La natura degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 31.10.2013 n. 5255, chiarisce la natura dell’obbligazione avente ad oggetto il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione: “Ai fini dell'esatta qualificazione degli oneri di costruzione e di urbanizzazione le opere realizzate in virtù della concessione edilizia originaria e di quella in variante devono essere considerate nella loro globalità, sicché, anche se nel caso di specie nel relativo provvedimento era citata la sola concessione in variante, esso non poteva non aver tenuto conto del risultato complessivo dell'intervento costruttivo.

E’ quindi irrilevante la circostanza che nel provvedimento impugnato fosse formalmente richiamata solo la concessione in variante, essendo evidente che la somma richiesta, per la sua entità, era relativa al complesso di quanto autorizzato con la prima concessione e poi modificato a seguito di variante.

Aggiungasi che l'esistenza o la misura degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione costituiscono una obbligazione direttamente stabilita dalla legge; come tale, la determinazione dell'”an” e del “quantum” del contributo concessorio ha natura di mero accertamento dell'obbligazione contributiva e viene effettuato dalla pubblica amministrazione (P.A.) in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritative. Ne consegue che la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.

Tanto conforta la tesi del primo Giudice secondo cui l’aspetto formale del mancato richiamo alla precedente concessione del 28.9.1991 contenuto nella determinazione dirigenziale impugnata, che indicava solo la concessione edilizia del 21.4.1994, di variante alla suddetta, era inidoneo a comportarne l’annullamento per vizi attinenti alla tutela degli interessi legittimi, non essendo stato, peraltro, dimostrato dalla parte appellante che le somme richieste non fossero pertinenti con le opere concretamente realizzate”.

 Per quanto riguarda il legittimo affidamento del privato dinanzi all’inerzia-silenzio della P.A. nel riscuotere le somme de quibus: “Osserva la Sezione in generale che le situazioni consolidate possono essere tutelate quando sulla loro legittimità l'interessato abbia fatto in buona fede affidamento, ma la sussistenza di esso deve escludersi a priori allorché esse siano, come nel caso di specie, dovute ad inerzia dell’Amministrazione nel richiedere il pagamento di somme dovute in base a disposizioni di cui anche l’interessato sia a conoscenza; in siffatto contesto è chiaro che ciò su cui l'interessato fa affidamento non è la legittimità della situazione venutasi a creare, bensì l'inerzia dell'Amministrazione nell'adozione di atti comunque dovuti.

La convinzione che il passare del tempo riduca o limiti, sino ad annullare, il dovere dell'Amministrazione di esercitare prerogative cui è tenuta per legge non può trovare fondamento nei principi generali dell'affidamento né in quelli di efficacia e buon andamento dell'Amministrazione, necessitando invece di una apposita previsione normativa che, agendo sulla patologia dell'inerzia, la sanzioni con l'estinzione o con il mutamento del potere amministrativo esercitabile.

Nel caso di specie l’inerzia dell’Amministrazione nel richiedere il pagamento degli oneri di cui trattasi poteva comportare il venir meno del potere di esercitare il diritto alla riscossione del credito, come condivisibilmente ritenuto dal primo Giudice, solo a seguito del decorrere della prescrizione.

L'affidamento del privato non potrebbe quindi derivare dalla mera inerzia dell'Ente pubblico nell’adottare atti dovuti, ma solo da un suo eventuale comportamento positivo tale da configurare una qualche responsabilità da contatto.

E’ peraltro incondivisibile la tesi dell’appellante che il comportamento del Comune avesse comportato l’insorgere in capo ad essa della ragionevole convinzione che il diritto non sarebbe stato in futuro esercitato, sicché la successiva pretesa di far valere il diritto sarebbe paralizzata dall’”exceptio doli”.

Va osservato in proposito che la convinzione che il diritto in questione non sarebbe stato esercitato dal Comune nei termini di prescrizione innanzi tutto non poteva insorgere in maniera sufficientemente plausibile perché la parte che si sarebbe avvantaggiata da un tale comportamento non poteva non sapere che, essendo la pretesa del pagamento di detti crediti atto dovuto, tanto avrebbe comportato violazione di legge e responsabilità contabile; su tale ipotesi non poteva fondarsi quindi ragionevole affidamento della attuale appellante nel valutare il prezzo da richiedere per la vendita dei beni interessati.

