L’anima misteriosa del cambio d’uso senza opere

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

In un appartamento a destinazione residenziale può essere insediato un ufficio, invocando il cambio d'uso senza opere?

L’art. 76, comma 1, punto 2, della L.R. n. 61/1985 stabiliva che il mutamento d’uso senza opere fosse subordinato a una autorizzazione onerosa. La disposizione è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 73 del 1991, con la conseguenza che, per un certo tempo, gli interpreti hanno ritenuto che il mutamento di destinazione d’uso senza opere fosse libero. Si riteneva, infatti, che il diverso utilizzo di un immobile rispetto alla sua destinazione urbanistica  fosse semplicemente espressione del diritto di proprietà, privo di rilevanza urbanistica. L’articolo 10, comma 2, del Testo Unico dell’Edilizia stabilisce che: “Le regioni stabiliscono con legge quali  mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, del’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività. Dopo di questo, la Regione Veneto non ha più disciplinato la materia e progressivamente la giurisprudenza, in mancanza di interventi legislativi,  ha vanificato la sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, trattando il cambio d'uso senza opere alla stessa stregua di quello con opere, con la conseguenza che non si riesce a capire se sussista oppure no una differenza tra le due figure.

La questione è stata riproposta davanti al TAR Campania di Salerno, che ha respinto il ricorso di un soggetto al quale era stato ordinato di ripristinare l'uso residenziale di un appartamento utilizzato invece come ufficio. L'interessato  ha proposto l'appello davanti al Consiglio di Stato, che gli ha dato ragione un po' per caso, ma con una motivazione dalla quale si evince che il cambio d'uso senza opere non è affatto libero, ma che bisogna tenere conto del famigerato carico urbanistico.

Cosa dice il Consiglio di Stato nella sentenza n.  2021 del 2014: "1.1. Il principio tempus regit actum impone di verificare se all'epoca in cui avvenne, la dichiarata variazione d'uso dell'immobile di proprietà dell'appellante, senza alcuna opera materiale, potesse concretare un’ipotesi di variazione essenziale al progetto approvato ai sensi dell’allora vigente articolo 8 (Determinazione delle variazioni essenziali), lettera a), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per aver comportato una variazione agli standard e al carico urbanistico, ai sensi del richiamato articolo 3 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 e se, effettivamente, vi fosse stato mutamento di destinazione tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario. Orbene, posto che il cambio di destinazione è avvenuto nel 1997 e non è stato accompagnato da opere di trasformazioni dell'immobile o di parte di esso, ma è stato di ordine meramente funzionale (su questo non vi è controdeduzione della appellata amministrazione comunale), esso non è, diversamente da quanto sostenuto dal Comune, avvenuto tra categorie diverse. Invero, secondo il Piano regolatore generale vigente nel 1997, l'uso "abitazione" e l’uso "studio professionale" non appartenevano a distinte categorie edilizie.  Dalla documentazione esistente agli atti, solo a seguito del sopraggiunto strumento urbanistico comunale pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Campania, n. 4 del 28 gennaio 2008, l'uso come studio professionale è transitato dalla categoria residenziale a quella distinta di terziario, come del resto precisato dall'art. 2 delle Norme tecniche di attuazione del citato strumento urbanistico. Nel 1997, l'uso professionale dell'appartamento in questione era, quindi, confome alla destinazione urbanistica prevista dal PRG comunale vigente, essendo l'immobile ubicato nella ZTO B "Residenziale".

1.2. La modifica di destinazione d'uso in questione non configura alcuna delle "variazioni essenziali" di cui all'articolo 8 della legge n. 47
del 1985, poiché non realizza alcuna variazione degli standard. Non vi è stata, infatti, alcuna opera edilizia o modifica strutturale 
dell'appartamento, circostanza quest'ultima che appare dirimente per stabilire se sussista la variazione essenziale prevista dal citato articolo 8, con la conseguente necessità della concessione edilizia. In sostanza, la differente utilizzazione, di tipo esclusivamente
funzionale, non ha determinato violazioni delle prescrizioni dello strumento urbanistico vigente nel 1997, non avendo dato luogo ad una trasformazione urbanistica, non avendo implicato alcun apprezzabile aggravio di carico urbanistico e non dando così luogo ad alcun fabbisogno di standard urbanistico posto che non si è verificato un cambio di categoria edilizia. Conseguentemente, l'irrogazione della sanzione di cui all'articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 non poteva essere adottata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 2021 del 2014

Per rinnovare col piano casa il patrimonio edilizio esistente devo per forza ampliare?

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Vi sottopongo il seguente quesito, che scaturisce da un caso pratico.

Un soggetto chiede di realizzare una demolizione e ricostruzione di un vecchio edificio legittimamente esistente al 31 ottobre 2013in zona territoriale propria, adeguatamente dimostrando che l’intervento è volto al rinnovamento del patrimonio edilizio esistente per il “il perseguimento degli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici , tecnologici e di sicurezza”. In particolare la ricostruzione porterà, tra l’altro, l’edificio alla classe energetica “A”.

Il tecnico presenta al Comune il progetto ai sensi dell’art. 3 della L.R. 14/2009 e s.m.i., in modo da potere usufruire della “deroga”, prevista dal comma 2, alle previsioni del regolamento comunale sulla distanza dai confini.

Il Comune risponde che, per poter accedere al regime derogatorio del comma 2, occorre che il progetto presenti, in aggiunta alle migliorie architettoniche e impiantistiche e agli interventi per il contenimento  energetico, anche un incremento del volume (trattandosi di edificio residenziale) ai sensi della lettera a) oppure ai sensi della lettera b) del comma 2 medesimo, i quali prevedono, rispettivamente, un incremento volumetrico fino al 70%  nel caso di ricostruzione dell’edificio in classe energetica “A” e un incremento graduato fino al’80% se l’edificio viene ricostruito con le tecniche di edilizia sostenibile ex L.R. n. 4 del 9 marzo 2007.

A mio modesto parere la tesi sostenuta dal Comune non sarebbe corretta. Ritengo che sussisterebbero almeno due argomenti che porterebbero a concludere che l’aumento volumetrico non fosse obbligatorio, purché ovviamente sussistano i requisiti precitati, vale a dire che l’edificio sia legittimamente esistente al 31 ottobre 2013, che si trovi in zona territoriale omogenea propria e che venga ricondotto ai vigenti standard qualitativi sotto i profili architettonico, energetico, tecnologico e di sicurezza.

