L’ascensore esterno non è una “costruzione” ex art. 873 del codice civile e non si applica l’art. 79, comma 2, del DPR 380/2001

12 Dic 2012
12 Dicembre 2012

Una signora con problemi di deambulazione ha chiesto di realizzare un ascensore esterno. La richiesta è stata respinta, perchè,  secondo il Comune, all’intervento osterebbe il disposto dell’art. 79, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, a mente del quale in tema di realizzazione di opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche – e facendo eccezione all’ordinario regime di deroga alle norme sulle distanze – “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.

Il T.A.R. dell’Abruzzo,  con la sentenza n. 87 del 24 febbraio 2012, ha respinto il ricorso proposto dall'interessata avverso il diniego, evidenziando:

- che la tutela della salute e della vita di relazione dei soggetti portatori di handicap, pur rappresentando un valore di primaria importanza, non è assoluta e incondizionata, ma può subire limitazioni in ragione della tutela di valori di pari rilevanza;

- che, in particolare, il comma 2 dell’art. 79 testé citato dimostrerebbe che, a fronte di un’ordinaria prevalenza delle ragioni del portatore di handicap sugli interessi eventualmente contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio, non altrettanto potrebbe dirsi per gli immobili limitrofi, laddove il legislatore avrebbe ritenuto di assegnare prevalenza al loro diritto alla salute in funzione del quale risulta posta la norma di cui all’art. 873 cod. civ. (la cui ratio, come è noto, è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose o pericolose);

- che nella specie, premesso che la realizzazione dell’ascensore avrebbe comportato il mancato rispetto della distanza minima di tre metri dal fabbricato confinante, non vi sarebbe spazio alcuno per un’applicazione dell’eccezione prevista dall’ultima parte della disposizione, atteso che fra i due immobili esiste sì un cortile, ma tale cortile non risulta essere in comproprietà fra di essi né risulta l’esistenza di servitù di passaggio comune.

Il Consiglio di Stato, però, ha deciso in senso opposto, con la sentenza n. 6253 del 2012, scrivendo che:

"Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di costruire alla nozione di “costruzione” di cui all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.

Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente l’impianto di ascensore – al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale – rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile (cfr. Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 2011, nr. 2566).

4. Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell’inserimento della norma – come già rilevato - all’interno della disciplina volta all’eliminazione delle barriere architettoniche nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.

Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il primo giudice (e al quale gli odierni appellanti, soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso comune”, le quali non possono essere recepite in un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia.

Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14 giugno 1989, nr. 236, contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata in attuazione della legge 9 gennaio 1989, nr. 13, e che ancora oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).

L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno (...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari” (lett. E).

Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che la definizione della lettera E non presuppone affatto che le “unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché, anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche “più edifici”).

Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere l’ascensore per cui è causa non risulta essere in comproprietà fra i due condomini, non risulta però contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero, il T.A.R. si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune” nel senso sopra precisato).

Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001".

D.M.

sentenza CDS 6253 del 2012

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