Lo spunto del sabato: beati i poveri?
Che l'Italia si stia impoverendo è evidente: lo Stato, anche a causa di una tassazione dissennata, ma non solo per questo motivo, sta drenando e dissolvendo la ricchezza del popolo, senza produrre nuovo benessere e nuovo sviluppo. Si nota, infatti, la spiacevole evidenza che numerosi detentori di pubblici poteri li stanno esercitando in modo meccanico e violento, con un notevole supponente disinteresse per le conseguenze che produrranno nella vita e nel patrimonio degli individui e delle comunità. Insomma sembra che l'ideologia professata da numerosi potenti sia un asserito ossequio alla prima delle beatitudini evangeliche, intesa come "beati i poveri tout court" (preferibilmente riferita agli altri piuttosto che a se stessi).
Ma il Vangelo propone la povertà ed esalta la miseria?
Come ho fatto in altre occasioni, propongo un brano tratto da una conferenza dell'esegeta biblico padre Alberto Maggi.
Dalla trascrizione della conferenza "le beatitudini via per le pace" del 2011: "Sono più di trent’anni che studio e divulgo il Vangelo ed è sempre con un senso di frustrazione che vedo come le beatitudini siano le grandi assenti nella conoscenza religiosa dei cristiani. Tutti conoscono i comandamenti. Tutti sanno che sono dieci. Magari fanno un po’ di confusione…ma provate a chiedere qualcosa riguardo alle beatitudini, quante e quali sono. La prima – la più antipatica - la conoscono tutti: “Beati i poveri”. E per il resto? Sembra che Gesù abbia beatificato tutti gli “sfigati” dell’umanità: tutte situazioni di disgrazia, di sofferenza che nessuna persona che ragioni con un po’ di cervello spera che si realizzi nella propria vita! Ma chi è quel pazzo che spera di essere povero, afflitto, affamato o nel pianto? Chiunque speri qualcosa del genere è un pazzo! In che consiste allora la beatitudine? Come fa Gesù a dire che sono beati i poveri, gli afflitti, gli affamati? Come fa a dire una cosa del genere?
Voi sapete che la religione proprio a causa del brano delle beatitudini è stata denunciata come “oppio dei popoli” cioè una sostanza che tramortisce e addormenta le persone. Ai poveri, agli affamati, ai diseredati di questa terra si dice che la loro è una condizione di felicità (perché questo significa beati) ma.. dov’è questa beatitudine?
La religione risponde “siete beati perché andate in paradiso”. E i poveri (che sono poveri ma non stupidi) vedono che i ricchi non solo stanno bene di qua ma hanno tanti soldi da lasciare per farsi celebrare tante messe quando muoiono e così gli passano davanti pure di là! Questa interpretazione è stato il fallimento del messaggio di Gesù, un’autentica disgrazia nella spiritualità cristiana. I poveri, gli affamati, gli afflitti alla prima occasione che avevano nella vita per uscire dalla loro sofferenza non esitavano a farlo. Immaginiamo un povero che vince alla lotteria e la va ad incassare…”Attento che se la incassi non sei più beato!” . “Ah no? Beh, la lascio tutta a te la beatitudine. Prenditela pure tutta!”. Sembra che Gesù abbia beatificato i disgraziati dell’umanità con la promessa ipotetica che di loro sarebbe stato il paradiso. Quindi la religione come oppio dei popoli. Questo è drammatico..
Vedremo infatti - questa sera - che le beatitudini sono tutt’altro che l’oppio dei popoli; sono l’adrenalina dei popoli, sono il motore di cambiamento di questa società. Non sono un messaggio per l’aldilà ma un messaggio per il di qua. Vediamo allora questo testo che è un capolavoro, non solo teologico, spirituale, ma anche letterario dell’evangelista. Leggiamo il cap. V di Matteo, facendo attenzione ad ogni minimo particolare, anche a quelli che di per se non ci sembrano rilevanti per la comprensione del testo. In realtà sono di grande importanza teologica e spirituale.
“Vedendo le folle” : la buona notizia è dilagata, le folle sono entusiaste. Scoprono un Dio diverso da quello che era stato loro imposto. E’ un Dio che ha a cuore la felicità degli uomini. E non c’è niente da fare. Potranno dire di Gesù che è un bestemmiatore, un indemoniato.. la gente sa percepire e quando sente formulare la risposta al desiderio di pienezza di vita sa rispondere.