Un primo argomento è di tipo letterale: l’art. 3, comma 3, della L.R. 14/2009 afferma che: “La demolizione e ricostruzione (…) può prevedere incrementi del volume e della superficie (…)”; l’uso dell’espressione “può” indica che si tratti di una facoltà e non di un obbligo.

Un secondo argomento è di tipo logico-sistematico: il comma 1 dell’art. 3 cit., in linea con le finalità generali della legge dichiarate all’art. 1,  afferma che: “La Regione promuove la sostituzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente”; lo scopo della normativa è quello di rinnovare e riqualificare l’esistente e il bonus volumetrico costituisce uno strumento di incentivazione per indirizzare il privato a realizzare interventi con questa finalità. Non si comprende per quale motivo il privato non potrebbe rinunciare a questo bonus, considerando oltretutto che tale rinuncia garantirebbe una sostituzione edilizia per così dire “pura” senza aumento del carico urbanistico.

Poiché comunque la legge veneta sul piano casa è una legge di carattere eccezionale, le cui norme, soprattutto dopo le ultime modifiche, non hanno ancora ricevuto da parte della giurisprudenza una interpretazione consolidata, rimetto ai lettori il quesito con cui si è aperta questa breve riflessione.

 Avv. Marta Bassanese

 

Costruzione di un immobile a confine di una corte comune con finestre, poggioli e balconi prospicienti nonché con sporti aggettanti sulla stessa

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Una signora, proprietaria di un fondo e comproprietaria di altro recante il numero 271 (adibito a corte comune ed in comproprietà con il vicino), entrambi in un  comune del Cadore, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Belluno il suddetto vicino, proprietario di un fondo vicino al suo, mappale n. 384, per sentirlo condannare, tra le altre richieste, all’eliminazione  di varie opere, tra cui balconi, altre vedute e sporti, aggettanti sul predetto fondo comune (mappale n. 271).

Il convenuto resisteva alla domanda attorea. Il Tribunale di Belluno - Sezione Stralcio - con sentenza n. 224 del 18.12.2000 depositata in cancelleria il 12.03.2001 accoglieva le domande dell’attrice, condannando il vicino alle conseguenti demolizioni.

In sostanza il Tribunale di Belluno si pronunciava circa la possibilità o meno del convenuto di costruire un immobile a confine con una corte comune con l’attrice  e, conseguentemente, di costruire ed aprire sulla parete prospiciente la suddetta corte comune dei balconi e delle finestre.

Conseguentemente condannava il convenuto a eliminare a propria cura e spese, entro un anno dal passaggio in giudicato della suddetta sentenza, le vedute, i balconi e gli sporti prospicienti la corte comune e dichiarava improponibile la domanda di demolizione del fabbricato eretto dal convenuto con sconfinamento sul mappale n. 271.

Il soccombente proponeva impugnazione della suddetta sentenza del Tribunale di Belluno.

Sull’impugnazione la Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 594 del 16.11.2004 depositata in cancellaria il 12.04.2005, pronunciata nei confronti degli eredi dell’attrice nel frattempo defunta, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Belluno limitava la condanna dellìappellante all’eliminazione dei soli balconi e vedute, ritenendo che la circostanza per cui il mappale n. 271 fosse comune alle parti (e a un terzo non costituitosi in giudizio) non fosse sufficiente ad attribuire al predetto immobile una destinazione al servizio dell’utilità dei fondi di rispettiva  proprietà esclusiva delle parti, in quanto la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non poteva essere giustificata dalla facoltà di una utilizzazione comune della cosa ai sensi dell’art. 1102 c.c.

Per cui la Corte d’Appello evidenziava che la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non poteva certamente trovare legittimazione attraverso il ricorso alla facoltà di utilizzo della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c..

Sul punto veniva rilevato che i terrazzini dell’edificio del soccombente, aggettanti per appena m. 1,10 ed alti da terra ben oltre tre metri e, a maggior ragione lo sporto del tetto, non contrastando concrete possibilità di utilizzazione da parte dell’attrice  dello spazio aereo sovrastante il fondo vicino, ricadevano nel dettato dell’art. 840, 2° comma c.c., secondo il quale “il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante che egli non abbia interesse ad escluderle” e si evidenziava che gli sporti del tetto, in quanto parte terminale della copertura, inglobante la canalizzazione di gronda, con funzione meramente di rifinitura e priva di incidenza volumetrica erano estranei alla nozione di costruzione”.

La Corte, però, rilevava, sul punto, che il primo dei suddetti motivi d’appello, con esclusione degli sporti del tetto, non poteva essere condiviso. La Corte, infatti, ha ritenuto che l’interesse considerato dall’art. 840, 2° comma c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastante di edificare a propria volta, bensì coinvolge un’ampia gamma di usufruibilità del suolo con la quale, a giudizio della Corte, confliggevano l’invasione dello spazio aereo sovrastante la costruzione a distanza inferiore da quella legale di aggetti calpestabili dal proprietario confinante.

Per contro gli sporti del tetto, in quanto elementi di rifinitura del tetto e, nel caso di specie, di dimensioni modeste, si sottraevano alla disciplina relativa alla distanza tra edifici e, rispetto solo ad essi, andava parzialmente riformata la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello, quindi, ha ritenuto che l’invasione dello spazio aereo soprastante il mappale n. 271 neppure potesse essere legittimata dall’altezza (oltre tre metri) alla quale erano stati eretti i balconi, in quanto, come sopra riferito, l’art. 840, 2° comma c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastato di edificare a propria volta, ma coinvolge una più vasta gamma di fruibilità del suolo. La Corte d’Appello, rigettava quindi, da ultimo, solo la domanda dell’attrice relativa agli sporti del tetto, per le motivazioni sopra riportate.

Per la cassazione della sentenza della Corte di Appello, ricorreva il soccombente e resistevano con controricorso gli intimati, i quali proponevano altresì ricorso incidentale alla Suprema Corte di Cassazione, in merito solo alla compensazione delle spese di giudizio.

La Corte di Cassazione – Sezione 2^ Civile - con sentenza n.17207 del 14.04.2011 depositata in cancelleria l’11.08.2011 preliminarmente riuniva, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., i due ricorsi in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Nel suddetto giudizio avanti la Suprema corte il soccombente con il primo motivo del ricorso principale deduceva la violazione dell’art. 167, 1° comma c.p.c., applicabile al giudizio di appello in base all’art. 347, 1 comma c.p.c., nella parte in cui si stabilisce a carico del convenuto l’onere di contestare in maniera specifica i fatti posti a base della “domanda” dell’appellante.

