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Conferenza dei servizi: il dissenso deve avere la forma di critica costruens (indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso)‏

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

Lo scrive il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 24.1.2013, n. 434: "...2.2. Ed invero, in relazione al primo profilo, osserva il Collegio come nell'ambito della conferenza di servizi convocata dalla Regione Sardegna in data 24 maggio 2011 l'Amministrazione comunale abbia espresso "il parere di conformitĂ  alla disciplina urbanistica comunale", limitandosi ad evidenziare che doveva "essere chiarita la titolaritĂ  sia del terreno in cui insiste l'impianto che in quello dove passeranno i cavidotti".

E', quindi, palese come il Comune di Isili non abbia espresso alcun diniego formale in sede di conferenza di servizi.

Infatti, ai sensi dell'art. 14 ter della L. n. 241/1990, per essere validamente espresso, il dissenso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso medesimo.

Ed in conformitĂ  al precetto normativo, anche la giurisprudenza di questo Consiglio ha piĂą volte chiarito come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla conferenza di servizi deve rispondere ai principi di imparzialitĂ  e buon andamento dell'azione amministrativa, predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera opposizione al progetto in esame, ma dovendo essere costruttivo e motivato (cfr. per tutte Sez. V, 23 maggio 2011, n. 3099).

Privo di fondamento, pertanto, si appalesa l'assunto del Comune appellante di non aver mai espresso il proprio assenso alla realizzazione dell'impianto per cui è causa, ma di essersi limitato ad esprimere un "generico punto di vista" relativamente al profilo urbanistico.

Infatti, il modulo procedimentale della conferenza di servizi ammette che l'ente regolarmente convocato possa esprimersi unicamente in uno dei seguenti modi:

a) consenso espresso (art. 14-ter, comma 6, della Legge n. 241/1990);

b) consenso tacito proveniente dall'ente regolarmente convocato il cui rappresentate non abbia espresso la volontĂ  dell'amministrazione rappresentata in modo definitivo (art. 14-ter, comma 7, della Legge n. 241/1990);

c) dissenso espresso, ammissibile solo se espresso in conferenza di servizi, motivato e circostanziato (art. 14-quater, comma 7, della Legge n. 241/1990).

Pertanto, del tutto correttamente il primo giudice ha dichiarato inammissibile il motivo, rilevando che:

"..il Comune avrebbe dovuto correttamente e tempestivamente dedurre tale ragione di dissenso nella sede della conferenza di servizi svoltasi il 24 maggio 2011, convocata dalla Regione Sardegna per l'esame dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione unica presentata dalla controinteressata", mentre dal verbale risulta che lo stesso "sul punto, si è limitato a chiedere che fosse «chiarita la titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto, che in quello dove passeranno i cavidotti, senza ulteriori specificazioni o rivendicazioni in ordine alla reale proprietà degli immobili.

Peraltro, la generica osservazione del Comune, sopra riferita, è stata comunque oggetto di esame nella conferenza di servizi e si è tradotta anche in una specifica condizione (l'acquisizione della documentazione in merito al contratto definitivo di disponibilità delle aree di impianto) cui subordinare l'esito positivo della determinazione conclusiva della conferenza.

Condizione che si è, in seguito, realizzata (come risulta dalla documentazione versata in atti".

 

Quando possono dirsi ultimati gli edifici per i quali si chiede il condono per il cambio d’uso

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

La questione viene esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 21 del 2013.

