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Martedì 8 ottobre udienza pubblica in Corte Costituzionale sull’impugnazione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri della L.R. 50/2012 sul commercio

04 Ott 2013
4 Ottobre 2013

  Reg. ric. n. 36 del 2013 n° parte 1 pubbl. su G.U. del 10/04/2013 n. 15

per Regione Veneto:

Bruno BAREL

Ezio ZANON

Daniela PALUMBO

Andrea MANZI

 Ricorrente

Presidente del Consiglio dei Ministri

Resistenti

Regione Veneto

Oggetto:
Commercio - Norme della Regione Veneto - Esercizi di vicinato - Apertura, modificazioni di superficie, mutamento di settore merceologico, trasferimento di sede e subingresso - Assoggettamento a SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) da presentarsi allo sportello unico per le attività produttive (SUAP) - Ricorso del Governo - Denunciato esonero dalla verifica di assoggettabilità a VAS (valutazione ambientale strategica) per le varianti conseguenti a procedura di SUAP afferenti a strutture di vendita - Contrasto con le norme statali - Violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
- Legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, art. 17.
- Costituzione, art. 117, comma secondo, lett. s).

Commercio - Norme della Regione Veneto - Medie strutture di vendita - Apertura, modificazioni di superficie, mutamento di settore merceologico, trasferimento di sede, subingresso - Assoggettamento ad autorizzazione rilasciata dallo sportello unico per le attività produttive (SUAP) ovvero, a seconda del tipo di attività e della superficie di vendita superiore o meno a 1.500 mq, a SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) da presentarsi al SUAP - Ricorso del Governo - Denunciato esonero dalla verifica di assoggettabilità a VAS (valutazione ambientale strategica) per le varianti conseguenti a procedura di SUAP afferenti a strutture di vendita - Contrasto con le norme statali - Violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
- Legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, art. 18.
- Costituzione, art. 117, comma secondo, lett. s).

Commercio - Norme della Regione Veneto - Grandi strutture di vendita - Apertura, modificazioni di superficie, mutamento di settore merceologico, trasferimento di sede, subingresso - Assoggettamento ad autorizzazione rilasciata dallo sportello unico per le attività produttive (SUAP) ovvero, nei casi di riduzione di superficie, mutamento del settore merceologico, modifica della ripartizione e subingresso, a SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) da presentarsi al SUAP - Ricorso del Governo - Denunciato esonero dalla verifica di assoggettabilità a VAS (valutazione ambientale strategica) per le varianti conseguenti a procedura di SUAP afferenti a strutture di vendita - Contrasto con le norme statali - Violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
- Legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, art. 19.
- Costituzione, art. 117, comma secondo, lett. s).

Commercio - Norme della Regione Veneto - Grandi strutture di vendita - Requisiti urbanistici e ambientali - Prevista applicazione della normativa sulla VIA (valutazione di impatto ambientale) limitatamente alle grandi strutture aventi superficie di vendita compresa tra 2.501 e 8.000 mq ovvero superiori a 8.000 mq, rispettivamente assoggettate alla procedura di verifica di assoggettabilità a VIA, o screeening, ed alla procedura di VIA propriamente detta - Indiscriminata esenzione dalla verifica di assoggettabilità a VIA per tutte le strutture con superfici di vendita da 150 a 2.500 mq nei comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti e da 250 a 2.500 mq nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti - Ricorso del Governo - Denunciata illegittima restrizione del campo di applicazione della VIA - Contrasto con le norme statali - Violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
- Legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, art. 22.
- Costituzione, art. 117, comma secondo, lett. s).

Commercio - Norme della Regione Veneto - Strutture di vendita a rilevanza regionale - Assoggettamento dei relativi interventi edilizi ad un accordo di programma ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 267 del 2000, anche in variante ai piani territoriali - Ricorso del Governo - Denunciata possibilità che l'accordo di programma determini deroghe ulteriori rispetto alle varianti agli strumenti urbanistici contemplate dal predetto art. 34 - Contrasto con le norme del codice dei beni culturali e del paesaggio - Violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio.
- Legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, art. 26.
- Costituzione, art. 117, comma secondo, lett. s); d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 135 e 143.