La parte ricorrente sosteneva, infatti, di aver fatto valere le proprie ragioni, nel corso di entrambi i precedenti gradi di giudizio, sostenendo che il mappale n. 271 era posto al servizio delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei contendenti, quale cortile condominiale, e che la realizzazione  di aggetti su di esso era da ascriversi, non alla problematica di presunte violazioni della normativa sulle distanze, ma alle modalità di utilizzo delle cose comuni, ai sensi dell’art. 1102  del c.c..

Ciò posto, la parte ricorrente, asseriva che quanto affermato dalla Corte di Appello in merito alla mancata prova della destinazione del mappale n. 271 al servizio di ognuna delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, non corrispondeva alla realtà processuale emersa, poiché a fronte dei rilievi sulla destinazione del predetto mappale, mai la controparte aveva negato quanto affermato dal ricorrente, per cui la conclusione negativa a cui era pervenuta la Corte di Appello non trovava fondamento in alcuna contestazione o eccezione della parte convenuta. Con la conseguenza che la mancata contestazione da parte dell’appellato, eredi della originaria attrice, in ordine alla comunanza del mappale n. 271, aveva reso non controversa la circostanza.

La Cassazione evidenziava che il suddetto motivo era infondato, perché la critica che lo sosteneva non coglieva affatto il senso della decisione impugnata. La Suprema Corte, infatti rilevava che la Corte di Appello non ha ritenuto che non era stata raggiunta la prova che il mappale n. 271 era comune, ma ha affermato, al contrario, che la circostanza che esso era in comproprietà tra le parti (ed un terzo non in causa) non era sufficiente ad attribuirvi una destinazione di servizio all’utilità dei fondi in proprietà esclusiva delle parti (aggiungendo, semmai, che non era provato che il Fontana avesse costruito a ridosso dello stesso mappale); e da ciò ha tratto la conseguenza che la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non era giustificata dal diritto di usarne ai sensi dell’art. 1102 c.c..

Tale affermazione, secondo la Cassazione è stata ritenuta del tutto condivisibile, in quanto in linea con l’indirizzo espresso dalla stessa, secondo cui la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune, è consentita al singolo condomino, purchè, ai sensi dell’art. 1102 c.c., non risulti alterata la destinazione del bene comune e non sia impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto (Cass. N. 12569/02; analogamente , v. Cassazione n. 3098/05).

Infatti, per la Cassazione non basta che l’aggetto sia a carico di un’area comune perché possa sillogisticamente trarsi la conclusione che la relativa realizzazione costituisca legittima modalità d’esercizio del diritto di usare del bene, ma occorre l’ulteriore verifica del concorso delle condizioni di cui alla citata norma, e segnatamente della conformità dell’uso stesso alla destinazione del bene. Né tanto meno basta affermare, come si legge nel motivo, che non sia stato contestato che l’area in questione sia “al servizio” dei fondi di proprietà esclusiva, atteso che tale espressione appare generica, e, attribuendovi significato tecnico-giuridico, essa rimanda, semmai all’esistenza di una servitù a carico della cosa comune, fatto che non era mai stato posto a base delle difese della parte ricorrente, intese ad affermare, al contrario, l’applicabilità dell’art. 1102 c.c..

La Cassazione evidenziava che, inoltre, la non contestazione poteva avere ad oggetto unicamente i fatti (come stabilisce l’art. 167 , comma 1, c.p.c., richiamato dal ricorrente), non anche la loro valenza giuridica e il loro significato esaustivo in rapporto alla fattispecie ipotetica invocata. Da ultimo, la stessa natura negatoria della domanda è stata ritenuta dalla Cassazione di per se chiara e univoca contestazione della compatibilità delle opere con il godimento della cosa comune. Compatibilità in ordine alla quale il motivo d’impugnazione non conteneva critiche specifiche alla decisione della Corte di Appello, limitandosi a dare per scontato che i balconi realizzati, per altezza rispetto al suolo e profondità di aggetto, erano tali da non impedire il pari uso dell’area da parte degli altri comproprietari.

Con il secondo motivo il ricorrente denunciava la violazione dell’art. 840, comma 2, del c.c., nella parte in cui prevede che il proprietario del suolo non può opporsi alle attività dei terzi che si svolgono ad altezza tale nello spazio sovrastante che non vi sia interesse ad escluderle, nonché degli artt. 167 e 347 c.p.c. per mancata contestazione sull’assenza di interesse ai sensi dell’art. 840, comma 2, del c.c. e l’insussistenza e l’irragionevolezza della motivazione.

In sostanza il ricorrente ha sostenuto che la sentenza impugnata sarebbe stata in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, da cui si ricavava il principio, opposto a quello applicato dalla Corte veneta, della mancanza d’interesse del proprietario del fondo allo svolgimento di attività altrui nello spazio sovrastante, quando non era ipotizzabile alcuna concreta possibilità di edificazione sul fondo sottostante.

Nel caso di cui è causa la parte attrice non aveva mai affermato e provato l’esistenza di un concreto interesse ad opporsi agli aggetti e alle vedute del ricorrente, di guisa che, sempre in applicazione del principio di non contestazione, la parte attrice aveva ammesso di non avere alcun concreto interesse ad opporsi alle opere eseguite da Adriano Fontana.

La Cassazione rilevava, sul punto sopra evidenziato, che la censura non aveva pregio.

Infatti, premesse le considerazioni sopra svolte sull’oggetto del principio di non contestazione (che riguarda i fatti costitutivi della domanda, non le argomentazioni  difensive che il convenuto vi oppone), la Cassazione rilevava che nel caso di specie andava osservato che la costante giurisprudenza  della stessa è nel senso che la sussistenza  dell’interesse del proprietario del suolo ad escludere l’attività di terzi, che si svolga nello spazio sovrastante, andava valutata con riferimento non soltanto all’attuale situazione  e destinazione del suolo, ma anche alle sue possibili, future utilizzazioni, sia pure in concreto non individuate, purché compatibili con le caratteristiche e la normale destinazione del suolo medesimo, a nulla rilevando che questo sia attualmente soggetto a servitù incompatibili con l’utilizzazione edificatoria dello spazio ad esso sovrastante da parte del proprietario. Tali limitazioni, infatti, potendo venire meno nel tempo, non escludevano che alla futura utilizzazione del suolo poteva derivare pregiudizio dalla tolleranza di violazioni corrispondenti all’illegittimo esercizio di nuove servitù, le quali avrebbero potuto costituirsi per usucapione, incidendo, quindi, in via autonoma sulle possibili future utilizzazioni del fondo (Cassazione nn. 20129/04 ; 3603/82 ; 1048/81; 1329/69 e 2096/65).