Scrive il TAR: "Stabilisce infatti l’art. 31, comma 2, della legge n. 47/85 - richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/94 e poi dalla legge n. 326/2003 - che, ai fini dell'applicazione delle regole sul condono, "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente".
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di ultimazione delle opere condonabili, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, la norma citata introduce - in alternativa al criterio dell'esecuzione al rustico e completamento della copertura dell'edificio - il parametro del completamento funzionale dell'opera: per i mutamenti di destinazione d'uso di edifici residenziali è condonabile la struttura in cui le opere, pur se non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali con le caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere alla funzione cui sono destinate. Il criterio del "completamento funzionale " anticipa, quindi, la data di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al condono, per cui un intervento non ancora completato può, tuttavia, essere giudicato sanabile dal punto di vista funzionale (cfr. T.A.R. Liguria, sez. I, 6.5.2010 n. 2295).
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla legge, anche se le attivitĂ  edilizie siano ancora in corso, l'immobile deve essere giĂ  fornito degli elementi indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito - in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione (cfr. T.A.R. Abruzzo Pescara, 22.10.2007 n. 837) - pur se non siano stati ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare ed accessorio (cfr. T.A.R. Veneto, sez. II, 28.5.2008 n. 1631).
Costituisce, infine, principio consolidato della giurisprudenza quello secondo il quale l’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo (o anche della attività edilizia abusiva da sanare) spetti a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.1.2010, n. 45; Consiglio di Stato, V, 9.11.2009, n.6984).
E, infatti, la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell’intero suo territorio a quella data prevista dalla legge, mentre il privato, che propone l’istanza di sanatoria, è normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l’ultimazione dell’abuso entro la data di riferimento, vale a dire nel caso di specie il 31.3.2003, spettando a costui l’onere di fornire quantomeno un principio di prova su tale ultimazione e in caso contrario
restando integro il potere di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta.
Orbene, nel caso in esame dette condizioni non sono state rilevate dall’amministrazione, la quale, basandosi sulla documentazione acquisita, anche con riferimento a dati oggettivi che, pur riferendosi ad altri procedimenti attestavano in ogni caso lo stato di fatto dell’immobile, non ha ritenuto che il mutamento d’uso funzionale risultasse completato entro la data del 31.3.2003.
Al riguardo va in primo luogo osservato come proprio l’utilizzo precedentemente operato dell’unità in questione (dormitorio per le maestranze dell’attività artigianale esercitata al piano terra dell’immobile) comportasse uno specifico onere da parte istante per dimostrare che l’utilizzo del bene è stato modificato, risultando destinato ad abitazione.
Come correttamente rilevato dalla difesa resistente, proprio il confine sottile esistente fra le due destinazioni in rapporto allo stato di fatto, imponeva l’onere a carico del richiedente di comprovare in modo più qualificato l’effettivo mutamento operato.
Ed a tale proposito è di tutta evidenza che nessuna rilevanza può essere attribuita alle mere intenzioni del richiedente, che, pur mantenendo lo stato di fatto, avrebbe inteso assegnare al bene utilizzato una diversa destinazione d’uso: come già osservato in fattispecie analoghe, il condono edilizio non legittima un’intenzione, ma sana un effettivo e dimostrato uso del bene diverso da quello autorizzato".

sentenza tar Veneto 21 del 2013

Rendimento energetico nell’edilizia: sostituzione dell’Allegato A del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

Sulla GU n. 21 del 25 gennaio 2013 è stato pubblicato il Decreto 22 novembre 2012 del Ministero dello Sviluppo Economico, recante "Modifica dell'Allegato A del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, recante attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia. (13A00571)".

Decreto 22.11.2012 Ministero Sviluppo Economicol

La destinazione a “uso comune”, se le opere possono essere realizzate dal privato, è un vincolo conformativo e non espropriativo

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

Lo ribadisce la sentenza del TAR Veneto n. 13 del 2013.