Norme impugnate

Num. Art. Co. Nesso  
legge della Regione Veneto 28/12/2012 50 17   
legge della Regione Veneto 28/12/2012 50 18   
legge della Regione Veneto 28/12/2012 50 19   
legge della Regione Veneto 28/12/2012 50 22   
legge della Regione Veneto 28/12/2012 50 26   

Parametri costituzionali

Num. Art. Co. Nesso  
Costituzione 117  (collegamento a Normattiva)

Udienza Pubblica del 08/10/2013 rel. CARTABIA

ricorso Corte Costituzionale legge regionale veneta commercio

La prescrizione degli interessi moratori connessi agli oneri di urbanizzazione

04 Ott 2013
4 Ottobre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza del 05 settembre 2013 n. 4462, si occupa degli interessi moratori collegati agli oneri di urbanizzazione.

I Giudici di Palazzo Spada confermano la sentenza appellata del T.A.R. Campania, Salerno, n. 2599/2003, ove si era affermato che: “il termine di prescrizione per gli oneri di urbanizzazione è di dieci anni ed “inizia il suo corso soltanto nel momento in cui è previsto l’adempimento della relativa obbligazione e quindi . . . dalla data di rilascio del provvedimento concessorio”, mentre per il costo di costruzione decorre dallo scadere di sessanta giorni dalla data di ultimazione delle opere”, e che: “gli interessi dovuti, da qualificarsi moratori “perché fissati convenzionalmente per l’ipotesi di ritardo nell’adempimento dell’obbligazione”, sono “maturati via via, di giorno in giorno, fino a che non è intervenuta la prescrizione del credito” e anche per essi il termine di prescrizione è decennale, non potendosi applicare il termine quinquennale poiché “essendo il credito principale unico e da estinguersi in un’unica soluzione, anche gli interessi moratori . . . per la loro natura di credito accessorio e in difetto di una pattuizione che ne prevedesse una corresponsione periodica, sono risultati soggetti al medesimo regime del credito cui afferivano”:

- infine “l’obbligazione di interessi è si collegata con vincolo di accessorietà all’obbligazione principale, ma solo nel momento genetico, cosicché una volta sorta le sue vicende risultano indipendenti da quelle dell’obbligazione principale”.

La sentenza in esame approfondisce tali considerazioni asserendo che: “Il Collegio rileva che gli interessi moratori, quali sono quelli oggetto di pattuizione intervenuta tra le parti, non costituiscono esclusivamente “frutto civile” (ex art. 820, comma terzo, c.c.), quali gli interessi su capitali, dovuti per effetto del godimento che altri abbia del denaro, ovvero sono l’effetto di una “produzione di pieno diritto” afferente a crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro (ex art. 1282 c.c.).

La funzione degli interessi moratori convenzionalmente pattuiti è (anche) quella di determinazione convenzionale dell’entità del risarcimento del danno derivante da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore (art. 1224, comma secondo). Tale determinazione ha carattere esaustivo, senza che il creditore possa richiedere – anche mediante prova di un danno di entità patrimoniale maggiore – ulteriori somme a titolo di risarcimento del danno per la predetta causale.

In definitiva, per effetto della pattuizione degli interessi moratori, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria, e fintanto che questo perdura, il creditore “originario” diviene altresì titolare di un ulteriore diritto di credito (alla percezione degli interessi moratori), derivante dall’inadempimento; ed il termine di prescrizione di tale diritto non può che decorrere dal momento del prodursi di tale “fatto”, e fintanto che questo non viene a cessare con l’adempimento dell’obbligazione principale.

In altre parole, l’obbligazione principale costituisce il “presupposto” dell’obbligazione accessoria costituita dal pagamento degli interessi moratori, ma – occorre precisare - tale “accessorietà” attiene al necessario collegamento con detta obbligazione, sia in quanto l’esistenza di questa è il presupposto dell’obbligazione degli interessi; sia in quanto il quantum della prima costituisce il parametro di calcolo della misura (in percentuale) degli stessi interessi moratori.

In questo senso deve essere intesa (e dunque condivisa) l’affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale il vincolo di accessorietà all’obbligazione principale sussiste solo “nel momento genetico”.

