: "2. Ciò premesso è possibile esaminare l’eccezione di nullità proposta nell’ultima memoria presentata dalla parte ricorrente. Con riferimento a detta ultima censura ne va sancita, sin d’ora, la sua infondatezza e, ciò, sia in quanto proposta avverso il parere del 23/01/2013 (impugnativa peraltro ora dichiarata improcedibile) sia, ancora, in quanto riferita al preavviso di rigetto del 06/09/2013 (provvedimento impugnato con successivi motivi aggiunti). Detta eccezione è argomentata ritenendo violato il termine di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D. Lgs. 42/2004, entro il quale il Soprintendente deve emanare il parere di compatibilità paesaggistica, ritenendo che in entrambe le ipotesi sopra ricordate i provvedimenti impugnati siano stati stessi emessi in carenza di potere da parte dell’Amministrazione competente.

2.1 Sul punto risulta dirimente constatare come dal testo della disposizione in esame è possibile desumere come decorso il termine sopra citato, l’Amministrazione perde il potere di emanare un provvedimento vincolante. 

2.2 Pur persistendo il potere della Soprintendenza di pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale, dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale portata del potere tardivo (in questo senso si veda T.A.R. sez. I Lecce , Puglia del 06/02/2014 n. 321). 

2.3 L’eccezione di nullità del preavviso di diniego del 06/09/2013 è, pertanto, infondata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 583 del 2014

Non spetta al giudice amministrativo la controversia sulle pretese patrimoniali del Comune nel caso di cessione di immobili ERP da parte dell’assegnatario

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Nella sentenza n. 558 del 2014, il TAR Veneto esamina la giurisdizione in materia di controversie tra l'assegnatario di un alloggio ERP e il Comune, nel caso in cui il primo intenda alienare l'immobile. La controversia è sorta in relazione alla clausola inserita nel contratto di compravendita intercorso tra il ricorrente  il Comune nel quale la cessione della proprietà dell’area è stata regolata secondo puntuali accordi, fra cui quello di limitare per venti anni la libera circolazione dell’immobile costruito su tale area, a decorrere dal rilascio dell’abitabilità, salvo l’obbligo del venditore di corrispondere al Comune una somma pari alla differenza tra il valore di mercato dell’area al momento dell’alienazione ed il prezzo di acquisto stabilito in convenzione, rivalutato ISTAT.