“Gesù salì su il monte”: il monte, con l’articolo determinativo, significa un monte già conosciuto, non un monte qualunque. Che monte è? Bisogna comprendere il piano dell’evangelista. Matteo scrive per dei giudei che hanno accolto e conosciuto in Gesù il Messia ma a condizione che sia sulla linea di Mosè, il grande profeta e legislatore. Matteo allora compie una grande opera letteraria e ricalca la vita di Mosè presentando quella di Gesù: Mosè deve la sua salvezza ad un intervento divino che lo fece scampare alla strage di tutti i maschi ebrei ordinata dal faraone ed ecco perché solo in Matteo si legge la strage dei bambini di Betlemme.
Mosè riceve da Dio le tavole dell’alleanza sul monte Sinai ed ecco perché Gesù che è Dio sale sul Monte e presenta la nuova alleanza. Allora “il monte”, simbolicamente, è il monte Sinai cioè il monte dove Dio ha concesso la sua Alleanza, ma c’è una grande differenza: Mosè era il servo del Signore ed ha imposto un’alleanza fra dei servi e il loro Signore. Gesù che non è il servo del Signore ma è il Figlio di Dio viene a proporre un’alleanza tra dei figli e il loro Padre. Mentre l’alleanza di Mosè è basata sull’obbedienza alle leggi di Dio, l’alleanza di Gesù è basata sull’accoglienza e sulla somiglianza all’amore del Padre.
Cambia così il concetto di credente. Chi è il credente secondo l’antica alleanza? E’ colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Ma questo è già un fattore di ingiustizia perché molte persone non possono o non vogliono osservare le sue leggi e dal momento che non osservano le leggi, sono escluse. Con Gesù chi è il credente? E’ colui che assomiglia al Padre , praticando un amore simile al suo. E l’amore tutti quanti lo possono accogliere.
Gesù salì sopra il monte e “sedette” per proclamare le beatitudini. Che Gesù fosse in piedi, seduto o in ginocchio per noi non cambia il contenuto del testo… ma non secondo l’evangelista. Il monte nell’antichità era il luogo della dimora degli dei, della condizione divina. Conosciamo tutti nella mitologia classica l’Olimpo, il luogo dove gli dei si manifestavano. Ebbene, Gesù sul luogo della condizione divina, si siede, si installa. L’evangelista ci ricorda il Gesù che è seduto alla destra di Dio, cioè che ha la piena autorità e condizione divina.
“Gli si avvicinarono i suoi discepoli”: mentre sul monte Sinai le persone non potevano avvicinarsi (pena la morte) al nuovo monte dell’alleanza le persone devono avvicinarsi per avere la loro vita. Qui l’evangelista in maniera ridondante scrive: “e aperta la sua bocca insegnava dicendo”, poteva semplicemente scrivere “e insegnava dicendo”. Perché lo fa? E’ chiaro che , se vuole insegnare, deve aprire la bocca ma vuole ricordare la risposta che Gesù dà a satana nel deserto: “non si vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. L’evangelista continua ad identificare Gesù con Dio.
Ed è qui che iniziano le beatitudini. Un capolavoro che Matteo ha curato calcolando il numero e i termini concreti con i quali realizzare questo messaggio.
Perché le beatitudini secondo Matteo sono otto? Il numero è ben preciso. Il numero otto, nella simbologia antica, rappresentava la Risurrezione, Gesù è risuscitato il primo giorno dopo il sabato: l’uno dopo il sette è il numero otto. Allora il numero otto nell’antichità rappresentava sempre la cifra che indicava una vita capace di superare la morte. I battisteri antichi avevano tutti forma ottagonale perché rappresentavano proprio l’accoglienza delle beatitudini che permettono una qualità di vita capace di superare la morte. L’accoglienza delle beatitudini produce una vita di una qualità tale, di un’energia tale che gli permetterà di non fare esperienza della morte. La buona notizia di Gesù è che la morte non interrompe la vita ma è quello che le permette di fiorire in una forma nuova, piena e definitiva.
L’evangelista è anche andato a calcolare con quante parole comporre le beatitudini. Emerge dal testo che vuole arrivare al numero di settantadue. Sono tecniche antiche, per noi un po’ desuete, ma era lo stile della scrittura dell’epoca. Ma perché proprio settantadue termini? Perché secondo il computo che si trova nel libro della Genesi al cap.10, le popolazioni pagane erano calcolate in numero di settantadue. Mentre i dieci comandamenti erano per il popolo di Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità. L’evangelista realizza così questo capolavoro letterario e teologico che adesso vediamo e inizia subito una grande sorpresa.