Scrive il TAR: "tutto il compendio di proprietà è stato inserito in un Progetto Unitario di comparto, che consente di trasferire tutta la capacità di sfruttamento edificatorio (con riguardo alla destinazione D) sul mappale 749.
Orbene, come sottolineato dalla difesa comunale, ciò consente di utilizzare al massimo il rapporto fra superficie disponibile e volumetria realizzabile, con un indice elevato.
Peraltro, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, anche alla luce dei contenuti senza dubbio innovativi presenti nella legislazione regionale in materia urbanistica e specificatamente con riferimento agli istituti dei crediti edilizi, della perequazione e delle compensazioni, è possibile assicurare, senza il ricorso alla procedure espropriative, indubbi vantaggi che compensano il privato delle limitazioni derivanti alla proprietà, con contemporanea soddisfazione delle esigenze di interesse pubblico.
Ed è questo ciò che è avvenuto nel caso di specie, dove, a fronte della concentrazione sul mappale 749 della capacità edificatoria di tutto l’ambito di proprietà, è stata prevista la destinazione ad attrezzature di interesse comune per l’altro mappale n. 223.
In tale ottica perequativa, le nuove previsioni non appaiono così penalizzanti come prospettate dalla difesa istante, anche in ragione dell’ulteriore considerazione per cui le possibilità di utilizzazione anche della parte di proprietà destinata ad uso comune non sono state riservate esclusivamente alla mano pubblica.
Come, invero, riconosce espressamente la stessa difesa istante nella sua ultima memoria, le previsioni di piano non escludono che la realizzazione delle opere necessarie per gli spazi di uso comune siano affidabili anche alla proprietà privata, che quindi può trarre vantaggio in ogni caso dall’impiego ad uso pubblico della porzione di proprietà.
Il che consente di escludere, secondo il costante insegnamento dettato a partire dalla sentenza della Corte .Costituzionale n. 179/99 e dell’A.P., C.d.S, n. 7/2008, che nella fattispecie non sia configurabile un vincolo di contenuto espropriativo, trattandosi in realtà, proprio per le ragioni testè ricordate, di un vincolo conformativo della proprietà".

sentenza tar Veneto 13 del 2013

L’area di cava comprende non solo il “buco” ma anche le zone circostanti funzionali all’attivitĂ 

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 18 del 2013, giĂ  allegata al post che precede, ha ritenuto illegittima una autorizzazione ad ampliare una attivitĂ  dei cava.

Il Comune ricorrente aveva sostenuto la violazione dell’art. 13 della L.R. n. 44/1982, in quanto il calcolo effettuato per accertare il rispetto del limite di escavazione dettato dalla normativa regionale non risultava corretto, essendo basato su un erroneo presupposto. Invero, il computo operato dalla Regione individuava quale superficie del territorio comunale destinata all’attività di cava la sola area interessata direttamente dall’escavazione, dimenticando che l’attività di cava coinvolge non solo lo spazio strettamente destinato allo scavo, ma anche l’area circostante, utilizzata per l’accumulo dei materiali, agli spazi di manovra dei mezzi, nonché dalle operazioni di carico e scarico dei materiali, essendo tutte attività funzionalmente riconducibili all’attività di cava.