Si intende cioè affermare che tale “momento genetico” non deve essere inteso come quello di insorgenza (e dunque di conseguente “indissolubilità”) di entrambe le obbligazioni, posto che la prima nasce da propria fonte, che può essere il contratto, ovvero, come nel caso di specie, l’esercizio di potestà pubbliche, mentre la seconda, pur trovando nella medesima fonte della prima la propria previsione, nasce dall’inadempimento di quella.

Tale “momento genetico” deve essere invece inteso come momento di collegamento strutturale tra le due obbligazioni, trovando la seconda nella prima obbligazione la propria “ragion d’essere” e il presupposto della determinazione della propria misura.

Ciò chiarito e posto che la fonte ed il momento di insorgenza dell’obbligazione accessoria diverge da quello dell’obbligazione principale, non può che essere condiviso quanto affermato dal I giudice in ordine al fatto che “una volta sorta le sue vicende risultano indipendenti da quelle dell’obbligazione principale”, di modo che il regime di prescrizione (e la decorrenza del relativo termine) sono del tutto autonomi.

Ciò comporta che la intervenuta prescrizione del diritto di credito afferente all’obbligazione principale non comporta (né comunque rileva) ai fini della prescrizione dell’obbligazione accessoria.

Alle considerazioni sinora esposte, occorre ancora aggiungere che – contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante – non può trovare applicazione, con riferimento agli interessi moratori, il termine di prescrizione quinquennale.

Ed infatti, se gli interessi moratori costituiscono il risultato di una determinazione convenzionale del risarcimento del danno dovuto al creditore per le conseguenze derivanti dall’inadempimento, e dunque costituiscono l’oggetto di un (autonomo) diritto di credito, essi non possono rientrare nella eccezionale previsione dell’art. 2948 n. 4 c.c..

Ciò in quanto essi hanno natura affatto particolare e non costituiscono somma da pagarsi periodicamente, poiché la “periodicità” (ossia il riferimento temporale ad anno), rappresenta non già un termine di pagamento, quanto un momento di determinazione, convenzionalmente definito, della misura del risarcimento del danno derivante da inadempimento dell’obbligazione pecuniaria”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza CDS 4462 del 2013

 

La destinazione a verde agricolo non è un vincolo strumentale soggetto alla decadenza quinquennale

03 Ott 2013
3 Ottobre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n.  4472 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "4.1.- La Sezione osserva che il limite temporale del quinquennio, riguardante l'efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che comportino l'inedificabilità, è valevole unicamente per i vincoli che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, e non nel caso di vincolo strumentale (Consiglio di Stato sez. IV 13 febbraio 2013 n. 907) I vincoli soggetti a detta decadenza sono solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio; tali quindi non sono le previsioni di un piano regolatore che destinano un'area a verde, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono (Consiglio di Stato sez. IV 6 maggio 2013 n. 2432). Invero, la limitazione all'esercizio dello “ius aedificandi”, rinveniente dalla destinazione a verde, non configura, di per sé, l'imposizione di un vincolo sostanziale ed uno svuotamento incisivo del diritto di proprietà, costituzionalmente garantito, tale da rendere il suolo inutilizzabile rispetto alla sua naturale vocazione ovvero da diminuirne significativamente il valore di scambio. Non inibisce cioè necessariamente in radice il godimento del bene da parte del proprietario, ma può circoscriverne soltanto le modalità esplicative, attuabili anche ad iniziativa del medesimo proprietario, purché in conformità alla predetta destinazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 23 dicembre 2010, n. 9372). In particolare deve ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest'ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l'immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione (Consiglio di Stato, sez. V, 7 agosto 1996 n. 881)".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS 4472 del 2013

Per realizzare una canna fumaria nel muro comune non serve l’autorizzazione condominiale

03 Ott 2013
3 Ottobre 2013

Il T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, con la sentenza del 27 settembre 2013 n. 1985, afferma che le canne fumarie realizzate nel muro comune del condominio non necessitino dell’autorizzazione dell’assemblea condominiale.

 

Nello specifico si tratta di interventi che ogni condomino può realizzare da solo ex art. 1102 c.c. secondo cui: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

 

A tal fine si legge che: “Il parametro valutativo dell'attività edilizia svolta dai privati consiste nell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina urbanistica, lasciando sempre salvi i diritti dei terzi; perciò la legittimità di un'autorizzazione edilizia non può comunque condizionare la regolazione dei rapporti tra parti private.