La Cassazione rilevava che la Corte di merito aveva mostrato, sul punto, di aver correttamente interpretato la norma, ritenendo che l’interesse considerato dal secondo comma dell’art. 840 del c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastato di edificare a propria volta, bensì coinvolge l’ampia gamma di usufruibilità del suolo; e di averne esattamente escluso l’applicazione nella fattispecie, in quanto connotata da aggetti di mt. 1,10 di profondità, posti ad un’altezza di qualche metro (“ben oltre tre metri”, secondo l’affermazione della parte appellante), e a distanza dal confine inferiore a quella legale.

Per mero scrupolo espositivo si evidenzia che, sull’unico motivo di ricorso incidentale con il quale si lamentava la compensazione delle spese di giudizio da parte degli eredi della originaria attrice, la Cassazione rilevava che lo stesso motivo era infondato in quanto emergeva chiaramente la reciproca soccombenza della parte (cfr. Cassazione n. 18496/09).

La suddetta soccombenza reciproca si rilevava, infatti, in sede di appello dal fatto che l’attrice aveva agito oltre che per l’eliminazione degli aggetti, anche per ottenere la demolizione dell’intero fabbricato eretto dal Fontana, nonché la rimozione del marciapiede, della pavimentazione in porfido, della cisterna di gasolio interrata nel fondo comune, e di vari sporti, domande queste che sono state respinte.

avv. Giamnartino Fontana

sent 224 2001 tribunale belluno

sent 594 2005 corte appello venezia

sent 17207 2011 corte suprema di cassazione

Autorizzazione commerciale e V.I.A.

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 17 aprile 2014 n. 526, si occupa del rapporto intercorrente tra l’autorizzazione commerciale ex L. R. Veneto n. 50/2012 e la procedura di V.I.A. ex D. Lgs. n. 125/2006. In particolare il Collegio evidenzia che, dato il breve lasso di tempo previsto dalla L. R. Veneto n. 50/2012 per presentare le relative istanze, il privato deve mettere a conoscenza l’Amministrazione comunale che sta instaurando anche la procedura di V.I.A., pena il rigetto della richiesta edilizia qualora nei termini previsti ex lege per questo procedimento non si ottenga o non si abbia già ottenuto il giudizio di compatibilità ambientale favorevole, oppure l’esito negativo della procedura di verifica ovvero il provvedimento conclusivo di non necessità di sottoporre a V.I.A. il progetto.

Assodato che “la ricorrente a mente dell’art.28 comma 4 della legge regionale del Veneto n. 50/2012 ha presentato domanda di ampliamento del proprio esercizio commerciale;

che la ridetta disposizione prevede testualmente che le grandi strutture di vendita e i parchi commerciali autorizzati alla data di entrata in vigore della presente legge possono essere ampliati, con domanda da presentarsi entro il termine perentorio di 60 giorni dall'entrata in vigore della presente legge, in misura non superiore al 20% della superficie autorizzata e comunque entro il limite massimo di 2500 m², nel rispetto dello strumento urbanistico comunale vigente alla data di entrata in vigore della presente legge nonché della normativa in materia ambientale, edilizia e viabilistica di cui alla legge regionale numero 15 del 2004, a condizione che il soggetto richiedente si impegni a iniziare i lavori entro e non oltre il termine di 60 giorni dal rilascio dell'autorizzazione, decorsi inutilmente i quali l'autorizzazione si intende decaduta. L'autorizzazione è rilasciata dal SUAP con le modalità di cui al capo VI della legge regionale 13 agosto 2004, numero 15;

che è dunque chiaro l’intento di promuovere investimenti immediati a rafforzamento delle strutture esistenti sul presupposto che ciò non incontri particolari difficoltà di ordine urbanistico o ambientale, prevedendosi rigide condizioni quali la presentazione della domanda entro il 1 marzo 2013, l'impegno a iniziare i lavori entro 60 giorni dal rilascio dell'autorizzazione, il limite massimo di superficie, la conformità urbanistica dell'ampliamento e il rispetto delle regole ambientali, edilizie e viabilistiche tratte dalla legge regionale n.15/2004, affidandosi allo sportello unico comunale il potere di rilascio dell'autorizzazione all'ampliamento: come chiarito nell'elaborato informativo pubblicato in calce alla legge, si tratta di una facoltà dell'operatore che è legittimato a esercitare una tantum, previa presentazione di apposita domanda di autorizzazione allo sportello unico per le attività produttive del comune competente, trovando applicazione le disposizioni procedurali in materia di conferenza di servizi di cui al capo VI della legge regionale numero 15 del 2004”, il Collegio afferma che: in effetti l'articolo 28 più volte citato, laddove consente l'ampliamento nella misura prevista nel rispetto dello strumento urbanistico comunale vigente - vale a dire non devono essere richieste varianti-, sempre salva – nè potrebbe essere altrimenti, nel senso che la norma non potrebbe certo consentire degli ampliamenti confliggenti con le superiori normative in materia ambientale- l'obbligatorietà di procedere a tutte quelle attività volte ad acclarare la compatibilità ambientale dell'ampliamento, evidentemente vuol consentire detta operazione nei casi in cui il procedimento possa concludersi in tempi brevi, i cui lavori siano iniziati entro e non oltre il termine di 60 giorni;

che per rendere compatibili i termini della procedura commerciale e di quella ambientale la società richiedente avrebbe potuto chiedere il differimento della conferenza di servizi decisoria anche al fine di presentare la domanda di VIA, una volta che il decreto provinciale di assoggettamento non fosse stato impugnato, come ben si sarebbe potuto;

che ad avviso del Collegio non esiste una priorità logica di presentazione fra la domanda commerciale e quella ambientale, costituendone uno il presupposto dell'altra, essendo invece necessaria la congiunta sussistenza dei requisiti che entrambe possano rappresentare, sicché, se è comprensibile la richiesta della ricorrente di qualificare la conferenza di servizi decisoria come ulteriormente interlocutoria nelle more della definizione del procedimento di valutazione dell'impatto ambientale, è altrettanto comprensibile - e corretto- che l'amministrazione, in difetto di puntuale domanda di differimento o sospensione al fine di presentare la domanda di VIA, abbia acclarato che al momento della conferenza di servizi tale domanda non era stata proposta, con la conseguente inapplicabilità di quanto previsto dall'articolo 14 ter comma 4 della legge 241 del 1990, laddove prevede che nei casi in cui sia richiesta la VIA la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito la valutazione medesima e il termine resta sospeso fino all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale, ovvero se la VIA non interviene nel termine previsto per l'adozione del relativo provvedimento l'amministrazione competente si esprime in sede di conferenza di servizi”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 526 del 2014

Seminario del 30 aprile

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Si informa che ci sono ancora posti disponibili per il seminario del 30 aprile sulle strade, le frane e le fasce di rispetto in urbanistica.