Quanto alla "exceptio doli specialis seu preteriti", essa indica il dolo commesso al tempo della conclusione dell’atto, ed è diretta a far valere (in via di azione o eccezione) l’esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio, al fine di ottenerne l’annullamento, ovvero a denunziare la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, la quale assume rilievo, a titolo di dolo incidente, nel caso in cui l’attività ingannatrice abbia influito su modalità del negozio che la parte non avrebbe accettato, se non fosse stata fuorviata dal raggiro. Detta eccezione non comporta l’invalidità del contratto, ma la responsabilità del contraente in mala fede per i danni arrecati dal suo comportamento illecito, i quali vanno commisurati al minor vantaggio e al maggior aggravio economico subiti dalla parte che ne è rimasta vittima.

Al riguardo deve ritenersi innanzi tutto che l’istituto è applicabile in materia negoziale e non nel caso di specie in cui la pretesa della Amministrazione costituiva atto non meramente sinallagmatico, ma dovuto per legge.

In secondo luogo deve escludersi che la parte appellante abbia sufficientemente dimostrato la dedotta mala fede del Comune, che avrebbe dovuto concretizzarsi nella predisposizione di un finto esonero dal pagamento degli oneri di cui trattasi, al surrettizio fine di indurre imprenditori a realizzare strutture nella zona commerciale, per poi, una volta realizzate le strutture, incamerare le somme invece dovute”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 5255 del 2013

La natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 14 novembre 2013 n. 1282, chiarisce la natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza asserendo che: “L’orientamento della Cassazione è consolidato nel ribadire che la natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza deve essere accertata in sede giudiziale, in concreto, indipendentemente dall'esito delle procedure amministrative eventualmente esperite e facendo ricorso ai criteri indicati dal d.p.c.m. 16 febbraio 1990 (cfr. Cass. Civ. sez. un., 27 gennaio 2012, n. 1151 e 30 dicembre 2011, n. 30176).

L’accertamento, vertendo su diritti soggettivi, compete in via principale al giudice ordinario, e in via incidentale al giudice amministrativo, in forza del generale principio di cui all’art. 8 c.p.a., secondo cui il giudice amministrativo conosce senza efficacia di giudicato di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale.

Sempre in tema si è inoltre chiarito che non è di ostacolo al riconoscimento della natura privatistica dell'ente la circostanza che non siano state portate a compimento le procedure previste dalla L. n. 207 del 2001, nonché dalle leggi regionali, per la trasformazione dell'IPAB in persona giuridica privata: ciò in quanto spetta pur sempre al giudice il compito di vagliare la ricorrenza dei requisiti fissati dalla disciplina di settore per accertare la natura della istituzione, non fosse altro perché, come affermato dalle citate decisioni della Corte costituzionale e dalla richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, l'atto della Regione ha valore meramente ricognitivo ed a tale compito può attendere anche il giudice (Cass. Civ. sez. un., 16 maggio 2008 n. 12377 e 6 maggio 2009 n. 10365).

Gli effetti della delibera di depubblicizzazione, adottata dalla Regione, così come normativamente predeterminati, conseguono infatti direttamente all'accertamento di una situazione esistente, senza che sul loro contenuto possa incidere la volontà dell'Autorità regionale; ciò significa che la delibera predetta va qualificata come atto di accertamento rispetto ad una posizione che va verificata nei suoi elementi obiettivi. Essa quindi non è attributiva di uno status, ma si limita ad accertarlo, previa verifica dell'effettiva (e preesistente) natura dell'ente interessato e con le conseguenze che la legge ricollega a tale accertamento (T.A.R. Milano sez. III, 13 aprile 1999, n. 1180)”.

 Dato che nel caso di specie l’istituzione non rientrava nella categoria degli enti privatistici “promossi ed amministrati da privati”, configurata dall’art. 1 comma 5 del DPCM 16.02.1990, il Collegio giunge a ritenere che: “L’atto impugnato consiste in una modifica della dotazione organica, sicchè alla specie vanno applicati i principi secondo cui l’atto di riorganizzazione è censurabile per soli motivi di illogicità, restando riservate all’amministrazione le scelte di macro organizzazione – il Collegio sul punto dissente dall’equiparazione alla disciplina delle aziende sanitarie, ipotizzata dalla resistente, conducente alla giurisdizione ordinaria-”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1282 del 2013

Un altro esempio di motivazione fatta male in materia di vincolo paesaggistico

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

E' diffusa tra gli addetti ai lavori l'esperienza dei provvedimenti fatti decisamente male in materia di vincolo paesaggistico.

