Author Archive for: SanVittore

Corso sugli appalti delle pubbliche amministrazioni

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona organizza un Corso di Perfezionamento ed Aggiornamento Professionale per approfondire le problematiche concernenti i contratti di lavori, servizi e forniture conclusi dalle pubbliche amministrazioni.

La docenza è affidata a: Consiglieri di Stato, Consiglieri TAR, Professori universitari, avvocati amministrativisti e Dirigenti di enti pubblici. 

BROCHURE

PROGRAMMA

Piani di lottizzazione: standards urbanistici e monetizzazione

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1820 del 2014, che ricostruisce il quadro normativo di riferimento della monetizzazione degli standars.

Si legge nella sentenza: "la disposizione regionale costituisce svolgimento della vicenda normativa relativa agli standards urbanistici come definiti dalla disposizione statale dell'art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, come introdotto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (in relazione alla quale è stato poi emanato il d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, a seguito del trasferimento alle regioni delle relative competenze ex art. con l’art. 1 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 e dei successivi artt. 79 e 80 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, attuativi della previsione dell'art. 118 Cost. relativo all'attribuzione alle regioni delle funzioni amministrative nelle materie di legislazione concorrente ex art. 117 (all'origine con riferimento alla "urbanistica", a seguito della novella di cui all'art.. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 in relazione al "governo del territorio"). Peraltro assume rilievo anche l'art. 28 della legge n. 1150/1942, a sua volta modificato dall'art. 8 della legge 765/1967, che individua il contenuto minimo essenziale delle convenzioni di lottizzazione, tra cui la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e della quota parte delle aree per le opere di urbanizzazione secondaria. In linea generale, è evidente che la regola è costituita dalla cessione gratuita delle aree, che consente di reperire le aree a standards in loco e quindi di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato, costituendo la c.d. monetizzazione una eccezione e non risolvendosi la medesima in "...una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera...", poiché non può ammettersi separazione tra "...i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita (dei residenti della zona)...", ciò che fonda il riconoscimento della legittimazione processuale di questi ultimi a dolersi della violazione della misura degli standards (in tal senso, tra le più recenti vedi Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2013, n. 644). Peraltro, laddove la legislazione regionale autorizzi la monetizzazione è del tutto evidente che il vantaggio patrimoniale riveniente al privato -consistente nell'utilizzazione edilizia di aree altrimenti da cedere gratuitamente, con incremento dei volumi realizzabili e quindi anche dei  valori economici ritraibili-, possa trovare, proprio sul piano della corrispettività, un punto di equilibrio nella loro commisurazione al valore di mercato delle aree aggiuntive così rese edificabili, che in sostanza sono per dir così "cedute" (in termini planovolumetrici di diritti edificatori, altrimenti preclusi dall'obbligo di cessione) dalla comunità locale. Come è stato già chiarito da questa Sezione è affatto logico che "...il riferimento sia costituito dal valore delle aree che si sarebbero dovute cedere e che non sono state cedute, ed è ragionevole che le somme giungano ad importi anche molto consistenti, avuto riguardo all’elevato valore che le aree avrebbero in una libera contrattazione di mercato, del resto pari a quelle che il promotore lucrerà grazie allo sfruttamento edilizio ed alla commercializzazione degli immobili edificati sulle aree non cedute" (cfr. Sez. IV, 22 febbraio 2013, n. 1106, in fattispecie relativa all'art. 32 della legge regionale veneta 23 aprile 2004, n. 11, peraltro ben più generica della disposizione dell'art. 46 della legge regionale lombarda in esame, perché contenente mero riferimento generico alla "monetizzazione"). Né può sostenersi che la monetizzazione possa essere arbitrariamente imposta al privato -che invece preferisca cedere le aree a standards, e in disparte la circostanza che nel caso di specie essa è stata richiesta e consentita-, senza alcun limite posto che l'art. 46 precisa in modo del tutto chiaro i suoi presupposti, dovendo essa trovare giustificazione obiettiva, ovvero dovendo l'Amministrazione dar conto delle sue ragioni (nel senso che essa non risulti possibile -ad esempio per penuria degli spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione  alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento), a cospetto delle quali l'interessato potrà tutelarsi in sede giurisdizionale, contestandole. In altri termini, nel caso di specie, né può sostenersi che l'istituto in se considerato, e/o anche in relazione al criterio della "commisurazione" ivi enunciato costituisca prestazione patrimoniale di natura tributaria e/o paratributaria imposta, in violazione degli artt. 23 e 53 Cost., né essa può ritenersi contrastante con gli altri parametri costituzionali invocati (art. 3 e 97 Cost., art. 117 Cost., art. 41 e 42 Cost.), non risolvendosi nell'attribuzione alle Amministrazioni comunali di poteri discrezionali irragionevoli, arbitrari e/o non delimitati, né in alcuna forma di "espropriazione" senza indennizzo o di limitazione arbitraria all'iniziativa economica privata, e non esulando affatto la disposizione dall'ambito dei poteri legislativi regionali, né ponendosi in contrasto con principi fondamentali rivenienti dalla legislazione statale (che non esclude affatto la c.d. monetizzazione)".