Gesù proclama “beati i poveri per lo spirito perché di questi è il regno dei cieli”. Vediamo subito di esaminare questa beatitudine che non è collocata a caso. E’ al primo posto perché è la condizione perché esistano tutte le altre beatitudini. E’ l’unica con il tempo del verbo al presente: “di essi è il regno”, le altre hanno tutte il verbo al futuro, esse sono infatti l’effetto dell’accoglienza di questa beatitudine.
La prima beatitudine è quella che è stata più fraintesa ed è quella che ha fatto credere che Gesù avesse proclamato beati i poveri. No, mai Gesù nei vangeli proclama beati i poveri; i poveri sono disgraziati ed è compito della comunità cristiana togliere dalla loro condizione di povertà. Questo il disegno di Dio sull’umanità, un disegno che era già espresso nell’antica alleanza: “nel mio popolo nessuno sia bisognoso”.
A quell’epoca non si credeva nell’esistenza di un dio unico ma ogni nazione aveva la sua divinità, si trattava di vedere qual’ era la più importante, la più gloriosa. Ebbene, se tra di voi non ci sarà alcun povero, quella sarà la prova della presenza di Dio e la prova che questo Dio è grande. Questa sarà anche la prova della presenza del Cristo secondo gli atti degli apostoli: “testimoniavano con gran forza la risurrezione di Gesù” e questo come? Con grandi cerimonie? Con grandi preghiere? No, “testimoniavano la risurrezione di Cristo perché nessuno tra di loro era bisognoso”. La prova della presenza del Signore è dove non ci sono bisognosi.
Quindi mai Gesù ha proclamato beati i poveri. Ma Gesù proclama “beati i poveri di spirito”. La particella greca adoperata da Matteo si presta a tre interpretazioni. Le esaminiamo e vediamo quale può essere.
La prima è “carente di spirito”, cioè una persona deficiente, che gli manca qualche cosa. Definizione che scartiamo subito, non è infatti possibile che Gesù proclami come massima aspirazione degli uomini, massima felicità, quello che è un handicap. Non è certo questo un traguardo.
La seconda interpretazione può essere “beati i poveri nello spirito” ed è l’interpretazione che ha avuto più fortuna e successo. Chi sono i poveri nello spirito? Sono quelle persone che pur avendo dei beni ne sono “spiritualmente distaccati”. La povertà di spirito si era trasformata in “spirito di povertà”…Non si è mai capito cosa significasse! Uno ha dei beni ma ne è distaccato. Forse perché se ne sbarazza? No… Allora li dona? No, neanche. Allora cosa significa? Capiamo che anche questa ipotesi cade. Gesù quando incontra il ricco, non gli chiede un distacco spirituale. Non gli dice “tieni pure i tuoi beni, l’importante è che tu ne sia distaccato spiritualmente”. No, il distacco che Gesù chiede è reale, immediato e concreto.
Resta allora un’ultima ipotesi che è “beati i poveri per lo spirito”. Sono quelle persone non che la società ha reso povere ma che per lo spirito, per la forza, per l’amore che hanno decidono di entrare nella condizione di povertà. Non per aggiungersi ai tanti, troppi poveri che la società produce ma proprio per eliminare le cause della povertà. Ed è questo quello che Gesù ci chiede. Gesù proclama immensamente beati, felici, quelli che volontariamente, liberamente e per amore decidono di entrare nella condizione di povertà.
Che significa? Non certo andare ad aggiungerci ai tanti altri poveri. Gesù non ci chiede di spogliarci ma chiede di vestire gli altri. Credo che tutti noi possiamo vestire qualcuno senza bisogno di doverci spogliare. Gesù chiede di abbassare un po’ il nostro livello di vita per permettere a quelli che lo hanno troppo basso di innalzarlo un po’. Gesù chiede non l’elemosina ma la condivisione. Mentre l’elemosina presuppone un benefattore e un beneficato, per cui rimane sempre una differenza, la condivisione che Gesù propone, crea dei fratelli. Allora Gesù dice: “quelli che liberamente , volontariamente e per amore, si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri sono felici, immensamente felici, perché di essi è il regno dei cieli”. E qui siamo da capo perché il regno è stato interpretato in passato come un regno “nei” cieli.