Scrive il TAR: "Un primo e sicuramente assorbente profilo di illegittimità del provvedimento impugnato riguarda il criterio in base al quale è stata definita l’estensione dell’area di cava, che secondo il Comune non andrebbe limitata alla sola superficie di scavo (il “buco” ricavato dalle escavazioni, come più semplicisticamente definito), ma dovrebbe estendersi anche alle altre zone strettamente e funzionalmente collegate con l’area in concreto escavata.
Parte ricorrente invoca a sostegno della propria tesi interpretativa la sentenza n. 5186/2008, con la quale il Consiglio di Stato, Sesta Sezione, nel pronunciarsi in ordine al giudizio instaurato dallo stesso Comune nei confronti delle medesime parti oggi intimate avverso la delibera regionale che aveva autorizzato l’apertura e la coltivazione della Cava Betlemme, ha affermato che per area di cava deve intendersi non solo l’area di escavazione, ma l’intera area destinata ad attività di cava, comprensiva, oltre allo scavo, anche di quella di accumulo dei materiali, di manovra e di carico e scarico, in quanto comunque funzionale all’attività di cava.
A tale tesi, la difesa controinteressata oppone una successiva pronuncia della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, n. 1785/2011, ancora una volta coinvolgente le parti qui costituite, nella quale è stato affermato che, al fine di stabilire quale sia la superficie della cava, agli effetti del calcolo del 3%, bisogna fare riferimento a quella parte in cui vengono effettuate le operazioni che consistono nella estrazione e sistemazione del materiale estratto, non potendosi computare l’ambito circonvicino, ove può essere presente, anche occasionalmente, il passaggio dei mezzi che accedono all’area di cava.
Tale diversa interpretazione, condivisa dalla Regione, consentirebbe quindi di ridurre l’ambito da considerare al fine del rispetto del limite di sfruttamento del territorio comunale, il quale nella fattispecie risulterebbe osservato.
Osserva il Collegio che, in realtà, da una lettura delle due pronunce non è rilevabile un vero e proprio diverso orientamento, ma piuttosto la sostanziale espressione del medesimo principio.
Va dato atto che la prima sentenza è stata espressa in occasione della valutazione della legittimità delle delibera che aveva autorizzato l’apertura della cava Betlemme con riguardo alla VIA : tuttavia, non può essere ignorato il fatto che la definizione ivi contenuta di “area interessata dalla cava”, sebbene poi utilizzata al fine di specificare la funzione della VIA ai fini della valutazione dell’impatto ambientale derivante dall’apertura della nuova cava, non contrasti con quello successivamente espresso nella seconda sentenza.
Invero, se la più ampia definizione è stata resa dal primo giudice al fine di assicurare che il giudizio di VIA considerasse complessivamente l’impatto sul territorio derivante non solo dall’escavazione, ma anche dalle attività funzionali a quella di cava, esaminando attentamente la seconda pronuncia, non si può concludere nel senso che debba essere considerata solo l’area di escavazione.
Anche il secondo giudice ha infatti rilevato come l’estensione della cava, ai fini del rispetto del limite del 3%, se non deve estendersi alle zone in cui non vi è un diretto coinvolgimento in rapporto all’attività estrattiva, cionondimeno, deve essere comunque considerato l’ambito interessato dalle attività di estrazione e sistemazione del materiale estratto.
In questo modo è inevitabile concludere nel senso che il computo dell’area di cava deve tenere conto dell’area effettivamente scavata, ma anche delle zone contermini parimenti utilizzate ai fini dello svolgimento dell’attività di scavo, ad essa funzionali, quali sono in primo luogo quelle dedicate alla sistemazione e movimentazione del materiale estratto.
Non può, invero, logicamente negarsi che anche tale, più estesa superficie, oltre al mero “buco” di scavo, debba essere presa in considerazione, essendo area comunque funzionale in modo diretto ed inequivocabile con l’attività di cava e quindi assibilabile all’area di cava.
Se può anche rivelarsi opinabile comprendere le strade percorse dai mezzi impiegati per il trasporto del materiale, non può tuttavia escludersi che altre aree destinate alle lavorazioni o agli accumuli di materiale debbano essere computate.
Il che comporta, in accoglimento del primo motivo di ricorso, che il computo da effettuare al fine di accertare il rispetto del limite percentuale di sfruttamento del territorio del Comune di Sommacampagna debba essere rivisto, tenendo conto delle indicazioni sopra evidenziate, onde assicurare il rispetto del territorio comunale ed evitare un’eccessiva compromissione dello stesso per effetto dell’ampliamento dell’attività di cava ivi esistenti".

L’intervento ad adiuvandum deve essere proposto e notificato (anche al ricorrente) solo dopo il deposito in Segreteria del ricorso principale

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

Il TAR Veneto, con la sentenza n. 18 del 2013, dichiara inammissibile un intervento ad adiuvandum di Legambiente in un caso nel quale un Comune aveva impugnato una autorizzazione regionale per ampliare una cava.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per due motivi: perchè è stato notificato prima che il ricorrente principale depositasasse il suo ricorso presso la Segreteria del TAR e perchè non è stato notificato anche al ricorrente principale.