Il TAR ha escluso la propria giurisdizione, con la seguente motivazione: "ritiene il Collegio che, pacificamente, il punto della controversia non attiene all’osservanza e puntuale esecuzione degli obblighi di convenzione, con specifico riguardo ai profili di interesse pubblico sottesi alla peculiare condizione degli alloggi destinati ad edilizia popolare. Invero, nella fattispecie si tratta unicamente di valutare in quali termini deve essere corrisposta dalle ricorrenti la somma dovuta in conseguenza dell’alienazione dell’immobile, una volta decorso il termine ventennale imposto in considerazione della peculiare destinazione dello stesso, termine che aveva limitato la libera disponibilità dell’immobile da parte del proprietario. Risulta evidente che oggetto del contendere non sono questioni inerenti il rapporto di concessione, che ha ormai esaurito i propri effetti, e della cui corretta esecuzione non vi è contestazione, bensì profili che attengono alla correttezza dei parametri di determinazione della somma da corrispondere all’amministrazione in occasione dell’alienazione a terzi dell’immobile. Non è configurabile quindi alcun potere discrezionale in capo al Comune circa la determinazione della somma da versare,così come non è riconducibile la determinazione impugnata all’esercizio di poteri autoritativi, di natura pubblicistica, riconducibili al rapporto di convenzione, da parte dell’amministrazione comunale. Sulla scorta degli insegnamenti dettati dalla Corte Costituzionale con la ben nota pronuncia n. 204/2004, è infatti necessario verificare, al fine di  stabilire la giurisdizione, se l’ente stia esercitando o meno un potere autoritativo, secondo la nozione comunemente fornita dalla teoria generale, nei confronti del quale deve essere assicurata la tutela davanti al giudice amministrativo. Orbene, un potere siffatto non è ravvisabile nelle fasi del rapporto tra la pubblica amministrazione e cittadini, assegnatari degli alloggi, nelle quali l’operare dell’amministrazione non è caratterizzato dall’esercizio di pubblici poteri, ma è incardinato nell’ambito del rapporto privatistico di locazione o di compravendita. Ne consegue che le determinazioni assunte dall’amministrazione in questa fase del rapporto non si riconducono all’esercizio di poteri pubblici, connotati dalla necessaria prevalenza dell’interesse collettivo su quello del singolo cittadino, ma si configurano quali atti di accertamento del rispetto da parte dell’assegnatario degli obblighi assunti al momento della stipula del contratto. In buona sostanza, la pretesa delle ricorrenti alla restituzione delle somme già versate ed il successivo diniego di restituzione opposto dal Comune si pongono al di fuori della fase pubblicistica del rapporto, non interessando l’adempimento di specifici obblighi di edificazione o di urbanizzazione gravanti sui privati, riconducendosi, al contrario, nell’ambito dei rapporti di carattere specificatamente patrimoniale riguardanti la libera circolazione dell’immobile realizzato su area compresa nel Peep. In questa fase, ove operano norme di relazione e non di azione e che non è connotata da profili di discrezionalità per quanto riguarda l’amministrazione, che, lo si ribadisce, non esercita poteri pubblici in  veste autoritativa per le finalità sottese alla realizzazione degli alloggi di edilizia popolare, vengono quindi a mancare i presupposti e le condizioni per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. Per detti motivi il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, rientrando la controversia nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, davanti alla quale, ai sensi e nei termini indicati dall’art. 11 c.p.a., il presente giudizio potrà proseguire".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 558 del 2014

Informazioni da trasmettere all’organo di vigilanza in caso di costruzione, realizzazione, ampliamenti e ristrutturazione di edifici o locali per lavorazioni industriali. (art. 67, comma 2, del D. Lgs. n. 81/2008)‏

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, del 18 aprile 2014, sono state individuate, ex articolo 67, comma 2, del D. Lgs. n. 81/2008, secondo criteri di semplicità e comprensibilità, le informazioni da trasmettere all'organo di vigilanza in caso di costruzione e di realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazione di quelli esistenti.

Le informazioni da trasmettere nei casi su indicati potranno essere trasmesse all'organo di vigilanza utilizzando l'apposita modulistica disponibile nella presente sezione.

 L'avviso è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, serie Generale, n. 106 del 9 maggio 2014.

  

DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81

 Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

 Art. 67. (( (Notifiche all'organo di vigilanza competente per territorio). ))
((1. In caso di costruzione e di realizzazione di edifici o  locali da adibire a lavorazioni industriali, nonche' nei casi di ampliamenti
e di ristrutturazioni di quelli esistenti
, i relativi  lavori  devono essere eseguiti nel rispetto della  normativa  di  settore  e  devono essere comunicati all'organo di vigilanza competente per territorio i seguenti elementi informativi:
a) descrizione dell'oggetto delle lavorazioni e delle  principali modalita' di esecuzione delle stesse;
b) descrizione delle caratteristiche dei locali e degli impianti.
2. Il datore di lavoro effettua la comunicazione di cui al comma  1 nell'ambito delle istanze, delle segnalazioni  o  delle  attestazioni presentate allo sportello unico per le attivita'  produttive  con  le modalita' stabilite dal regolamento di cui al decreto del  Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente  disposizione,  con  decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro  per la  pubblica  amministrazione  e  la  semplificazione,   sentita   la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  regioni  e  le province autonome di Trento e di Bolzano, sono  individuate,  secondo criteri di semplicita' e  di  comprensibilita',  le  informazioni  da trasmettere e sono approvati i modelli uniformi da utilizzare  per  i fini di cui al presente articolo.
3. Le amministrazioni che ricevono le comunicazioni di cui al comma 1 provvedono a trasmettere in via telematica all'organo di  vigilanza competente per territorio  le  informazioni  loro  pervenute  con  le modalita' indicate dal comma 2.
4. L'obbligo di comunicazione di cui  al  comma  1  si  applica  ai luoghi di  lavoro  ove  e'  prevista  la  presenza  di  piu'  di  tre lavoratori.
5. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al  comma 2 trovano applicazione le disposizioni di cui al comma 1.))