Locandina seminario 30 aprile su strade

Obbligo di astensione e votazione dello strumento urbanistico per parti separate

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1816 del 2014, riguardante il comune veneto di Arcade.

Si legge nella sentenza: "Nei Comuni di piccole dimensioni, qual è senza dubbio il Comune di Arcade, è legittimo che la votazione dello strumento urbanistico generale sia svolta per parti separate, in modo tale da assicurare il rispetto dell'obbligo di astensione dei consiglieri volta a volta potenzialmente interessati, in via diretta o indiretta, alla disciplina urbanistica di ciascuna zona nella quale essi stessi o loro prossimi congiunti siano titolari di diritti reali. Tale modalità procedimentale non è esclusa né vietata da alcuna disposizione normativa, e non collide con l'esigenza di una finale votazione unitaria sullo strumento urbanistico, nella quale, essendo già intervenuta quella per "settori", atta ad assicurare il formale rispetto dell'obbligo di astensione, il consigliere in potenziale conflitto non è più in grado di influire sulle specifiche scelte di assetto territoriale rispetto alle quali sia in astratta posizione d'interferenza. D'altro canto, tale meccanismo è l'unico in grado di assicurare, ad un tempo, l'osservanza dell'obbligo di astensione e l'esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica in capo all'organo comunale cui essi competono e, quindi, il rispetto del principio di democraticità rappresentativa, laddove, altrimenti, proprio le scelte espressive della pianificazione territoriale più significative e incisive sulla vita della comunità locale dovrebbero essere demandate ad un organo straordinario non elettivo ed estraneo alla comunità, quale il commissario ad acta". 

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1816 del 2014

 

Non si può impugnare la comunicazione di avvio del procedimento

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 17 aprile 2014 n. 523, conferma che la comunicazione di avvio del procedimento, essendo un atto endoprocedimentale, non può essere autonomamente impugnata: “Il ricorso è inammissibile.

Infatti l’assunto della parte ricorrente, secondo il quale l’atto impugnato ha un contenuto provvedimentale, non può essere condivisa.

L’atto impugnato costituisce una mera comunicazione di avvio del procedimento della quale possiede tutti gli elementi formali e sostanziali (il nomen iuris, l’indicazione dell’autorità emanante, dell’oggetto del procedimento, dell’ufficio competente, del responsabile del procedimento, delle conseguenze del medesimo, nonchè del luogo dove è possibile prendere visione degli atti e dei documenti relativi al procedimento).

La circostanza che l’atto contenga anche l’invito a procedere allo sgombero entro il termine di sessanta giorni, non vale di per sé a conferire valenza provvedimentale all’atto, dato che, come sostiene il Comune nelle proprie difese, nel contesto complessivo a tale espressione deve essere riconosciuta la valenza di una mera richiesta ad uno spontaneo adempimento, priva di valore cogente, come si evince dalla circostanza che l’Amministrazione non ha fatto seguire la scadenza del termine da alcuna ulteriore attività provvedi mentale.

Pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse in quanto l’atto impugnato, in base ad una corretta qualificazione che tenga conto del suo effettivo contenuto e di quanto dispone, nonché delle caratteristiche che presenta nella sua concreta attuazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 19 novembre 2012, n. 5848; Tar Lazio, Latina, Sez. I, 22 ottobre 2012, n. 791; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 8828), deve essere qualificato come una comunicazione di avvio del procedimento che ha carattere endoprocedimentale ed è priva di autonoma capacità lesiva”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 523 del 2014

Il TAR Veneto ha ormai una giurisprudenza costante in materia di oneri specifici

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 18 aprile 2014 n. 536, conferma il suo costante orientamento in materia di oneri specifici: “Ritiene il Collegio che la riforma introdotta dal d.l. n. 70/2011 ha, in buona sostanza, riscritto l’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, concependo un nuovo modello procedimentale in cui le disposizioni della lex specialis, di fonte provvedi mentale e le norme giuridiche primarie e secondarie, devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare.

In altri termini la voluntas legis assume, così, una efficacia precettiva immediata, disancorata da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di alterazione delle norme che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa.

Si è, pertanto, superata ed invertita la precedente logica di etero integrazione della legge di gara, perché il procedimento è presidiato cogenti norme giuridiche, rispetto alle quali le determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza possano, in alcun modo, limitare l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi.

L’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 stabilisce che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222.

Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

L’impresa partecipante, pertanto, in sede di offerta ha l’obbligo, non solo di indicare tali oneri di sicurezza, ma deve rappresentarli in modo specifico e puntuale.

Tale adempimento non è stato assolto dalla società resistente.

La rilevata omissione comporta, conseguentemente, la sanzione espulsiva del concorrente,

Non a caso la lettera della norma prevede un formale “dovere” di specifica indicazione dei costi della sicurezza proprio per non posticipare tale riferimento alla fase di verifica dell’anomalia, atteso l’interesse prioritario e preminente del legislatore nella tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Non solo.

Una successivo accertamento della riferita indicazione al momento della verifica della anomalia potrebbe addirittura significare una elusione della previsione normativa, perché si tratta di un subprocedimento non sempre presente nella dinamica del procedimento di gara.

E’ evidente, poi, che la specificazione, nell’offerta, del costo della sicurezza come elemento costitutivo della stessa consente di configurare la proposta contrattuale seria, proprio perché prevede una preventiva valutazione di tutti gli oneri economici ricadenti nell’ambito del rapporto di convenienza e sostenibilità tecnico-economica dell’impegno contrattale che si va ad assumere.

L’art. 86, III comma bis e l’art. 26, VI comma del DLgs n. 81/2008 dispongono, con identica formulazione, che “gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente….al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”, la cui lettura congiunta con l’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006, consente di affermare, proprio in relazione al chiaro dato letterale, che le complesse disposizioni si riferiscono e coinvolgono ogni tipo di appalto.