Conseguentemente non sussiste un obbligo generalizzato per l'Amministrazione di verificare che non sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia; tuttavia, essa ha il potere-dovere di verificare in capo al richiedente un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, al fine di accertare il requisito della sua legittimazione.

Circa l'ampiezza dei poteri istruttori, a ciò finalizzati, è stato, peraltro, precisato che non si tratta di obbligare la P.A. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non aggravare il procedimento. Ciò premesso, nella specie non si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio, in quanto si tratta di intervento riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (cfr., in relazione ad analoga fattispecie concernente l’installazione di canna fumaria, TAR Toscana, 29 aprile 2009, n. 724, nonché Id. 27 settembre 2012, n. 1569.

In sostanza, non può dubitarsi della riconducibilità all'ambito degli interventi contemplati dall'art. 1102 c.c. di tutte le modificazioni - apportabili dal singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione - che consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (ferme restando, beninteso, le iniziative di tutela giurisdizionale esperibili dai condomini in sede civile)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Salerno n. 1985 del 2013

Nota sull’aumento dell’IVA al 22%

03 Ott 2013
3 Ottobre 2013

Dal 1° ottobre 2013 l'aliquota IVA del 21% sale al 22%.

Sull'applicazione dell'aumento pubblichiamo una nota per gentile concessione dell'autore  Società & Professionisti srl di Malo (VI).

Speciale Informativa_Aumento Iva al 22

La bonifica di un sito inquinato può essere addebitata all’acquirente incolpevole? Il Consiglio di Stato dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

Segnaliamo sul punto l'ordinanza del Consiglio di Stato n. 21 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Le conclusioni dell’Adunanza plenaria sulle regole che si ricavano dalla legislazione nazionale.

25. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:

1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett.1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;

2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);

3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’Amministrazione competente (art. 244, comma 4);

4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);

5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

 Il punto di vista dell’Adunanza Plenaria sulla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria.

 43. Seguendo sul punto le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (punto n. 24), pubblicata sulla GUCE del 6 novembre 2012, C-388, l’Adunanza Plenaria ritiene di indicare succintamente il suo punto di vista sulla soluzione da dare alla questione pregiudiziale sottoposta.

44. L’Adunanza Plenaria ritiene che, nonostante la serietà degli argomenti su cui si fondano i dubbi interpretativi di cui si è trattato, la questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia possa essere risolta in senso negativo, escludendo cioè che i richiamati principi comunitari in materia ambientale ostino ad una disciplina nazionale che non consente all’autorità competente di imporre misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica in capo al proprietario del sito non responsabile della contaminazione, prevedendo in capo al medesimo solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del fondo dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica secondo il meccanismo sopra descritto dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare.

45. Risulta significativo a tale proposito richiamare la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 9 marzo 2010, C-378/08.

Questa sentenza è stata pronunciata, in seguito ad una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, su una fattispecie diversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio e proprio tale diversità tra fattispecie, giustifica la presente domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Ciò nonostante, come si andrà ad esporre, alcuni principi espressi dal Giudice comunitario in quella sentenza potrebbero rivelarsi risolutivi anche nel caso in esame.

In particolare, nella sentenza 9 marzo 2010, C-378/08, la Corte di giustizia ha affermato che, in applicazione del principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe sugli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento; gli operatori medesimi, pertanto, non devono farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito.

Più nel dettaglio, nella citata sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08 si legge (punti da 53 a 59):

- dagli artt. 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 si evince che, così come l’accertamento di un nesso causale è necessario da parte dell’autorità competente al fine di imporre misure di riparazione ad eventuali operatori, a prescindere dal tipo di inquinamento in questione, quest’obbligo è parimenti un presupposto per l’applicabilità di detta direttiva per quanto concerne forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso;

- un nesso di causalità del genere può essere agevolmente dimostrato quando l’autorità competente si trovi in presenza di un inquinamento circoscritto nello spazio e nel tempo, che sia opera di un numero limitato di operatori. Viceversa, non è questo il caso nell’ipotesi di fenomeni di inquinamento a carattere diffuso, per cui il legislatore dell’Unione ha giudicato che, in presenza di un inquinamento del genere, un regime di responsabilità civile non costituisce uno strumento idoneo quando detto nesso di causalità non possa essere accertato. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, quest’ultima si applica a questo tipo di inquinamentosolo quando sia possibile accertare un nesso di causalità tra i danni e le attività dei diversi operatori;