La sentenza del TAR Veneto n.  1299 del 2013 ne annulla uno: "1. Preliminarmente, è da ritenersi fondato il ricorso principale proposto avverso l’autorizzazione paesaggistica del 15 settembre 2011 ed il parere della Commissione Edilizia Integrata del 20 luglio 2011 in essa  riportato, dei quali si chiede l’annullamento nella parte in cui autorizzano “il solo recupero fisico dell’immobile e non la destinazione richiesta”. Ed infatti, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, l’amministrazione comunale, nel rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in esame, autorizzando “il solo recupero fisico dell’immobile e non la destinazione richiesta” in considerazione del fatto che “la documentazione prodotta non dimostra la destinazione residenziale esercitata in forma continuativa”, ha operato una valutazione, oltre che poco comprensibile (non avendo l’istante richiesto un mutamento di destinazione d’uso), anche nettamente avulsa dai profili di compatibilità paesaggistica che la stessa è tenuta ad esaminare, e ciò considerata l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica rispetto al titolo edilizio; il che si traduce nei vizi denunciati di difetto di motivazione e sviamento dalla causa tipica".

Ma è poi proprio così tanto difficile spiegarsi a questo mondo? Oppure non si riesce a spiegarsi per esempio quando non si avrebbe alcun motivo per dire di no, ma si vuole dire lo stesso di no a tutti i costi?

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1299 del 2013

Come funziona il termine entro il quale inibire una DIA

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1299 del 2013 (allegata al post che segue).

Scrive il TAR: "2. Anche il ricorso per motivi aggiunti merita accoglimento essendo fondata la prima censura, diretta a rilevare la violazione del termine entro il quale poteva essere, legittimamente, inibita la DIA a suo tempo presentata dalla ricorrente.
3. Ed infatti, ai sensi dell'art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine perentorio di 30 giorni entro il quale l’amministrazione può esercitare il potere di controllo, la DIA acquista piena efficacia legittimante e l'Amministrazione può intervenire solo esercitando il potere di autotutela disciplinato dagli art. 21 nonies e quinquies della L. n. 241 del 1990. Restano inoltre salve, ai sensi dell'art. 21 della legge medesima n. 241, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore.
4. Applicando detti principi al caso di specie risulta evidente l'illegittimità del provvedimento impugnato, adottato ben oltre il trentesimo giorno dalla data di presentazione della DIA. Ed infatti, una volta prodotta, in data 27 ottobre 2011, la documentazione richiesta dal Comune il 30 settembre 2011, l’amministrazione ha omesso di esercitare il potere di cui all’art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001 nei trenta giorni successivi, né è in altro modo intervenuta per sospendere il decorso di tale termine; con la conseguenza che la DIA si è definitivamente consolidata il 26 novembre 2011.
5. Si consideri, ancora, come dagli atti immediatamente successivi, di comunicazione di avvio di procedimento per “erronea rappresentazione dello stato dei luoghi” del 24 luglio 2012, di invito a produrre ulteriore documentazione del 3 luglio 2013, ed infine, dal provvedimento impugnato del 13 agosto 2013, con il quale si sancisce la sospensione della DIA fino alla completa integrazione dell’ulteriore documentazione richiesta, non è possibile desumere l'esistenza dei requisiti tipici dell'avvenuto esercizio di un potere di autotutela, il solo idoneo ad incidere sull’intervenuto consolidamento del titolo abilitativo. Né appare fondata la tesi sostenuta dall’interveniente, per cui il provvedimento inibitorio sarebbe tempestivo in quanto emesso a seguito di una “variante essenziale” alla d.i.a. originaria; ciò in quanto, in seguito alla comunicazione di avvio di procedimento per “erronea rappresentazione dello stato dei luoghi” del 24 luglio 2012, l’odierna ricorrente ha solo apportato alcune correzioni alle lievi difformità grafico-progettuali riscontrate dall’amministrazione (in particolare in ordine alle dimensioni dell’edificio e allo spessore dei muri), senza modificare la sostanza dell’intervento edilizio che resta di tipo meramente conservativo come inizialmente denunciato (non essendo previsto alcun ampliamento e nessun intervento sullo spessore dei muri), e senza, dunque, che ciò possa aver inciso sull’efficacia, già consolidata, della DIA".

avv. Dario Meneguzzo

Il terzo piano casa nel testo licenziato dalla seconda commissione consiliare

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

Pubblichiamo il terzo piano casa del Veneto nel testo licenziato dalla seconda commissione consiliare.