Questo Tribunale è dell’opinione, costantemente ribadita nella sua giurisprudenza (cfr., da ultimo, sez. I, 10.12.2013 n. 1388, 8.8.2013 n. 1050 e 299/2014), che le imprese partecipanti ad una gara d’appalto, sia essa di servizi, di forniture o di lavori, devono necessariamente includere nell’offerta, in modo analitico, così da consentire l’esatta valutazione della congruità dell’offerta stessa, oltre agli oneri di sicurezza da interferenza, indipendentemente dalla indicazione contenuta nel DURVI, anche gli importi relativi agli oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali), la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica (Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014 n. 348).

Tali importi devono essere puntualmente e specificatamente indicati al momento dell’offerta in modo tale da non ingenerare confusione ovvero possibili contrasti interpretativi.

Non solo.

Conforta tale opzione ermeneutica anche l’orientamento al riguardo assunto dall’AVCP, secondo cui “la mancata indicazione preventiva dei costi per la sicurezza rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente pregnante, alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla pubblica amministrazione un adeguato controllo sulla affidabilità della stessa: in altri termini, l’offerta economica priva dell’indicazione degli oneri di sicurezza manca di un elemento essenziale e costitutivo, con conseguente applicazione della sanzione dell’esclusione dalla gara anche in assenza di una specifica previsione in seno alla lex specialis, attesa la natura immediatamente precettiva della disciplina contenuta nelle norme citate, idonea ad eterointegrare le regole procedurali” (cfr. il parere 9/05/2013 n.77).

Pertanto, gli oneri di sicurezza costituiscono un elemento essenziale dell’offerta, sicchè la loro omessa indicazione deve ritenersi afferente e parte integrante l’elenco delle cause specifiche di esclusione previste dall’art. 46, I comma bis del Dlgs 163/2006.

Né tale omissione potrebbe comportare un ipoteco potere di soccorso della stazione appaltante, in quanto tale ulteriore fase presuppone, in ogni caso, che l’offerta economica sia completa nei suoi elementi essenziali (elementi tra i quali vanno appunto annoverati, come si è detto, i costi relativi alla sicurezza).

Anche perché, se si consentisse tale postuma integrazione, si ammetterebbe, all’evidenza, un'offerta originariamente incompleta, lesiva della par condicio tra i concorrenti (cfr. Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348 cit.).

Ciò è confermato anche dalla recente giurisprudenza, secondo cui “nelle gare pubbliche, considerata la differenza che intercorre fra tra gli oneri di sicurezza per le cc.dd. interferenzee (che sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell'ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto) e gli oneri di sicurezza da rischio specifico o aziendale (la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta), l'omessa indicazione specifica nell'offerta sia dell'una che dell'altra categoria di costi giustifica la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell'offerta e venendo, quindi, a mancare un elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (Adunanza Plenaria 25 febbraio 2014 n. 9; Consiglio di Stato III Sezione 23 gennaio 2014 n.348; Consiglio di Stato III Sezione 3 luglio 2013 n.3565).

Pertanto ed in considerazioni delle suesposte motivazioni il ricorso è fondato e va accolto, in quanto l’aggiudicataria non ha indicato in modo chiaro ed univoco gli oneri per la sicurezza da rischio specifico, mentre ha del tutto omesso quelli da interferenza, con conseguente annullamento degli atti impugnati e risarcimento del danno in forma specifica, in favore della ricorrente, mediante subentro nell’aggiudicazione della gara”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 536 del 2014

L’interesse che giustifica l’accesso agli atti va esaminato caso per caso in concreto e non è collegato solo alla tutela giurisdizionale

24 Apr 2014
24 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1768 del 2014.

Si legge nella sentenza: "rammenta il Collegio che condivisibile giurisprudenza ha già da tempo sganciato il diritto di accesso dalla ristretta nozione di mezzo al fine di esercitare una azione giurisdizionale ed è pervenuta all’affermazione per cui “è sempre consentito l'accesso a documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridicamente tutelati, e la posizione giuridica della ricorrente è riconosciuta come diritto soggettivo a un'informazione qualificata, a fronte del quale l'Amministrazione pone in essere un'attività materiale vincolata, essendo sufficiente che l'istanza di accesso sia sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all'istante da uno specifico nesso” (cfr.: Cons. Stato VI, 19.1.2010 n. 189; T.A.R. Lombarda Brescia II, 11.6.2010 n. 2310); Se è vero che l'accesso non può tradursi in uno strumento surrettizio di sindacato generalizzato sull'azione delle amministrazioni, la multiforme finalità dello stesso non può che dipendere (anche) dalla posizione soggettiva del soggetto che lo aziona e dai compiti e funzioni che lo stesso è chiamato a svolgere nel sistema. Ed è giurisprudenza consolidata (ex aliis T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, 14-03-2011, n. 2260) quella per cui il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell'associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza.”. Il diritto di accesso, quindi, si modula e struttura in forma che può essere differente in relazione alla posizione soggettiva di chi lo vuol fare valere: non si nega ovviamente che la finalizzazione del medesimo verso una iniziativa di natura giurisdizionale possa costituire la evenienza statistica maggiomente verificabile.  Si vuol dire soltanto che, mentre per talune posizioni sostanziali che l’accesso “giustificherebbero” e legittimerebbero, questa potrebbe anche essere l’unica ragione giustificativa ammissibile, in altri casi così non è: il proprietario che vuol conoscere dettagli su una pubblica opera progettata sul fondo limitrofo, vanta una posizione legittimante che sottende un possibile interesse oppositivo. Ove si attivi a distanza di molti anni dall’inizio dei lavori, essendo impossibile la possibilità di esercitare un’azione giurisdizionale, non è arbitrario affermare che, egli non vantando altra “causale” legittimante, l’esercizio dell’accesso si risolverebbe in una mera curiosità non tutelata dall’ordinamento. Non così potrebbe dirsi, però, laddove invece costui paventasse pericoli per la salute a cagione dell’attività che attraverso detta opera si sarebbe dovuta intraprendere: in un simile caso la sua conoscenza potrebbe essere finalizzata alle più varie ragioni (esercitare un’azione inibitoria; risolversi ad alienare il fondo, etc) e potrebbe pertanto pervenirsi a soluzioni diametralmente opposte.