Nulla di tutto questo. Sappiamo che Matteo scrive a una comunità di giudei ed è attento a non urtare la suscettibilità dei suoi interlocutori. Sa infatti che, nel mondo giudaico, il nome di Dio non si pronuncia né tanto meno si scrive. Allora tutte le volte che l’evangelista ne ha la possibilità sostituisce il termine Dio con termini che lo raffigurano. Uno di questi è “ cielo”. Lo facciamo anche noi nella lingua italiana. Quante volte, nel parlare comune, diciamo: “grazie al cielo” e sicuramente non ringraziamo l’atmosfera, ma Dio. Oppure, in un italiano un po’ più antico, diciamo: “il ciel non voglia” intendendo dire “Dio non voglia”. “Regno dei cieli” quindi, nel Vangelo di Matteo è il “regno di Dio”.
Ma cosa significa questo? Israele, dopo l’esperienza della monarchia –che era stata un totale fallimento- aveva proiettato in Dio l’immagine ideale del re e, secondo la Bibbia, re ideale è colui che si prende cura del povero, dell’orfano, della vedova, cioè delle persone che non hanno nessuno che pensi a loro. Ora possiamo capire che la beatitudine non è una promessa per il futuro ma è una proposta per l’immediato. Lo abbiamo visto nell’uso del verbo “è”, non “sarà”.
Gesù si rivolge a una comunità : il messaggio è per individui ma individui che formano una comunità. Gesù non è venuto a formare dei santi ma a dare un messaggio che cambi le strutture stesse della società. Le società si basano su tre verbi che portano rivalità e inimicizia. Questi verbi sono: AVERE, SALIRE, COMANDARE. Possedere sempre di più per salire al di sopra degli altri e poterli comandare. Ebbene il Regno che propone Gesù è una società dove al posto dell’accumulo dei beni c’è la gioia della CONDIVISIONE; dove alla bramosia di salire sopra gli altri c’è la gioia di SCENDERE (che significa non considerare nessuno inferiore a se stessi) e al desiderio di comandare c’è l’esperienza gioiosa del SERVIRE gli altri. Questo è il Regno di Dio. Un cambio radicale nei valori che reggono la società.
Gesù proclama beati, felici coloro che liberamente, volontariamente e per amore fanno la scelta di sentirsi responsabili della felicità e del benessere degli altri. Felici perché? Perché di questi Dio si prende cura. E’ un cambio meraviglioso! Se noi ci occupiamo degli altri, permettiamo a Dio di prendersi cura di noi. Allora cambia completamente il rapporto con il Signore. Lo si sente presente nella propria esistenza. L’unica nostra preoccupazione è prenderci cura degli altri. Ai nostri bisogni, alle nostre necessità ci pensa Dio stesso: ecco la beatitudine! E’ una proposta tutta a vantaggio degli uomini perché Gesù non si lascia vincere in generosità. Ogni volta che trasformiamo l’amore ricevuto da Dio in amore comunicato agli altri attiriamo da parte di Dio una risposta ancora più grande e questo è il fattore di crescita delle persone.
La prima beatitudine è dunque la scelta di essere responsabili della felicità delle persone. Chi fa questo , sperimenta un cambio straordinario nella sua esistenza, si rende conto che Dio si prende cura come un padre della sua persona, del suo benessere.
Se c’è questa scelta da parte di una comunità, ecco che Gesù presenta le possibili conseguenze positive nell’umanità. L’evangelista elenca alcuni casi emblematici di sofferenza. La prima beatitudine è: “beati gli afflitti perché saranno consolati”. Per comprendere le beatitudini, non dobbiamo mettere la beatitudine ai soggetti ma nella risposta. Dobbiamo cioè leggere questa beatitudine così: “gli afflitti beati perché? Perché saranno consolati”. La beatitudine non consiste nell’essere afflitti ma nel fatto di essere consolati".
Dedicato agli italiani potenti, perchè nessuno di noi desidera diventare povero e afflitto.
Il Paese può riprendere quota non se, in preda a una sorta di furore ideologico, ci appiattiamo tutti verso la miseria, ma se facciamo in modo che i poveri non diventino anche miserabili, ma elevino la qualità della loro vita.
Dario Meneguzzo
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