Dario Meneguzzo - avvocato

Le slides del convegno del 30 aprile sulle strade

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Pubblichiamo le slides commentate al convegno del 30 aprile dall'ing. Sandro D'Agostini (Responsabile della sezione operativa di Belluno di Veneto Strade spa) e dall'avv. Paolo Balzani (Dirigente della Avvocatura Provinciale di Vicenza), ringraziando sentitamente gli autori.

VICENZA 30.11.2014

Strade_Convegno Montecchio Maggiore DEF

Scadenza del termine per concludere un procedimento

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Nella sentenza del TAR Veneto n.  543 del 2014, il Collegio si sofferma anche sulla natura non perentoria dei termini di conclusione dl procedimento amministrativo: “Premesso, invero che costituisce principio generale quello secondo cui, qualora i termini del procedimento amministrativo non siano espressamente dichiarati perentori dalla legge, devono essere considerati ordinatori (cfr., ex multis, CdS, IV, 3.4.2009 n. 2110), il termine per la conclusione del provvedimento di cui agli artt. 2 della legge n. 241/1990 e 60 della LR n. 61/1985 sono sollecitatori, con la conseguenza che la loro mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del provvedimento finale, nè esaurisce il potere dell'Amministrazione di provvedere (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.6.2013, n. 3172; sez. VI, 27.2.2012, n. 1084)” sia sull’organo competente a verificare l’applicazione delle c.d. misure di salvaguardia: “l’infondatezza della censura con cui il ricorrente afferma l’illegittimità dell’impugnato provvedimento per incompetenza del soggetto che l’ha adottato è, invece, conseguente alla considerazione che – come correttamente osservato dall’Amministrazione – ai sensi dell’art. unico della legge n. 1902 del 1952 (abrogata dall’art. 24 del DL n. 11272008 e, per ciò, vigente all’epoca dei fatti) l’applicazione delle misure di salvaguardia spettava al Sindaco: con l’entrata in vigore della legge n. 142/1990, poi, tale competenza – inerendo all’attività gestoria del Comune - è pacificamente passata alla figura dirigenziale (cfr. CdS, IV, 6.3.1998 n. 382)”.

dott. Matteo Acquasaliente

L’acquiescenza a un provvedimento amministrativo rileva sia sul piano sostanziale sia su quello processuale

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 28 aprile 2014 n. 543, si occupa dell’istituto dell’acquiescenza: “Va da sè che il ricorrente non può, dopo aver acconsentito alla sospensione di un procedimento amministrativo, impugnare quella stessa sospensione in virtù della regola (canonizzata dall’art. 2 della legge n. 241/1990) che impone la conclusione del procedimento.

E’ nota, invero, la non perspicua delineazione sistematica dell’istituto dell’acquiescenza, privo, nel diritto amministrativo, di un ancoraggio di diritto positivo, che viene dunque rinvenuto nella norma dell’art. 329 del c.p.c., dettata in materia di impugnazioni.

In particolare, sebbene emerga in dottrina la consapevolezza che l’acquiescenza, pur provocando effetti processuali (id est: l’inammissibilità del ricorso) ha implicazioni di diritto sostanziale, peraltro ne rimane incerta la natura, come è chiaramente testimoniato dalla pluralità delle teorie formulate (che configurano l’istituto in esame in termini di "rinuncia al diritto di impugnazione", ovvero di "accettazione del provvedimento amministrativo", od ancora, senza pretesa alcuna di esaustività, come "dismissione dell’interesse legittimo").