La Corte Costituzionale dichiara la legittimitĂ  della SCIA

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 121 del 09 maggio 2014, si occupa della S.C.I.A. dichiarando da un lato che questo istituto si pone in continuità con la D.I.A. e dall’altro che esso rientra tra le materie di legislazione esclusiva statale previste dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost.

Ecco il passo saliente della sentenza: “L’art. 49, comma 4-ter, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 122 del 2010, così dispone: «Il comma 4-bis attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo comma. Le espressioni “segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono, rispettivamente, quelle di “dichiarazione di inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, anche come parte di una espressione più ampia, e la disciplina di cui al comma 4-bis sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, quella della dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale».

Ad avviso della ricorrente, tale disciplina si porrebbe in contrasto con la vigente normativa provinciale, anche nelle specifiche materie di competenza statutaria di cui agli artt. 8 (in particolare, nelle materie di cui al numero 5: «urbanistica e piani regolatori») e 9 dello statuto speciale (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 145 del 2005). E, ove pur si dovesse ravvisare un eventuale obbligo di adeguamento, imposto dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), tale adeguamento dovrebbe comunque avvenire nelle forme e con le modalità di cui al citato art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992.

Orbene, si deve osservare che la disposizione censurata è già stata oggetto di scrutinio da parte di questa Corte nella sentenza n. 164 del 2012, in relazione a censure promosse da alcune Regioni a statuto ordinario e dalla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, nonché nella sentenza n. 203 del 2012, con riferimento a censure mosse dalla Provincia autonoma di Trento.

In particolare, con quest’ultima sentenza, la Corte ha così argomentato:

«“La segnalazione certificata d’inizio attività” (d’ora in avanti, SCIA) si pone in rapporto di continuità con l’istituto della DIA, che dalla prima è stato sostituito. La DIA “denuncia di inizio attività” fu introdotta nell’ordinamento italiano con l’art. 19 della legge n. 241 del 1990, inserito nel Capo IV di detta legge, dedicato alla “Semplificazione dell’azione amministrativa”. Successivamente, con l’entrata in vigore del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato, nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, essa assunse la denominazione di “dichiarazione di inizio attività”.

Scopo dell’istituto era quello di rendere più semplici le procedure amministrative indicate nella norma, alleggerendo il carico di adempimenti gravanti sul cittadino. In questo quadro si iscrive anche la SCIA, del pari finalizzata alla semplificazione dei procedimenti di abilitazione all’esercizio di attività per le quali sia necessario un controllo della pubblica amministrazione.

Il principio di semplificazione, ormai da gran tempo radicato nell’ordinamento italiano, è altresì di diretta derivazione comunitaria (Direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, attuata nell’ordinamento italiano con decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59). Esso, dunque, va senza dubbio catalogato nel novero dei principi fondamentali dell’azione amministrativa (sentenze n. 282 del 2009 e n. 336 del 2005)».

La citata sentenza n. 203 del 2012 così prosegue:

«Nella giurisprudenza di questa Corte si è più volte affermato che, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, la qualificazione legislativa non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza. Per individuare la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censura, non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all’oggetto e alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli effetti marginali e riflessi, in guisa da identificare correttamente anche l’interesse tutelato (ex plurimis: sentenze n. 207 del 2010; n. 1 del 2008; n. 169 del 2007; n. 447 del 2006; n. 406 e n. 29 del 1995).