Scrive il TAR: "laddove si volesse intendere, come appare desumibile dal tenore dell’atto, che la posizione fatta valere dall’associazione sia quella di interveniente ad adiuvandum, anche in questa seconda ipotesi l’intervento risulta inammissibile o irricevibile in quanto notificato in epoca pressoché contestuale all’avvenuta notifica del ricorso principale da parte del Comune di Sommacampagna.
Va invero ricordato che, in base ai principi generali, la semplice notifica del ricorso non è in grado di instaurare il rapporto processuale, che non può dirsi formato fino a quando il ricorrente non abbia portato la lite a conoscenza del giudice, e cioè col deposito del ricorso presso la segreteria del Tribunale; pertanto, prima di tale momento, l'atto d'intervento ad adiuvandum è inammissibile, essendo la sua proposizione subordinata alla previa notificazione a tutte le parti del rapporto processuale, ai sensi dell'art. 38 R.D. 17 agosto 1907 n. 642, e ciò non può avvenire quando non si è determinato il presupposto per l'instaurazione del giudizio ed ancora non vi è neppure un rapporto processuale.
Poiché quindi, in base alle disposizioni del codice del processo amministrativo, la costituzione del rapporto processuale può ritenersi avvenuta all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito presso la Segreteria del Tribunale amministrativo regionale del ricorso con la prova delle effettuate notifiche (a differenza che nel processo civile, ove il giudizio inizia con la citazione) e considerato che, in base all’art. 50 c.p.a., l’intervento va proposto con atto diretto al giudice adito, il che presuppone già costituito il rapporto processuale da parte del ricorrente principale, ne consegue che nel caso di specie, ove l’intervento risulta notificato in epoca pressoché contestuale alla notifica del ricorso principale, non ancora depositato a cura del ricorrente Comune di Sommacampagna, la posizione processuale dell’associazione Legambiente quale interveniente ad adiuvandum deve considerarsi inammissibile.
In ogni caso, anche voler ritenere superabile la suddetta eccezione in quanto sanabile, nonostante la “precocità”, attesa la successiva instaurazione del rapporto processuale da parte del ricorrente principale per effetto del deposito del ricorso, l’intervento risulta inammissibile anche per mancata notifica al ricorrente principale: l'atto di intervento ad adiuvandum deve infatti essere notificato a pena di inammissibilità, anche ai ricorrenti, in quanto il collegamento processuale fra interventore e ricorrente deve essere formalmente stabilito nei modi previsti dalla legge".

sentenza tar Veneto 18 del 2013

Il Comune può subordinare il rilascio del certificato di agibilitĂ  alla presentazione di atto di vincolo di destinazione d’uso a prima casa

25 Gen 2013
25 Gennaio 2013

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 324 del 21 gennaio 2013, ha stabilito che la prescrizione secondo cui, il certificato di agibilità di un immobile sarebbe stato rilasciato per ogni singola unità abitativa dopo che l’Amministrazione comunale ne avesse conosciuto l’acquirente e quest’ultimo avesse sottoscritto l’atto di vincolo di prima casa non è da ritenersi un atto illegittimo per eccesso di potere o per violazione di legge.

In questa articolata sentenza, il Consiglio di Stato ricorda come la convenzione di lottizzazione sia da in inquadrare negli accordi sostitutivi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 (Cass. civ. Sez. Unite , 1 luglio 2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29 febbraio 2008, n. 781; Sez. IV, 2 agosto 2011, n. 4576). “Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva”.