- la direttiva 2004/35 non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso di causalità; nella cornice della competenza condivisa tra l’Unione e i suoi Stati membri in materia ambientale, quando un elemento necessario all’attuazione di una direttiva adottata in base all’art. 175 CE non sia stato definito nell’ambito di quest’ultima, una siffatta definizione rientra nella competenza di questi Stati e, a tale proposito, essi dispongono di un ampio potere discrezionale, nel rispetto delle norme del Trattato, al fine di prevedere discipline nazionali che configurino o concretizzino il principio «chi inquina paga» (v., in tal senso, sentenza 16 luglio 2009, causa C-254/08, Futura Immobiliare e altri);

- da questo punto di vista, la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento;

- tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatorisolo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento(v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C-188/07,Commune de Mesquer), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività;

- quando disponga di indizi di tal genere, l’autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato. Conformemente all’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere può rientrare pertanto nella sfera d’applicazione di questa direttiva, a meno che detti operatori non siano in condizione di confutare tale presunzione.

46. Dai citati passaggi motivazionali, emerge, quindi, come, per il Giudice comunitario, il rapporto di casualità sia comunque elemento imprescindibile ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/35 Ce e del principio comunitario “chi inquina paga” in essa richiamato.

47. Tale conclusione, ovvero la necessità di accertare, eventualmente anche mediante presunzione, l’esistenza del rapporto di causalità, sembra, del resto, trovare conferma nella considerazione che il principio comunitario “chi inquina paga” affonda le sue radici storiche nell’omologo principio del diritto nazionale tedesco espresso con il termine «Verursacherprinzip», che letteralmente significa “principio del soggetto causatore”.

48. Depongono in tale direzione anche le Conclusioni presentate il 22 ottobre 2009 nello stesso procedimento C 378/08 dall’Avvocato Generale Juliane Kokott, in cui si legge:

- “una responsabilità svincolata da un contributo alla causazione del danno non corrisponderebbe all’orientamento della direttiva sulla responsabilità ambientale e non sarebbe neppure conforme a quest’ultima, qualora essa avesse l’effetto di attenuare la responsabilità del soggetto effettivamente responsabile, in forza della direttiva stessa, per i danni ambientali. Infatti, la direttiva costituisce proprio per l’operatore responsabile un incitamento ad attivarsi per la prevenzione dei danni all’ambiente e stabilisce che egli debba sopportare le spese per la riparazione dei danni che dovessero comunque verificarsi” (punto 98).

- “La questione dei presupposti per un esonero dell’operatore autore del danno dal pagamento dei costi di risanamento viene disciplinata, in particolare, all’art. 8 della direttiva sulla responsabilità ambientale. Eventuali più ampie fattispecie di esenzione dal pagamento dei costi minerebbero con ogni probabilità l’attuazione del principio «chi inquina paga» perseguita dalla direttiva. Esse attenuerebbero l’effetto di stimolo associato alla responsabilità prevista e modificherebbero la ripartizione dei costi giudicata equa dal legislatore comunitario” (punto 99).

- “ Se non si vuole svuotare di significato la responsabilità a titolo prioritario dell’operatore che ha causato il danno, l’art. 16, n. 1, della direttiva sulla responsabilità ambientale non deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possano individuare altri soggetti responsabili destinati a subentrare al predetto. Va respinta altresì l’ipotesi di individuare ulteriori soggetti responsabili chiamati a rispondere insieme e a pari titolo con l’autore in modo tale da diminuire la responsabilità di quest’ultimo” (punto 102).