A fronte di tale incertezza dogmatica si riscontra, peraltro, nell’applicazione pratica, il ricorso all’acquiescenza in tutti i casi in cui, nel comportamento del ricorrente, siano rinvenibili elementi che si pongano in contraddizione, o comunque in rapporto di non coerenza con la proposizione del gravame.

Ora, nel caso di specie, è indubbio che il comportamento tenuto dal ricorrente ed obiettivizzato nell’adesione alla proposta dell’Amministrazione comunale di trattare la cessione del bene preliminarmente all’avvio del procedimento di approvazione del piano di recupero, non sia coerente con le censure dedotte con il presente gravame (con cui si denuncia il mancato rispetto della conclusione di quello stesso procedimento che si è concordato di differire).

Né vale a sminuire tale contraddizione l’assunto, espresso dal ricorrente nella memoria 27.3.2013, secondo cui “la sospensione del procedimento non è prevista da alcuna norma”: se ciò è vero, infatti, è altresì vero che l’interessato, anzichè prestare acquiescenza alla sospensione – con ciò, come si è detto, frapponendo un insormontabile ostacolo alla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso la mancata conclusione del procedimento -, doveva interrompere le trattative in corso (onde non palesare ambiguità) e promuovere, per far constatare l’illegittimità dell’inerzia serbata dall’Amministrazione, formale diffida e messa in mora del Comune in ordine all’esame del progetto di piano, così come tassativamente imposto (all’epoca) dall’art. 25 del D.P.R. n. 3 del 1957 (cfr. CdS, 4.9.2006 n. 5088)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 543 del 2014

 

Come si effettua la rinuncia al ricorso?

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 28 aprile 2014 n. 550, si occupa della rinuncia del ricorso chiarendo che: “2. Come prevede espressamente l’art. 84 del codice del processo amministrativo, “la parte può rinunciare al ricorso in qualunque stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall'avvocato munito di mandato speciale e depositata nella segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale.

Il rinunziante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo ad ogni circostanza, ritenga di compensarle.

La rinunzia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse non si oppongono, il processo si estingue”.

3. L’abbandono del ricorso è quindi rimesso integralmente a colui che agisce, ed è sottoposto alle sole condizioni della provenienza dalla parte, o dal suo procuratore all’uopo espressamente autorizzato, e dell’intervenuta conoscenza della controparte dell’atto di rinuncia, conoscenza da conseguirsi in modo formale (e quindi con notifica o dichiarazione agli atti, come indica la norma, ma anche mediante altre forme equipollenti, quali il deposito in udienza dell'atto di rinuncia sottoscritto dalla parte personalmente, ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 244; o anche con dichiarazione sottoscritta dalla ricorrente e, per adesione, anche dalle difese della altre parti costituite)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto sentenza n. 550 del 2014