4. Avendo quale punto di partenza detta relatività e la dipendenza di  quest’ultima dalla posizione (anche ordinamentale) del richiedente, è sufficiente interrogarsi in ordine alla natura dell’ente comunale che tale richiesta ha proposto ed alle funzioni allo stesso spettanti, per pervenire a conclusioni in linea con quelle raggiunte dal Tar. Si evidenzia in proposito che sia le funzioni qualificate come "fondamentali" (la cui elencazione è contenuta nell'art. 14, comma 27, del D.L. n. 78/2010, come modificato dall'art. 19 del D.L. n. 95/2012 e dall'art. 1, comma 305, della legge n. 228/2012), sia le funzioni amministrative radicate nell'art. 118 della Cost. e, a livello di legislazione  ordinaria, negli artt. 3 e 13 del D.Lgs. n. 267/2000 (Tuel) danno agevolmente conto di tale affermazione. Stabilisce il detto comma 27 che, “ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; (185) g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;  i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica . Il combinato disposto degli artt. 3 (“ Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome. Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo. La provincia, ente locale intermedio tra comune e regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo. I comuni e le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell'ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.”) e 13 (“Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.  Il comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri comuni e con la provincia”) del Tuel concorre, poi, a comporre detto quadro organico. Solo per incidens, si ricorda peraltro che l’art. 43 del predetto d.Lgs n. 267/2000 prevede una forma “speciale” di accesso da parte del Consigliere comunale (e provinciale), che qualificata giurisprudenza (T.A.R. Emilia-Romagna Bologna Sez. II, 04-12-2006, n. 3107) ha interpretato nella massima ampiezza, ricollegandolo alla funzione “esponenziale” da questi esercitata: “In tema di diritto di accesso agli atti da parte di consiglieri comunali (o provinciali) l'orientamento giurisprudenziale è consolidato nel senso di riconoscerne il fondamento nell'art. 43 comma 2 del T.U. n. 267/2000 e di qualificarlo come espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, direttamente funzionale non tanto a un interesse personale del consigliere medesimo, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito; in tale quadro i consiglieri comunali e provinciali risultano titolari di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità per l'espletamento del loro mandato e in ciò il diritto di accesso riconosciuto ai rappresentanti del corpo elettorale locale ha una ratio diversa e più ampia di quella che contraddistingue il diritto di accesso riconosciuto a tutti i cittadini dal medesimo T.U.E.L. (art. 10), nonché dagli artt. 22 ss. della L. n. 241/1990; per cui da un lato il consigliere può accedere non solo ai "documenti" ma, in genere, a qualsiasi "notizia" o " informazione " utili all'esercizio delle funzioni consiliari,  ma non è neppure tenuto a motivare la sua richiesta, né l' ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, perché altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire l'ambito del controllo consiliare sul proprio operato; ed è per questo, infine, che il diritto in questione non incontra neppure limiti derivanti dalla natura riservata agli atti richiesti, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto”.

4. Elementari ragioni di coerenza sistematica (oltreché il dettato espresso degli artt. 13 e 3 del Tuel) impediscono, ovviamente, anche
soltanto di ipotizzare che la funzione “esponenziale” propria del singolo consigliere comunale non componga, come parte del tutto, quella a propria volta esercitata dall’Ente rispetto alla comunità dei cittadini dallo stesso amministrata.

4.1. Ma se così è, non può negarsi che tra i poteri/doveri del Comune rientri anche quello di fornire dettagliata informazione ai propri
amministrati delle attività destinate a svolgersi sul proprio territorio; che tale potestà sussiste e prescinde dalla possibile futura intrapresa di azioni giurisdizionali; che anche indipendentemente dalla detta esigenza, il comune ha, a tacer d’altro, il diritto di conoscere in che modo si andrà in concreto a strutturare un’attività in corso di svolgimento sul proprio territorio, al fine di potere organizzare e modulare, rispetto a quest’ultima, le attività proprie (quali, esemplificativamente: il potenziamento della raccolta di rifiuti in un dato sito, la organizzazione di misure per l’eventuale snellimento del traffico di automezzi funzionale alla esecuzione dei lavori che verrebbe a crearsi in una data zona, etc). 

5. Per altro verso, e quanto alle ulteriori critiche appellatorie riposanti nella “terzietà” dell’amministrazione comunale appellata rispetto agli atti (ad es: il contratto di affidamento a contraente generale stipulato tra SAT e SAT Lavori in data 30 marzo 2012), più direttamente disciplinanti il quomodo di effettuazione delle attività, rammenta il Collegio che già da tempo risalente la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare la insussistenza di alcun argomento preclusivo alla ammissibilità dell’accesso avverso simile od assimilabile documentazione.

5.1. Si fa presente, in proposito, che, muovendo in passato dal consolidato approdo secondo il quale la disciplina legale della
estensibilità dei documenti amministrativi pone anzitutto, sul piano oggettivo, un rapporto di regola/eccezione, nel senso che la regola è  data dall'accesso, mentre le specifiche eccezioni, analiticamente indicate, costituiscono ipotesi derogatorie (la cui comune ratio è data dall'essere le stesse preordinate alla protezione di dati riservati in possesso dell'amministrazione, capaci, se divulgati, di recare pregiudizio alla tutela di interessi superindividual, ovvero alla protezione della riservatezza di soggetti terzi), il Consiglio di Stato ha affermato che “la ditta subappaltatrice dell'impresa titolare di un contratto di appalto di opere pubbliche (nella specie, lavori di ristrutturazione del centro storico di un  comune), ha diritto di accesso, ai sensi dell'art. 22 l. 7 agosto 1990 n. 241, alla copia del registro di contabilità, trattandosi di documentazione che, pure se afferente a rapporti interni tra Stazione appaltante e appaltatore, e quindi formalmente privatistica, cionondimeno attiene al contratto e all' esecuzione dei lavori, e quindi ad un ambito di rilevanza  pubblicistica, giacché attraverso l' esecuzione delle opere, l'amministrazione mira essenzialmente a perseguire le proprie finalità istituzionali” (Cons. Stato Sez. V, 08-06-2000, n. 3253). Sulla stessa linea di tendenza si è collocata la giurisprudenza di merito (ex aliis T.A.R. Sicilia Palermo Sez. I, 18-01-2011, n. 68; T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, 11-02-2010, n. 373; T.A.R. Lombardia Milano, Sez. I, 08 febbraio 2007 n. 209). Se quindi, può affermarsi che, in via generale, in base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss. L n. 241/90, il diritto di accesso può esercitarsi anche rispetto a documenti di natura privatistica (tale opinamento risulta in linea con quanto in passato affermato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, 22 aprile 1999, n. 4, dove si è ritenuto che, “ai sensi del citato art. 22 sono soggette all'accesso tutte le tipologie di attività delle pubbliche amministrazioni e, quindi, anche gli atti disciplinati dal diritto privato, atteso che essi rientrano nell'attività di amministrazione in senso stretto degli interessi della collettività e che la legge non ha introdotto alcuna deroga alla generale operatività dei principi della trasparenza e dell'imparzialità e non ha garantito alcuna "zona franca" nei confronti dell'attività disciplinata dal diritto privato”), purché concernenti attività di pubblico interesse, la risposta che in passato la giurisprudenza ha specificamente fornito è quella per cui tale sia l’attività esecutiva di un appalto. D’altro canto, l'attività amministrativa, soggetta all'applicazione dei principi di imparzialità e di buon andamento, è configurabile non solo quando l'Amministrazione esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa persegue le proprie finalità  istituzionali e provvede alla cura concreta di pubblici interessi mediante un'attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra privati (cfr. 6 dicembre 1999, n. 2046; vedi anche A.P. n. 4/99 cit.). Con decisione della Sezione IV, che il Collegio condivide, è stato, inoltre, ritenuto che il diritto di accesso agli atti amministrativi previsti dalla legge n. 241/1990 si estende anche alla relazione riservata del collaudatore dei lavori pubblici appaltati dall'Amministrazione, prevista  nell'art.100 del R.D. 25 maggio 1895, n. 350 (27 aprile 1999, n. 743)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1768 del 2014