Si dice che verrà approvato dal consiglio regionale entro il 30 novembre 2013.

Piano Casa licenziato dalla Seconda Commissione

Cosa ci combinano in materia di distanze col terzo piano casa?

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

La Regione Veneto, col terzo piano casa quasi pronto, dopo la famigerata deroga alla distanza dai confini, vuole ora rifilarci anche la deroga alle distanze stabilite dal D.M. 1444 del 1968 (si veda il comma 8 dell'art. 9 del testo licenziato dalla seconda commissione consiliare).

Gli è che può anche farlo, in applicazione dell’articolo 2 bis del DPR 380/2001, introdotto dal decreto del fare, il quale dispone:

"Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati". 1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprieta' e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivita' collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.

Ma siamo sicuri che sia una buona idea una deroga generalizzata buttata lì a casaccio? NOn ha fatto già abbastanza danni la deroga alla distanza dai confini nei primi due piani casa?

avv. Dario Meneguzzo

L’autocertificazione vale anche per il certificato di qualità

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 12 novembre 2013 n. 5375, riforma la sentenza del T.A.R. Veneto n. 167/2013 commentata nel post del 11.02.2013, ove si era affermato che il certificato di qualità SA 8000/2008 non può essere sostituito da una autocertificazione.

 Al contrario il Consiglio di Stato afferma che l’esclusone dalla gara dell’operatore economico per la ragione suesposta viola il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46-bis d. Lgs. 163/2006: “4.1 La censura è fondata, ancorché dedotta dalla stessa stazione appaltante che ha dato causa alla nullità prevista dalla citata disposizione del codice dei contratti pubblici, avendo predisposto la legge di gara contenente tale comminatoria.

Nel respingerla, il TAR ha ritenuto legittima la previsione del bando in contestazione “concernente il possesso dei requisiti di qualità in capo alle aziende che intendono partecipare alla gara, nei termini individuati dalla certificazione SA 8000”, specificando che la stessa, vista la rilevanza del servizio oggetto di appalto, la durata e l’importo del contratto, non sia illogica né discriminatoria, ma anzi coerente con lo stesso.

4.2 Altro era tuttavia il punto da esaminare, è cioè se la stessa sia conforme al principio di tassatività sopra detto.

Non è infatti in dubbio la legittimità di una norma impositiva del possesso di detta certificazione, bensì se la mancanza di quest’ultima debba comportare l’esclusione dell’impresa concorrente.

La contrarietà rispetto al principio ora detto sussiste, ed emerge in primo luogo dallo stesso passaggio motivazionale citato, dal quale si evince chiaramente che ciò che rileva non è la certificazione in sé ma il possesso dei requisiti idonei ad ottenerla, ed in secondo luogo dal chiaro disposto dell’art. 43 cod. contratti pubblici, che riconosce in termini generali alle imprese partecipanti a procedure di affidamento la possibilità di fornire “altre prove” relative al rispetto dei standard di qualità equivalenti a quelli oggetto di certificazioni rilasciate dai competenti organismi.

4.2.1 Sul punto è il caso di richiamare la recente pronuncia della VI Sezione di questo Consiglio di Stato 18 settembre 2013 n. 4663, la quale ha chiarito che il fondamento giustificativo del principio di tassatività delle cause di esclusione è quello di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica. I quali, consistendo nella selezione del miglior contraente privato, conducono a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le “cause amministrative” di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.

4.2.2 Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia di questa Sezione del 9 settembre 2013 n. 4471, che ha ritenuto contrastante con il suddetto principio di tassatività la clausola di lex specialis impositiva dell’obbligo di produrre in originale o copia autentica la certificazione di qualità prevista. Richiamando il disposto dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione ha puntualizzato nella citata pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di gara da formalismi non necessari, ammettendo quindi le imprese partecipanti a “provare l’esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione”. E ciò sull’incontestabile rilievo dell’inesistenza di un sistema di qualificazione pubblica, tanto in forza del quale si giustifica la libertà di prova riconosciuta dalla ora citata disposizione normativa.