Chi è il “responsabile” di un abuso edilizio

05 Mag 2014
5 Maggio 2014

Segnaliamo su questa questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 2027 del 2014, dove si legge che: "Tenuto conto di quanto già rappresentato, appare evidentemente infondata anche la prima censura, in cui la società appellante contesta la propria legittimazione passiva in ordine alla misura repressiva impugnata, emessa dall’Amministrazione comunale il 14.3.2012 e notificata il 16.3.2012. Posto, infatti, che i presupposti di legittimità dei provvedimenti amministrativi debbono essere verificati in base alla situazione di fatto e di diritto, sussistente alla data della relativa emanazione, nessun dubbio appare prospettabile su detta legittimazione passiva, risultando la società cooperativa La Colonna titolare della detenzione qualificata del bene alla data di emanazione dell’atto impugnato (in quanto cessionaria dal 2007 del ramo di azienda, inerente all’attività di ristorazione svolta nei locali di cui trattasi), con presumibile effettuazione dei lavori abusivi – in base ai ricordati verbali di sopralluogo successivi al 2010 – a cura della stessa (non essendo ragionevolmente individuabili alternative, una volta esclusa l’identificabilità del nuovo manufatto con il pergolato, oggetto di autorizzazione stagionale nel 2000 e nel 2001). Le norme sanzionatorie si riferiscono, d’altra parte, non all’”autore”, ma al “responsabile” dell’abuso, tale dovendo intendersi non solo l’esecutore materiale, ma anche il proprietario o chi – avendo la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva – possa consentire, o meno, la permanenza sul territorio di opere senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche su quello della responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, che l’Amministrazione è tenuta a far valere nei confronti dei soggetti in grado di operare in tal senso, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, ove estranei all’abuso, nei confronti degli esecutori materiali, sulla base dei rapporti interni intercorsi (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 8.6.1994, n. 614 e Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.7.1992, n. 229). Nella situazione in esame, per quanto già in precedenza illustrato, il provvedimento risulta emesso, in data 14.3.2012, nei confronti del responsabile dell’abuso (oltre che unico ipotizzabile esecutore materiale dei lavori) e deve quindi  ritenersi legittimamente adottato, anche se il successivo subentro nella detenzione del bene, in data 30.10.2012, di altro soggetto cessionario del ramo di azienda rende necessario estendere a quest’ultimo (P.E.M. di Colonnesi Paola & C. s.n.c.) la notifica della misura repressiva. Sembra quasi inutile sottolineare, in rapporto a quanto rappresentato, l’infondatezza delle prospettate censure di violazione di legge, risultando inconferente il richiamo all’art. 29 del d.P.R. n. 380/2001 (responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività), trattandosi nella fattispecie di opere eseguite senza titolo ed essendo a tali opere applicabile l’art. 31 del medesimo d.P.R., al cui contenuto corrisponde puntualmente l’art. 132 della legge regionale n. 1/2005 (Norme per il governo del territorio della Regione Toscana), con conseguenze sanzionatorie poste appunto a carico del “responsabile dell’abuso” (con possibile esonero da responsabilità, come chiarito dalla giurisprudenza, solo in rapporto all’acquisizione gratuita dell’area di sedime, per il proprietario estraneo all’abuso e privo della disponibilità del bene per ottemperare all’ordine di demolizione)".

sentenza CDS 2027 del 2014.

Dario Meneguzzo - avvocato

 

Da quando decorre per il confinante il termine per impugnare il titolo edilizio del vicino

05 Mag 2014
5 Maggio 2014

Segnaliamo sulla, questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 1951 del 2014: "4.- E’ fondata l’eccezione di tardività del ricorso n. 23 del 1986, con il quale R.  ha chiesto l’annullamento della concessione edilizia n. 56/84. Risulta che detta concessione edilizia, relativa alla realizzazione di una piscina su lotto limitrofo di proprietà di P. e G., fu rilasciata dal Sindaco di Maratea in data 12 dicembre 1984. I lavori furono ultimati nella primavera del 1985 e di ciò era a conoscenza la ricorrente che nell’esposto - denuncia inviato al Pretore di Lauria, affermava che “nella primavera del 1985, i coniugi P. – G. completavano nella loro proprietà la costruzione di una piscina parzialmente sopraelevata sulla quota di campagna e circondata da un ampio solarium sotto cui erano stati ricavati ambienti di uso non noto e muniti di porta di accesso e di finestre…”. Inoltre la ricorrente depositava a corredo dell’esposto - denuncia un’ampia documentazione fotografica dello stato dei luoghi, risalente al tempo in cui i lavori erano in corso. Esiste dunque certezza, atteso il valore confessorio dell’esposto – denuncia che la ricorrente sicuramente dalla primavera del 1985, ma già in data antecedente, era a conoscenza dell’effettuazione di lavori edilizi nel lotto limitrofo. E’ principio giurisprudenziale pacifico quello secondo cui ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione del titolo abilitativo rilasciato a terzi, la piena conoscenza dell’atto deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori, oppure al momento in cui la costruzione realizzata rivela in modo certo ed in equivoco le essenziali caratteristiche dell’opera per un’eventuale non conformità urbanistico –  edilizia della stessa (cfr. per tutte, Cons. Stato, Sez. IV, 23 settembre 2011, n. 5346; 24 gennaio 2013, n. 433; 21 gennaio 2013, n. 322). Nel caso, la non conformità edilizia risultava sin dall’avvio dei lavori, atteso che la ricorrente ha lamentato la violazione delle NTA con riguardo agli indici edilizi, assumendo che la volumetria edificabile in quel lotto era completamente esaurita, sicché nessun intervento edilizio era più possibile. La situazione di fatto e la piena conoscenza del momento di ultimazione dei lavori è equivalente, ai fini dell’impugnazione, alla conoscenza della concessione edilizia, non essendo in alcun modo differibile il termine di impugnazione imposto dalla norma processuale a pena di decadenza. Nemmeno la qualificazione della violazione edilizia come reato permanente o illegittimità permanente influisce sulle regole processuali che stabiliscono termini di decadenza per l’esercizio dell’azione giurisdizionale volta all’annullamento degli atti amministrativi illegittimi. Peraltro, la previsione abbastanza elastica dell’art. 41 del c.p.a. e prima dell’art. 21 della l. n. 1034 del 1971, che àncora il termine iniziale alla piena conoscenza, consente all’interessato di avvalersi di una dilatazione dei termini, che nel caso erano abbondantemente decorsi al momento della notifica del ricorso. Erroneamente, quindi, il giudice di primo grado ha respinto l’eccezione di tardività del ricorso, sull’assunto della necessità della piena conoscenza del titolo ai fini della proposizione della domanda giudiziale, mentre la ricorrente era a conoscenza da tempo risalente dell’esecuzione dei lavori nel lotto attiguo".