A chi sostiene la nullità della clausola contenuta nello schema di atto d’obbligo che accede alla convenzione di lottizzazione e subordina il rilascio del certificato di agibilità dell’immobile alla presentazione dell’atto di vincolo di prima casa, il Consiglio risponde che “la clausola convenzionale ha solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi segmenti procedimentali, postergando la valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione degli immobili è stata assentita, e non già di inserire nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore. Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse sono state edificate proprio al fine di essere adibite a prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi”.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza CDS 324 del 2013

Schema di decreto legislativo recante il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicitĂ , trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni

25 Gen 2013
25 Gennaio 2013

Lo schema è stato approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri n. 66 del 22 gennaio 2013.

Lo schema può essere interessante, allo stato, per l'aggiornamento delle previsioni evolutive dei programmi gestionali informatici in ordine alla prevista pubblicazione on line di tutti gli elaborati ed anche delle proposte prima dell'approvazione.

Trasparenza_schema_Dlgs

estratto schema Dlgs

I terzi possono contestare DIA e SCIA “esclusivamente” nel modo previsto dall’art. 19, comma 6 ter, della l. 241/90

24 Gen 2013
24 Gennaio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 12 del 2013 contiene un interessante esame dei rimedi spettanti aim terzi che intendono contestare una DIA o una SCIA.