4.3 In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi riconoscere alle imprese partecipanti a gare d’appalto di provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena altrimenti, in primo luogo, l’introduzione di una causa amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono esclusivamente poter confidare sull’effettivo possesso dei requisiti di qualità aziendale o – per venire al caso di specie – sul rispetto delle norme sulla responsabilità sociale delle imprese.

4.3.1 Né può in contrario essere invocato l’indirizzo di questa Sezione che afferma essere rimasto inalterato, anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività della cause di esclusione, il potere delle stazioni appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73 e 74 d.lgs. n. 163/2006 (sentenze 18 febbraio 2013 n. 974 e 3 luglio 2012, n. 3884).

Si tratta infatti di pronunce che si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria, contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una equivalenza con altre prove.

Va ancora osservato al riguardo che la disposizione del codice dei contratti pubblici da ultimo menzionata attiene alle “norme in materia di garanzia della qualità”, mentre nel caso di specie si controverte in ordine al rispetto di determinati standards di etica e responsabilità aziendale. Si tratta all’evidenza di requisiti connotati da un grado di verificabilità empirica certamente inferiore a quelli previsti dalla norma, per i quali la possibilità di fornire prove in via alternativa deve essere riconosciuta a fortiori”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 5375 del 2013

 

Cosa sono i codici etici

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5375 del 2013 si occupa anche dei codici etici: "I codici etici sono documenti ufficiali dell’ente che contengono l’insieme dei diritti, dei doveri e delle responsabilità dell’ente nei confronti dei “portatori d’interesse”: i c.d. stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, pubblica amministrazione, azionisti, mercato finanziario, ecc.). Tali codici mirano a raccomandare, promuovere o vietare determinati comportamenti, anche non previsti a livello normativo, prevedendo sanzioni proporzionate in caso di violazioni.

Trattandosi di documenti voluti ed approvati dal massimo vertice dell’ente imprenditoriale, essi sono vincolanti per tutti i soggetti inseriti organizzazione aziendale.

Come notano Sinergie e Cpl Condoria, i codici etici rilevano ai fini dell’esonero dell’impresa da responsabilità penale ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001.

Tuttavia non è corretto circoscrivere la rilevanza di tali documenti allo stretto ambito penale.

E’ infatti certamente possibile che una violazione del codice etico non integri gli estremi di un reato. Qui, allora, si coglie l’utilità del codice, la quale consiste nel regolamentare e rendere vincolanti comportamenti altrimenti non coercibili, attribuendo dunque all’ente il potere di reagire alle infrazioni commesse, mediante l’applicazione di sanzioni disciplinari o contrattuali. Il tutto conformemente alla natura di atto di autonomia privata del codice etico, il quale vincola i dipendenti in virtù dei doveri inerenti la subordinazione propria del rapporto lavorativo ed i terzi che, a vario titolo, entrano in contatto con l’impresa, mediante richiamo al codice aziendale, legittimando conseguentemente l’attivazione dei conseguenti rimedi contrattuali in caso di violazione”.

dott. Matteo Acquasaliente

Nota sulla improcedibilità o sulla nullità dell’appello nel processo amministrativo

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

 Segnaliamo questo passaggio della sentenza del Consiglio di Stato n. 5375 del 2013 per quanto concerne l’improcedibilità o la nullità dell’appello: “2.1.1 Per la procura alle liti, è agevole constatare l’infondatezza dell’eccezione ponendo a mente il disposto dell’art. 24 cod. proc. amm., secondo cui la procura rilasciata “per agire e contraddire davanti al giudice si intende conferita anche per proporre motivi aggiunti”. Questa norma ha, come è noto, carattere generale, ed è innanzitutto valevole per il giudizio di primo grado, nel quale i motivi aggiunti possono anche comportare l’ampliamento dell’oggetto della controversia (si tratta dei c.d. motivi “nuovi”), essendo precipuamente finalizzata a dissipare i dubbi sorti in passato sulla proponibilità degli stessi anche in assenza di procura alle liti distinta rispetto a quella contenuta nel ricorso introduttivo. A fortiori dunque la stessa è applicabile ai motivi aggiunti proposti avverso la sentenza successivamente all’appello nei confronti del dispositivo, visto che quest’ultimo deve contenere un’espressa “riserva” dei primi (art. 119, comma 6, cod. proc. amm., richiamato per il c.d. “rito appalti” dal comma 11 dell’art. 120 del medesimo codice del processo).