Dario Meneguzzo - avvocato

Quando l’irregolarità del D.U.R.C. determina la revoca dell’aggiudicazione definitiva?

05 Mag 2014
5 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 28 aprile 2014 n. 548, chiarisce che è legittima la revoca dell’aggiudicazione definitiva qualora la stazione appaltante accerti che il D.U.R.C.,  prodotto dalla ditta aggiudicataria e riguardante un arco temporale antecedente all’aggiudicazione definitiva, contenga un’irregolarità contributiva: “7.2.1. L’irregolarità contributiva sulla quale si fonda la revoca impugnata non è riferita ad un periodo successivo a quello dell’aggiudicazione: è infatti un dato oggettivamente incontrovertibile che il DURC del 14 giugno 2012 attesti una situazione di irregolarità contributiva verso l’INPS ammontante a 85.000 euro “al 23 maggio 2012”.

7.2.2. La data del 23 maggio 2012 riguarda evidentemente il momento (questo sì) “puntuale” del riscontro dell’irregolarità, non già quello dell’inadempimento che si riferisce pacificamente a periodi antecedenti sia l’aggiudicazione definitiva sia la data stessa di presentazione della domanda di partecipazione alla gara.

7.3. Orbene non può dubitarsi che il requisito della regolarità dei versamenti contributivi (rilevante ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 38, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 163 del 2006) debba essere non solo sussistente al momento della presentazione della domanda di partecipazione così come dell’aggiudicazione, ma anche conservato per tutta la durata della procedura di gara, sino alla stipula del contratto (ed anche nel corso del successivo svolgimento del rapporto contrattuale con l’Amministrazione), senza alcuna soluzione di continuità.

7.3.1. Diversamente opinando, ossia valutando la sussistenza del requisito della regolarità contributiva unicamente con riferimento a periodi “puntuali” della procedura e in ogni caso “arrestandosi” al momento dell’aggiudicazione, sebbene in pendenza della stipula del contratto, risulterebbero invero legittimati comportamenti elusivi del rispetto degli obblighi imperativi ed inderogabili alla cui tutela è preordinato il requisito medesimo.

7.3.2. Ebbene dalla documentazioni in atti risulta accertata una serie di violazioni dell’obbligo di pagamento degli oneri contributivi che vanno dal periodo antecedente al termine per la presentazione della domanda di partecipazione a tutto l’arco temporale di svolgimento della procedura di gara in quanto relative, per quel che interessa la presente causa, ai mesi di settembre e ottobre 2011, nonché gennaio, marzo, aprile, maggio e giugno 2012.

7.4. Né una regolarizzazione postuma della posizione contributiva potrebbe far ritenere sussistente in via retroattiva il requisito in esame: posto che la sussistenza di detto requisito deve essere verificata con riferimento a tutto l’arco temporale inerente alla procedura di gara, a nulla potrebbe rilevare una regolarizzazione successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell’impresa con l’ente previdenziale (esplicando effetti fra i soggetti del rapporto obbligatorio), non potrà però in alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto dell’irregolarità rilevante nei confronti dell’Amministrazione ai fini della singola gara. E tanto vale, quindi, per la regolarizzazione “postuma” avvenuta nel caso concreto in data 15 giugno 20012 (cfr. Consiglio di Stato, IV, 12 marzo 2009 n. 1458; VI, 11 agosto 2009, n. 4928; 6 aprile 2010, n. 1934; 5 luglio 2010, n. 4243; V, 16 settembre 2011, n. 5194 del 2011).