La Corte Costituzionale sul contenimento della fauna selvatica nei territori preclusi alla attività venatoria nella Regione Veneto

24 Apr 2014
24 Aprile 2014

Con la Sentenza n. 107 del 18 aprile 2014, la Corte Costituzione ha affrontato le questioni di legittimità sollevate dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito ai metodi ecologici di carattere selettivo per il controllo della fauna selvatica nelle zone vietate alla caccia nella Regione Veneto e, ove accertata la loro inefficacia, ai relativi piani di abbattimento.

Nello caso specifico, censurato dal Ricorrente Presidente del Consiglio dei Ministri è “anzitutto, l’art. 2, comma 1, della legge regionale n. 6 del 2013, perché, in difformità dall’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, non stabilisce che l’inefficacia dei metodi ecologici volti al controllo della fauna debba essere accertata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, prima che si possa procedere con il più invasivo strumento dei piani di abbattimento. L’art. 2, comma 2, della medesima legge regionale, conferisce al Presidente della Giunta regionale un potere sostitutivo, nei confronti degli enti titolari delle funzioni di gestione faunistica, chiamati ad attuare gli interventi di contenimento della fauna. Il ricorrente sostiene che, in tal modo, la legge impugnata ha ampliato le ipotesi di piani di abbattimento, anche con riguardo alle aree naturali protette nazionali e regionali, rispetto alle quali l’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, e gli artt. 11, comma 3, lettera a), e 22, comma 6, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), disciplinerebbero una procedura speciale per l’abbattimento selettivo. Infine, l’art. 2, comma 3, della legge impugnata, abilita all’esecuzione dei piani di abbattimento non solo le persone indicate dall’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, ma anche i cacciatori residenti negli ambiti territoriali di caccia”.

La Corte ha stabilito che la questione di illegittimità in merito all’art.2 comma 1, non è fondata in quanto “la censura dell’Avvocatura erariale si basa su un erroneo presupposto interpretativo, posto che nella Regione Veneto è tuttora in vigore l’art. 17, comma 2, della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio). Tale disposizione specifica che, nell’ambito del controllo della fauna selvatica, la Provincia può autorizzare i piani di abbattimento solo se l’Istituto nazionale per la fauna selvatica ha prima verificato l’inefficacia dei metodi ecologici. È perciò chiaro che l’art. 2, comma 1, impugnato, regola la fattispecie unitamente all’art. 17, comma 2, della legge regionale n. 50 del 1993, e dunque, quanto ai poteri dell’ISPRA, in termini del tutto analoghi a quelli dell’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, invocato dalla parte ricorrente”.

In merito all’art. 2 comma 2, il ricorrente sostiene che in tal modo la Regione Veneto ha ampliato le ipotesi di piani di abbattimento nelle aree naturali protette nazionali e regionali, in contrasto con i divieti espressi dall’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, e dagli artt. 11, comma 3, lettera a), e 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991, ma ciò non è fondato secondo la Corte. Anche in questo caso, infatti, il ricorso appare infondato perchè “muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la norma impugnata estenda, per mezzo del potere sostitutivo, i casi in cui la legislazione permette la caccia al fine di controllare la fauna selvatica. È invece evidente che la sostituzione dell’ente inadempiente potrà venire disposta al solo fine di esercitare una funzione che a quest’ultimo è già attribuita dalla legge, e nel rispetto delle prescrizioni stabilite da quest’ultima. Non è, perciò, ravvisabile alcun margine di contrasto, anche solo potenziale, rispetto ai divieti menzionati dalla difesa erariale.Né la disposizione impugnata consente di ipotizzare, come sembra paventare il ricorrente, che il potere sostitutivo possa venire esercitato rispetto ad ambiti riservati alla competenza dello Stato (sentenza n. 67 del 2013), dato che esso ha espressamente per oggetto gli atti relativi all’attuazione della legge regionale n. 6 del 2013, ovvero un insieme di funzioni imputabili al sistema regionale in ragione dello stesso art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992.”

All’art. 2 comma 3, vengono individuate le persone idonee ad eseguire gli interventi di contenimento della fauna selvatica, aggiungendo all’elenco contenuto nell’art. 17 della legge regionale n. 50 del 1993, anche i cacciatori residenti nei relativi ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini, abilitati ai sensi dell’art. 15 della legge regionale n. 50 del 1993. La Corte Costituzionale ha dichiarato fondata la censura mossa dal ricorrente, ove si evidenzia il contrasto di quest’ultima previsione con l’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, a norma del quale i piani di abbattimento devono essere attuati esclusivamente dalle guardie venatorie provinciali, dai proprietari e conduttori dei fondi e dalle guardie forestali e comunali.

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge della Regione Veneto 23 aprile 2013, n. 6 (Iniziative per la gestione della fauna selvatica nel territorio regionale precluso all’esercizio della attività venatoria), limitatamente alle parole «e i cacciatori residenti nei relativi ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini e abilitati ai sensi dell’articolo 15 della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50», ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto n. 6 del 2013, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

dott.sa Giada Scuccato

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