In questo quadro, il richiamo alla tutela della concorrenza, effettuato dal citato art. 49, comma 4-ter, oltre ad essere privo di efficacia vincolante, è anche inappropriato. Infatti, la disciplina della SCIA, con il principio di semplificazione ad essa sotteso, si riferisce ad “ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale”, e per il quale “non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale”.

Detta disciplina, dunque, ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e perciò va oltre la materia della concorrenza, anche se è ben possibile che vi siano casi nei quali quella materia venga in rilievo. Ma si tratta, per l’appunto, di fattispecie da verificare in concreto (per esempio, in relazione all’esigenza di eliminare barriere all’entrata nel mercato).

Invece, a diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento all’altro parametro evocato dall’art. 49, comma 4-ter, del d.l. n. 78 del 2010, poi convertito in legge.

Detta norma stabilisce che la disciplina della SCIA, di cui al precedente comma 4-bis, costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Analogo principio, con riferimento alla DIA, era stato affermato dall’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), poi ancora modificato dall’art. 49, comma 4, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito in legge.

Tale autoqualificazione, benché priva di efficacia vincolante per quanto prima rilevato, si rivela corretta.

Al riguardo, va rimarcato che l’affidamento in via esclusiva alla competenza legislativa statale della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è previsto in relazione ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Esso, dunque, si collega al fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. La suddetta determinazione è strumento indispensabile per realizzare quella garanzia.

In questo quadro, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata disposizione costituzionale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto” (sentenze n. 322 del 2009; n. 168 e 50 del 2008; n. 387 del 2007).

Questo titolo di legittimazione dell’intervento statale è invocabile “in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione” (sentenza n. 322 del 2009, citata; e sentenze n. 328 del 2006; n. 285 e n. 120 del 2005), e con esso è stato attribuito “al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto” (sentenze n. 10 del 2010 e n. 134 del 2006).

Si tratta, quindi, come questa Corte ha precisato, non tanto di una “materia” in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, in relazione alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare in modo generalizzato sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle (sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).

Alla stregua di tali principi, la disciplina della SCIA ben si presta ad essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Tale parametro permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione. In particolare, “la ratio di tale titolo di competenza e l’esigenza di tutela dei diritti primari che è destinato a soddisfare consentono di ritenere che esso può rappresentare la base giuridica anche della previsione e della diretta erogazione di una determinata provvidenza, oltre che della fissazione del livello strutturale e qualitativo di una data prestazione, al fine di assicurare più compiutamente il soddisfacimento dell’interesse ritenuto meritevole di tutela (sentenze n. 248 del 2006, n. 383 e n. 285 del 2005), quando ciò sia reso imprescindibile, come nella specie, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa” (sentenza n. 10 del 2010, punto 6.3 del Considerato in diritto).

Orbene – premesso che l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di “prestazione”, della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale a fronte di uno specifico diritto di individui, imprese, operatori economici e, in genere, soggetti privati – la normativa qui censurata prevede che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale, possano iniziare una determinata attività (rientrante nell’ambito del citato comma 4-bis), previa segnalazione all’amministrazione competente. Con la presentazione di tale segnalazione, il soggetto può dare inizio all’attività, mentre l’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti legittimanti, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (trenta giorni nel caso di SCIA in materia edilizia), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salva la possibilità che l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione.

Al soggetto interessato, dunque, si riconosce la possibilità di dare immediato inizio all’attività (è questo il principale novum della disciplina in questione), fermo restando l’esercizio dei poteri inibitori da parte della pubblica amministrazione, ricorrendone gli estremi. Inoltre, è fatto salvo il potere della stessa pubblica amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Si tratta di una prestazione specifica, circoscritta all’inizio della fase procedimentale strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima»”. 

dott. Matteo Acquasaliente

C. Cost. n. 121 del 2014

Spetta al sindaco o al dirigente nominare l’avvocato per un processo?