49. Con questo non si vuol certo intendere che il principio “chi inquina paga” implichi un divieto assoluto di addossare a soggetti diversi dall’autore del danno i costi per l’eliminazione dei danni ambientali. Un simile divieto, infatti, citando ancora le conclusioni dell’Avvocato generale Kolkott, finirebbe per tradursi nella passiva accettazione di eventuali danni all’ambiente, nel caso in cui l’autore di questi non potesse essere chiamato a rispondere. Infatti, anche in caso di riparazione a carico della collettività, le spese dovrebbero essere sopportate da un soggetto che non è responsabile per il danno. Tuttavia, l’accettazione dei danni all’ambiente sarebbe incompatibile con la finalità di promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo. Il principio «chi inquina paga» è funzionale al raggiungimento di tale finalità, sancita non soltanto dal n. 2, ma anche dal n. 1 dell’art. 191 TFUE (ex art. 174 CE). Il detto principio non può essere inteso, quindi, in un senso tale da risultare in definitiva confliggente con la tutela dell’ambiente, ad esempio considerandolo idoneo a precludere la riparazione dei danni ambientali nel caso in cui l’autore degli stessi non possa essere chiamato a rispondere. Esso, in definitiva, sembra precludere una responsabilità per danni ambientali indipendente da un contributo alla causazione dei medesimi soltanto se ed in quanto essa abbia l’effetto di elidere quella incombente a titolo prioritario sull’operatore che ha causato i danni in questione.

Tuttavia, ed è questo il punto che sembra decisivo ai fini della risoluzione della questione, i principi del diritto dell’Unione in materia ambientale, pur non ostando, alle condizioni appena viste, ad una responsabilità svincolata dal rapporto di casualità, non sembrano, tuttavia, imporla, demandando la regolazione di queste forme sussidiarie di responsabilità al legislatore nazionale. Tali principi, quindi, non sembrano di per sé interferire con i limiti (sopra ricostruiti) che il legislatore nazionale ha voluto prevede alla responsabilità del proprietario non autore della contaminazione..

Conclusioni.

50. In conclusione, alla luce di quanto esposto, si rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione che di nuovo si trascrive:se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.

Atti da trasmettere alla Corte di giustizia.

51. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011, vanno trasmessi alla cancelleria della Corte mediante plico raccomandato in copia i seguenti atti:

- i provvedimenti impugnati con il ricorso di primo grado;

- i ricorsi di primo grado;

- le sentenze del T.a.r. appellate;

- gli atti di appello del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare;

- le memorie difensive depositate da tutte parti nel giudizio di appello, sia nella fase innanzi alla VI davanti che in quella davanti all’Adunanza Plenaria;

- la sentenza parziale con contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria pronunciata nel presente giudizio dalla Sesta Sezione, 21 maggio 2013, n. 2740;

- la presente ordinanza;

- copia delle seguenti norme nazionali: articoli da 239 a 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152; art. 99 del codice processo amministrativo.

Sospensione del giudizio.

52. Il presente giudizio viene sospeso, nelle more della definizione dell’incidente comunitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva".

Ordinanza CDS 21 del 2013

Anche i privati possono partecipare alla conferenza di servizi?

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

L’art. 9 della l. 241/1990 recita: “Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.

Tale disposizione è applicabile anche alla conferenza istruttoria e decisoria ex artt. 14 e ss. della l. 241/1990?

Parrebbe proprio di si.

La conferenza di servizi, soprattutto se istruttoria, non è ex se incompatibile con i principi generali dettati dagli artt. 9 e 10 della l. 241/1990 in materia di partecipazione procedimentale: nello specifico, infatti, l’apporto collaborativo dei privati può aiutare l’Amministrazione ad inquadrare correttamente gli interessi pubblico-privati connessi alla tematica da valutare e, di conseguenza, può permettere all’ente di adottare una decisone più ponderata.

In particolare, fermo restando che i soggetti proponenti possono partecipare di diritto alla conferenza de qua (cfr. l’art. 14-ter, c. 2-bis, l. 241/1990 secondo cui: “Alla conferenza di servizi di cui agli articoli 14 e 14-bis sono convocati i soggetti proponenti il progetto dedotto in conferenza, alla quale gli stessi partecipano senza diritto di voto”), gli altri soggetti-terzi hanno la facoltà di essere sentiti e di produrre documenti. Ovviamente, per quanto riguarda l’audizione di questi soggetti-terzi, vi è un forte potere discrezionale dell’Amministrazione.