2.1.2 Quanto all’esposizione dei fatti occorre innanzitutto osservare che è certamente indubbio che l’appello avverso il dispositivo della sentenza di primo grado ha carattere esclusivamente cautelare, ciò emergendo in modo inconfutabile dalla lettura delle disposizioni processuali da ultimo richiamate. La conseguenza che da queste ultime la costante giurisprudenza di questa Sezione ha tratto è che tale mezzo diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse una volta esaurita la fase cautelare ed a seguito della rituale proposizione di motivi aggiunti avverso la sentenza (da ultimo: sentenza 15 luglio 2013, n. 3843; in precedenza, sotto il vigore dell'art. 23-bis, comma 7, l. n. 1034/1971: sentenze 21 ottobre 2003, n. 6523 e 23 gennaio 2000, n. 327).

Se tuttavia questa è la conseguenza, è indubbio che il sopravvenuto difetto di interesse, se rende improcedibile l’appello, non ne comporta certo la nullità, rendendolo tamquam non esset, con l’effetto di travolgere anche l’esposizione dei fatti in esso contenuta.

Non bisogna dimenticare che le forme del processo ed i requisiti contenutistici degli atti processuali sono dettati in vista del raggiungimento di uno scopo (art. 156, comma 2, cod. proc. civ.). Ora, lo scopo tipico dell’esposizione dei fatti è quello di far comprendere alle parti ed al giudice adito i termini della controversia, così da consentire alle prime l’articolazione compiuta delle proprie difese ed al secondo di esercitare con cognizione di causa i propri poteri decisori. Ebbene, una volta introdotti i fatti attraverso l’appello contro il dispositivo, il suddetto scopo è definitivamente raggiunto, anche se non vi è più luogo ad esaminare i motivi in esso contenuti. L’improcedibilità infatti concerne solo questi ultimi, come si evince anche dall’art. 35, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., in cui si precisa che tale statuizione va emessa quando nel corso del giudizio sopravviene “il difetto di interesse delle parti alla decisione”, e cioè all’esame nel merito dei motivi di impugnazione. E’ vero poi che si usa dichiarare l’improcedibilità dell’intero atto, ma si tratta evidentemente di una sineddoche, giacché solo i motivi di impugnativa costituiscono la causa petendi sulla quale la decisione deve essere resa.

Come accennato sopra, diverso sarebbe stato il discorso se l’appello fosse stato dichiarato nullo, poiché con tale rilievo si accerterebbe l’assoluta improduttività di effetti dello stesso e dunque anche dell’esposizione dei fatti in esso contenuta. Ma tale nullità discende da un vizio intrinseco all’atto, ed in particolare, come si evince anche dall’art. 44, comma 1, lett. b) cod. proc. amm., dall’ “incertezza assoluta (…) sull’oggetto della domanda”, in ipotesi determinata dall’oscura o carente esposizione dei fatti di causa, tale appunto da impedire alle parti ed al giudice di comprendere i termini della controversia. Rispetto a tale vizio è cosa ben diversa la dichiarazione di improcedibilità, la quale consegue ad un elemento esterno all’atto, vale a dire l’interesse alla pronuncia nel merito, del tutto inidoneo ad inficiare il contenuto dell’atto medesimo.

Ed alla luce di quest’ultima considerazione si rende manifesto l’eccessivo formalismo della tesi qui in esame, poiché il suo accoglimento condurrebbe ad una pronuncia in rito ancorché nessuna concreta lesione al diritto di difesa sia stato arrecato, come del resto si evince dalle compiute difese articolate dalla stessa nel presente giudizio d’appello”.

dott. Matteo Acquasaliente

Allevamenti intensivi, odori ed ordinanze del Sindaco

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 4687 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Con riferimento alle previsioni dell’art. 216, cit., l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri” (di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”; detti interventi hanno concretizzato “le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”; mentre la sanzione comminata in forza della mancata realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la loro esecuzione ed efficienza”.

 Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999, vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che anch’esse debbano essere contenute entro limiti di tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo dell’Amministrazione locale.

 E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva. L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15 febbraio 2001, n. 766); inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V, 14 settembre 2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V, 19 aprile 2005, n. 1794).

 Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit., riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato, V, 24 marzo 2006, n. 1533).

sentenza CDS 4687 del 2013

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