Scrive il TAR: "Ritiene il Collegio che nella specie debba trovare applicazione ratione temporis, in considerazione dell’epoca in cui i ricorrenti hanno presentato il ricorso (escludendosi così la riferibilità temporale al momento in cui la d.i.a. si è perfezionata), quale norma di contenuto processuale, la nuova disciplina di cui all’art. 19, comma 6 ter della l. 241/90.
Orbene, per effetto della disciplina così introdotta è stata definitivamente chiarita la natura della dichiarazione di inizio attività e con essa la disciplina del rimedio assegnato al terzo per la tutela della propria posizione nei confronti degli interventi eseguiti in conseguenza della d.i.a.: è stato quindi previsto che "la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31 commi 1, 2 e 3 D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104".
L'utilizzo dell'avverbio "esclusivamente" ha escluso ogni dubbio circa la tipologia di azione esperibile.
Non è quindi accoglibile la ricostruzione di parte ricorrente, così come prospettata quale petitum principale, nel momento in cui si impugna il silenzio negativo (come se si fosse in presenza di un provvedimento tacito) e, nel contempo, propone un'azione di condanna (c.d. di adempimento) dell'Amministrazione all'esercizio del potere inibitorio.
La modifica legislativa sopra ricordata si è quindi discostata, almeno in parte, dall'impostazione dell'Ad. plen. n. 15 del 2011 e, ciò, nella parte in cui l'eventuale silenzio della stessa Amministrazione non può più configurare un'ipotesi di provvedimento tacito di diniego dell'adozione del provvedimento restrittivo.
Ne consegue che il soggetto, terzo ed eventualmente leso, non può impugnare un provvedimento che in realtà non è mai venuto materialmente in esistenza, essendo, com'è tutt'ora, obbligato a presentare un'apposita istanza finalizzata a sollecitare l'Amministrazione affinché questa stessa svolga un'ulteriore fase procedimentale e istruttoria.
Il controinteressato potrà quindi validamente attivare il proponimento di un'istanza di provvedere e di un successivo, ed eventuale, ricorso avverso l'inerzia amministrativa e, ciò, ai sensi di quanto previsto dall'art. 31 Cod. proc. amm.
L’art. 19, comma 6-ter, consente pertanto al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (a tale proposito la parola <<esclusivamente>> è stata introdotta in sede di conversione del decreto
legge), vale a dire la sollecitazione all’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, la proposizione dell’azione prevista dall’art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioé l’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione.
Ne consegue che, affinchè possa configurarsi il silenzio dell’amministrazione, suscettibile di dare avvio all’azione disciplinata dall’art. 31 c. p.a., il terzo deve aver “sollecitato” l’amministrazione ad esercitare i poteri di verifica ed eventualmente interdittivi.
Tale sollecitazione deve a sua volta risultare idonea a porre in capo alla P.A. l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della P.A. stessa, un silenzio inadempimento, giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo con l’azione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
A questo punto, prima di valutare l’idoneità della comunicazione presentata dai ricorrenti al fine di sollecitare il Comune ad intervenire in ordine ai lavori intrapresi dalla controinteressata, il Collegio deve esaminare l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata dalla difesa istante con riguardo alla disciplina contenuta nell’art. 19, comma ter, eccezione che tuttavia non ritiene fondata, non rilevandosi i profili di contrasto con i principi contenuti nella Carta costituzionale ed in particolare con quelli di garanzia della difesa processuale delle parti.
Invero, va al riguardo osservato come da un lato, la nuova disciplina abbia inteso assicurare ai soggetti che effettuano la dichiarazione di inizio attività, nell’ottica della semplificazione amministrativa, una garanzia di affidamento, per cui, una volta decorsi i termini di legge dal momento della presentazione della d.i.a., la posizione del dichiarante si consolida, dando luogo alla legittimità dell’intervento denunciato in assenza dell’esercizio da parte dell’amministrazione del tempestivo
esercizio dei poteri interdittivi (salvo in ogni caso, entro le ipotesi previste normativamente, l’esercizio dei poteri di autotutela).
Nella composizione degli opposti interessi e con particolare riguardo alla posizione del terzo controinteressato, che si assume leso dall’esecuzione dell’intervento effettuato a seguito della d.i.a., non è ravvisabile una compromissione dei diritti di difesa, in quanto comunque è consentito al terzo l’avvio del procedimento per sollecitare l’intervento verificatorio da parte dell’amministrazione ed eventualmente repressivo, benché mediante il solo strumento del silenzio.
Non appare quindi pregiudicata in modo sostanziale e in termini di contrasto con i principi costituzionali la posizione del terzo, da cui l’infondatezza dell’eccezione pregiudiziale sollevata dalla difesa istante.
Passando quindi ad esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalla difesa resistente, in considerazione dell’inidoneità delle comunicazioni effettuate dai ricorrenti a sollecitare l’esercizio dei poteri di verificazione della natura degli interventi in corso di esecuzione per effetto della d.i.a. presentata dalla controinteressata ed eventualmente dei poteri repressivi degli abusi accertati, ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata e quindi il ricorso sia da considerarsi ammissibile.
Invero, dal tenore delle due comunicazioni, effettuate rispettivamente in data 18 e 22 novembre 2011, se è possibile ritenere che in occasione della prima, gli interessati abbiano in principal modo interso richiedere all’amministrazione l’espletamento di un sopralluogo, al fine di verificare la conformità delle opere alla dichiarazione n. 299/11 (con riguardo al rispetto della distanza delle scala dai confini e la larghezza della scala stessa), appare invece inequivocabile la volontà di sollecitare l’esercizio dei poteri di verifica ed eventuale interdizione dei lavori in corso di esecuzione come emergente dalla comunicazione risalente al 22 novembre, ove è stata fatta espressa richiesta di interruzione dei lavori, rilevando l’incidenza delle opere su parti condominali e che gli interventi erano stati avviati senza il necessario consenso dei condòmini.
Il tenore di tale comunicazione appare quindi esplicito e quindi idoneo a costituire la sollecitazione di cui all’art. 19 comma 6-ter citato".

sentenza tar Veneto 12 del 2013

Corte Costituzionale: le Regioni non possono derogare in via generale alle distanze previste dal D.M. 1444 del 1968

24 Gen 2013
24 Gennaio 2013

Lo ribadisce la sentenza della Corte Costituzionale n. 6 del 23 gennaio 2013.

Scrive la Corte: "....Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost.

Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo – il governo del territorio – che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).

Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.

La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate...".

Sentenza Corte Costituzionale 6 del 2013

 

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