A tal proposito si sottolinea che una parte della dottrina ha ormai pacificamente affermato che: L'istituto della conferenza di servizi è stato ritenuto, in passato, alternativo al procedimento e, pertanto, tale da escludere anche la partecipazione dei privati. La dottrina faceva leva sulla funzione acceleratoria degli istituti di partecipazione, che, si riteneva, mal si coniugava con gli appesantimenti della partecipazione (...) Gli approfondimenti successivi hanno messo in evidenza da un lato che fra gli istituti di partecipazione e quelli di semplificazione esiste un rapporto di reciproco condizionamento e integrazione, dall'altro che la funzione della conferenza di servizi è da ricercare piuttosto nella sua capacità di razionalizzazione della "amministrazione della complessità", in un contesto caratterizzato dalla multiforme presenza di istituzioni, pluralità crescente di interessi pubblici e privati. Non esiste quindi, incompatibilità fra le esigenze della partecipazione e la funzione dell'istituto.

In primo luogo, si è chiarito che la fase della partecipazione dei privati al procedimento non è affatto esclusa, ma deve aver luogo prima che, nella riunione conclusiva, la conferenza svolga la sua funzione essenziale, rivolta alla determinazione dell'assetto di interessi” (AA. VV., Diritto Amministrativo, a cura di F. G. Scoca, II ^ ed., 2011, Torino, pagg. 366, 367, 268).

Anche parte della giurisprudenza sembra essersi allineata a tale pensiero: “La conferenza di servizi è il luogo fisico e giuridico in cui i "servizi" (ossia le amministrazioni e i concessionari di servizi pubblici chiamati ad esprimere il proprio assenso su un determinato piano o progetto) sono chiamati ad un esame contestuale dei vari interessi coinvolti da un intervento che necessita di autorizzazione da parte della p.a., laddove gli unici soggetti privati, che devono partecipare, sono coloro che richiedono l'autorizzazione e la loro presenza possibilità da parte delle amministrazioni interessate di chiedere seduta stante chiarimenti ai soggetti proponenti e/o di far presenti eventuali esigenze istruttorie; invece i terzi possono solo chiedere di partecipare e la relativa decisione è rimessa al soggetto che presiede la conferenza, ma in ogni caso possono presentare memorie e documenti, dei quali si deve tenere conto in sede di motivazione dell'atto finale, sempre che si tratti di osservazioni pertinenti e a loro volta motivate” (T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 14.12.2012, n. 803); ed anche: “La conferenza di servizi convocata ai sensi dell'art. 87, comma 6, d. lg. n. 259 del 2003, è configurata come di tipo decisorio; ne consegue che, ferma la prevista partecipazione con diritto di voto degli enti locali, e dell'Agenzia per la protezione ambientale competente ai sensi dell'art. 14 l. 22 febbraio 2001 n. 36, quella con diritto di voto delle amministrazioni "interessate", come i ministeri (altresì con delega formale al rappresentante), è da prevedersi in quanto debbano rendere "intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati" (art. 14, comma 2, l. n. 241 del 1990), cioè manifestazioni di volontà previste dalla normativa ai fini del procedimento, e quindi, con specifico riguardo al Ministero per i beni e le attività culturali, se l'area interessata è oggetto di vincolo paesaggistico. Quanto ai privati deve essere assicurata la partecipazione, senza diritto di voto, del soggetto proponente il progetto, ai sensi del comma 2 bis dell'art. 14 ter della stessa l. n. 241 del 1990 (introdotto dall'art. 9 l. 18 giugno 2009 n. 69), restando possibile la partecipazione, nella forma dell'audizione ed a fini istruttori, di privati portatori di interessi che siano riconosciuti rilevanti nella valutazione del responsabile del procedimento” (Consiglio di Stato, sez. VI, 15.07.2010, n. 4575); ed ancora: “La partecipazione di soggetti privati (in veste informativa e collaborativa) alla conferenza di servizi (ora esplicitamente prevista dal legislatore, in seguito alle modifiche apportate all'istituto dalla l. 24 novembre 2000 n. 340) non può considerarsi interdetta - tanto meno a pena d'illegittimità - dal testo vigente all'epoca dei fatti di causa dell'art. 14 l. 7 agosto 1990 n. 241, che si ritiene abbia voluto, invece, rappresentare il modulo strutturale dell'istituto soltanto nel suo contenuto minimo” (T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 04.02.2003, n. 359).