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 1954 del 2014, dove si legge che: "2a Oppone la difesa di parte appellata che il Sindaco non sarebbe stato competente alla nomina del difensore, in quanto la relativa scelta ricadrebbe tra le attività gestionali di competenza dei dirigenti dell’Amministrazione, e segnatamente del capo dell’ufficio legale. L’eccezione è priva di pregio.

2b La Sezione deve preliminarmente rilevare, alla stregua di una consolidata giurisprudenza civile, che l’atto di riassunzione del processo interrotto non ha natura di atto introduttivo di un nuovo giudizio: non dà vita, cioè, ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere questo dallo stato di  quiescenza in cui versa, rimanendo però in vita in forza dell’originaria domanda giudiziale. Onde il compimento dell’atto di riassunzione non esige il conferimento di una nuova procura ad litem, che del resto non compare tra le componenti dello stesso atto indicate dall’art. 125, n. 2, disp. att. c.p.c. (Cass. civ., Sez. I, n. 14100 del 23 settembre 2003; Sez. II, n. 4045 del 16 aprile 1991; Sez. III, n. 6888 dell’11 agosto 1987). Da qui l’irrilevanza pratica della supposta illegittimità del nuovo mandato.

2c Fermo questo aspetto, vale però soprattutto osservare, sul merito della questione posta, quanto segue. Il decreto sindacale con il quale sono state disposte la riassunzione del giudizio e la conferma dell’incarico professionale di difesa dell’Ente pone a proprio fondamento l’art. 70, comma 2, dello Statuto comunale. E la difesa comunale ha fatto notare, senza incontrare obiezioni sul punto, che tale norma statutaria conferisce al Sindaco, con la rappresentanza legale dell’Ente, il potere di promuovere e resistere alle liti ed i correlativi poteri di conciliare, rinunciare, transigere e di conferire la procura alle liti, sentiti facoltativamente la Giunta o il dirigente competente a seconda che si verta in materia di atti di governo o di gestione. La norma statutaria legittima, quindi, la competenza sindacale in materia. Questa conclusione è inoltre avvalorata dalla sovraordinata normativa generale, nell’interpretazione comunemente datane dalla Sezione. La posizione della Sezione sul tema è stata ricordata con chiarezza, di recente, dalla decisione 7 febbraio 2012 n. 650, con la quale è stato  rilevato che “la decisione di agire e resistere in giudizio ed il conferimento del mandato alle liti competono in via ordinaria e salva deroga statutaria, al rappresentante legale dell'ente, senza bisogno di autorizzazione della giunta o dei dirigente competente ratione materiae (C.d.S., sez. V, 18 marzo 2010, n. 1588; 7 settembre 2007, n. 4721, 16 febbraio 2009, n. 848; sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 4744; 9 giugno 2006, n. 3452; Cass. civ. sez. I, 17 maggio 2007, n. 11516), ferma restando tuttavia la possibilità dello statuto (competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio) di prevedere l'autorizzazione della giunta (ovvero di richiedere una preventiva determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare l'uno e l'altro intervento) (Cass. SS.UU., 16 giugno 2005, n. 12868).” Poco dopo, questa stessa Sezione con la decisione 11 maggio 2012 n. 2730 ha specificamente disatteso la tesi che vedrebbe attribuito al dirigente ratione materiae il compito di scegliere il legale e, comunque, di autorizzare il conferimento del relativo patrocinio, osservando nell’occasione quanto segue: “La Sezione non ravvisa ragione di discostarsi dall'orientamento interpretativo secondo cui compete al Sindaco o al Presidente della Provincia, ai sensi del D.lgs. n. 267/2000, quale organo di rappresentanza dell'ente, il conferimento della procura alle liti del difensore senza la necessità di alcuna preventiva autorizzazione (Cons. St., Sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 4744; Cons. St., Sez. VI, 9 giugno 2006, n. 3452; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 dicembre 2006 n. 10402; Cass. civ., Sez. Un., 10 dicembre 2002, n. 17550).” 

2d Per quanto precede l’eccezione si manifesta infondata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1954 del 2014

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