7.4.1. Peraltro, neanche l’omessa iscrizione a ruolo dei crediti contributivi dell’ente previdenziale impedisce la loro valorizzazione alla strega di “violazioni definitivamente accertate”, dal momento che l’emissione del ruolo è semplicemente prodromica alla fase di riscossione, ed il medesimo non svolge una funzione di accertamento. Del resto, l’art. 8, comma 2, del D.M. 24 ottobre 2007 àncora la possibilità di ottenere una certificazione di regolarità contributiva, a fronte di crediti non iscritti a ruolo, solo al ricorrere dell’ulteriore presupposto (qui insussistente) che sia pendente in merito una controversia.

7.4.2. Pertanto, in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr TAR Lazio, Roma, 29 ottobre 2013, n.9216 e Consiglio di Stato, sez. V, 16 settembre 2011, n. 5194), lo stato di “definitivo accertamento” delle violazioni contributive può essere rinvenuto in tutte le situazioni caratterizzate dalla non pendenza di ricorsi amministrativi o giurisdizionali, né del termine per esperirli. Sicché, in conclusione la possibilità di ravvisare l’esistenza del requisito di “definitività” non è necessariamente impedita dalla –asserita– omessa notifica di un avviso di accertamento riflettente i debiti contributivi che sono comunque emersi così come dall’ – asserita– mancanza dell’instaurazione del contraddittorio pre-esecutivo.

7.4.3. Ebbene, emerge documentalmente come (nel caso in esame) non fosse stato attivato da parte dell’impresa alcun tipo di tutela al fine di contestare l’an o il quantum dei propri debiti contributivi; ed anzi proprio dal contegno tenuto successivamente dalla società (che ha pagato la somma riconosciuta nel DURC) deve trarsi una sostanziale “non contestazione” delle proprie passività. Sicché anche tale profilo di censura deve essere respinto.

7.5. Quanto alla lamentata assenza del carattere della “gravità” delle violazioni il Collegio osserva che, nello specifico, l’esposizione della società nei confronti dell’INPS era alquanto consistente, come lo stesso provvedimento di revoca ha sottolineato, in quanto ammontante a 85.000 euro, laddove l’art. 8, comma 3, del D.M. 24 ottobre 2007 definisce come “non grave” (e quindi non ostativo al rilascio del D.U.R.C.) lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate, rispetto a ciascun periodo di paga o contribuzione, inferiore o pari al 5 % , o comunque inferiore ad euro 100.

7.5.1. Peraltro, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in sede di applicazione dell’art. 38, co. 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, la sussistenza di una “violazione grave”, definitivamente accertata, delle disposizioni in materia previdenziale e assistenziale non può essere valutata caso per caso dalla stazione appaltante, poiché la relativa verifica rientra nell’ambito delle competenze degli istituti di previdenza, le cui certificazioni (sul D.U.R.C.) non possono essere sindacate nel corso della gara d’appalto (A.P. 2012, n. 8).

7.5.2. La dichiarazione di irregolarità espressa dagli enti previdenziali interessati implica infatti anche l’avvenuta verifica della gravità dei relativi scostamenti, in quanto il citato decreto ministeriale ha attribuito al D.U.R.C. l’idoneità ad attestare anche l’entità dell’inadempimento degli obblighi contributivi, dando conto delle sole irregolarità tali da superare la delineata soglia di gravità”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 548 del 2014