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Marche n. 803 del 2012

Attività di inumazione ed esumazione e costruzioni cimiteriali e ricordi votivi: parere della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto esprime il proprio parere in relazione al vincolo culturale posto sui cimiteri con particolare riferimento alle

Attività di inumazione ed esumazione e costruzioni cimiteriali e ricordi votivi

Allegato Circ 27_2013

Il parere appare interessante perchè estende la valutazione anche alle opere realizzate per effetto di concessioni, anche perpetue.

SUAP e perequazione urbanistica: rapporto “protetto” o rapporto a rischio?

01 Ott 2013
1 Ottobre 2013

Venerdì 26 settembre ho partecipato al Convegno intitolato La legge “del fare” e le procedure semplificate per le attività produttive, tenutosi a Spinea sotto la sapiente ed appassionata regia dell’arch. Fiorenza dal Zotto.

Nel complimentarmi con i relatori per i loro qualificati interventi, vorrei approfittare dell’ospitalità di Venetoius – la cui autorevolezza e diffusione tra gli operatori del diritto e della pubblica amministrazione, soprattutto degli Enti locali, è un sicuro dato di fatto, riconosciuto più volte anche in occasione del citato Convegno – per sollecitare una discussione sul tema della legittimità della (presunta) perequazione (alla veneta) negli strumenti urbanistici e, in particolare, nelle operazione di sportello unico per le attività produttive (SUAP) in deroga (art. 3 L.R. 55/2012) o in variante (art. 4) a detti strumenti.

 L’argomento è stato, invero, toccato dall’arch. Dal Zotto, che nell’ambito del Convegno citato in premessa si è occupata delle novità introdotte in materia di SUAP dalla legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55, ma l’esiguità del tempo a disposizione, unitamente alla collocazione del suo intervento in ora ormai tarda, con l’attenzione e lo spirito critico degli astanti inevitabilmente affievolito, non hanno consentito l’approfondimento espositivo ed il conseguente dibattito che il tema avrebbe indubbiamente richiesto.

 Riservandomi di offrire un più meditato contributo alla discussione, che nel frattempo mi auguro possa registrare ben più autorevoli e qualificati apporti di tecnici della pianificazione e di giuristi in campo urbanistico, mi limito per ora a queste  considerazioni riportate nel documento sotto allegato.

dott. Roberto Travaglini - Confindustria Vicenza

Rapporto tra SUAP e perequazione_1.10.2013

L’industria insalubre non deve superare la normale tollerabilità

01 Ott 2013
1 Ottobre 2013

L’art. 216 del R. D. 27.07.1934 n. 1265 (T.U.L.S.) recita: “Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute de gli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi.

La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda, quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato.

Questo elenco, compilato dal Consiglio superiore di sanità, è approvato dal Ministro per l'interno, sentito il Ministro per le corporazioni, e serve di norma per l'esecuzione delle presenti disposizioni.

Le stesse norme stabilite per la formazione dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni altra fabbrica o manifattura che posteriormente sia riconosciuta insalubre.

Una industria o manifattura la quale sia inserita nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato.

Chiunque intende attivare una fabbrica o manifattura, compresa nel sopra indicato elenco, deve quindici giorni prima darne avviso per iscritto al podestà, il quale, quando lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può vietarne la attivazione o subordinarla a determinate cautele.

Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da L. 40.000 a L 400.000”.

 A tal proposito il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 24 settembre 2013 n. 4687 chiarisce che, per quanto concerne le industrie insalubri di prima classe costituite dagli allevamenti intensivi, l’autorizzazione può essere concessa e/o mantenuta solamente se le esalazioni e gli odori non superino il limite della normale tollerabilità: “Con riferimento alle previsioni dell’art. 216, cit., l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri” (di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”; detti interventi hanno concretizzato “le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”; mentre la sanzione comminata in forza della mancata realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la loro esecuzione ed efficienza”.

 Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999, vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che anch’esse debbano essere contenute entro limiti di tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo dell’Amministrazione locale.

 E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva. L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15 febbraio 2001, n. 766); inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V, 14 settembre 2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V, 19 aprile 2005, n. 1794).

 Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit., riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato, V, 24 marzo 2006, n. 1533)”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 4687 del 2013

 

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