La natura giuridica delle SOA

05 Mag 2014
5 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 22 aprile 2014 n. 2029, si occupa della natura giuridica delle Società Organismi di Attestazione (SOA): “Le società organismi di attestazione (SOA) sono per espressa previsione normativa (art. 2, comma 1, lettera “i” d.P.R. n. 34/2000 cit) “organismi di diritto privato…che accertano ed attestano l’esistenza, nei soggetti esecutori di lavori pubblici, degli elementi di qualificazione di cui all’art. 8, comma 3, lettera c) ed eventualmente lettere a) e b) della legge” (intesa come legge 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modificazioni). Detti organismi, costituiti nella forma delle società per azioni, debbono svolgere in via esclusiva l’attività sopra specificata ed assicurare, nell’esercizio della stessa, indipendenza di giudizio, nonché assenza di qualunque interesse commerciale, quale fonte potenziale di conflitto di interessi. Non può porsi in dubbio, pertanto, che le società in questione svolgano una funzione pubblica, con rilascio di atti, cui è attribuita la stessa valenza certificativa di quelli rilasciati da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 445/2000 (da intendersi riferito anche alle attestazioni di qualità, secondo i criteri fissati dal d.P.R. 5.10.2010, n. 207: cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 19.1.2007, n. 121 e 4.7.2012, n. 3905). Per l’esercizio della funzione pubblica in questione, assegnata dalla legge, non possono pertanto non applicarsi alle SOA, ad avviso del Collegio, le garanzie e le responsabilità previste per le pubbliche amministrazioni, a partire da quelle, in precedenza indicate, che attengono ai controlli sulle autocertificazioni. In presenza di un obbligo di verifica, al riguardo previsto solo “a campione” (con conseguente, fisiologica possibilità di casi che sfuggissero al controllo), con più puntuale obbligo verifica solo per situazioni, in cui fossero emersi “fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive”, le conclusioni tratte nella fattispecie dall’Autorità di Vigilanza (AVCP) non appaiono condivisibili, non essendo stata segnalata alcuna circostanza, che dovesse suscitare particolari dubbi nella SOA di cui trattasi, nei confronti delle dichiarazioni di un proprio consigliere di amministrazione”.

Assodato ciò il Collegio prosegue affermando che: “Come sostenuto dall’attuale appellante, infatti, nessuna disposizione, anche interna, imponeva specifiche e tassative modalità di controllo su tutte le autocertificazioni, con conseguente possibilità che le dichiarazioni non veritiere – rese, nel caso di specie, dall’ing. Artale – non trovassero puntuale verifica e fossero, in buona fede, ritenute corrette dall’Ente di appartenenza, che non poteva pertanto essere destinatario di sanzioni, applicabili solo in caso di condotta quanto meno colposa dell’Ente stesso (benchè quest’ultimo fosse ad avviso del Collegio – per la qualificazione giuridica già sopra esposta e contrariamente a quanto sostenuto nell’atto di appello – abilitato a richiedere i certificati, di cui all’art. 28 del d.lgs. 14.11.2002, n. 311: testo unico delle disposizioni legislative in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti).

In tale contesto la determinazione n. 1/2011 della più volte citata AVCP non poteva, in effetti, rivestire carattere innovativo in rapporto a norme di rango primario, come quelle in precedenza esaminate, ma doveva ritenersi chiarificatrice dei criteri di diligenza, da ritenere idonei ad escludere il carattere colposo di eventuali omissioni nei controlli. Il fatto, tuttavia, che detta disposizione chiarificatrice (riferita all’esigenza di periodiche richieste all’Ufficio del Casellario giudiziale dei certificati integrali, riferiti alle persone fisiche oggetto di controllo, ivi comprese – deve ritenersi – quelle operanti all’interno della stessa SOA) fosse successiva alla condotta nella fattispecie sanzionata induce a ravvisare l’assenza di colpa, nella comune accezione (ripresa dall’art. 43, comma 3, cod. pen.) che individua la stessa come frutto di “negligenza o imperizia”, ovvero ad “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Se, d’altra parte, non può negarsi che la citata Autorità potesse dettare disposizioni cogenti, per circoscrivere i parametri della colpa nell’attività degli enti sottoposti al proprio controllo, è anche indubbio che detti parametri non potessero applicarsi retroattivamente.

Appare arduo individuare, in tale ottica, una violazione degli obblighi posti a carico delle SOA dal d.P.R. n. 34/2000, in mancanza di elementi probatori atti a far desumere l’intenzione dell’appellante di sottrarsi al rapporto collaborativo con l’Autorità di vigilanza, a garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’attività di certificazione svolta, non essendo intervenute violazioni di obblighi predeterminati di accertamento, né mancata risposta a specifiche richieste della medesima Autorità, ex art. 7, commi 5, 8 e 9, del più volte citato d.P.R. n. 34/2000 (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. VI, 28.3.2008, n. 1272).

Il Collegio ritiene quindi che, nel caso di specie, le misure sanzionatorie impugnate non fossero applicabili, per impossibilità di identificare gli estremi di una condotta colposa, in base alla disciplina vigente nel lasso temporale di riferimento”.

 dott. Matteo Acquasaliente

CDS n. 2029 del 2014

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