A proposito di appalti

22 Apr 2014
22 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 425, affronta alcune questione relative agli appalti.

Per quanto riguarda la clausole di equivalenza: “è infondata la prima censura con cui la ditta ricorrente rileva la violazione della legge di gara in relazione al fatto che la commissione aggiudicatrice non avrebbe tenuto conto delle prescrizioni in essa contenute relative ai requisiti che le apparecchiature dovevano possedere, prescrizioni rispetto alle quali l’offerta della controinteressata, in quanto difforme, avrebbe dovuto essere esclusa. Nel caso di specie, invero, i requisiti delle apparecchiature indicati dal bando e dal capitolato erano né requisiti “minimi”, né requisiti “essenziali”, né “regole tecniche nazionali obbligatorie” tali da comportare, in caso di difformità da essi, l’esclusione dalla gara: sicchè si doveva necessariamente aver riguardo al principio di “equivalenza” sancito dall’art. 68 del DLgs n. 163/2006, alla stregua del quale le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, qualora le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente ai requisiti richiesti dalle specifiche tecniche della lex specialis. Al fine di garantire la più ampia partecipazione alla gara la stazione appaltante, pertanto, in presenza di offerte equivalenti, deve verificare la sussistenza dei requisiti descritti al fine di effettuare la valutazione dell'offerta”.

Per quanto riguarda la discrezionalità della stazione appaltante che si avvale del metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa: “che, quanto alla seconda censura, va anzitutto osservato che nel caso di adozione del metodo di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa (metodo prescelto dalla stazione appaltante) l’ambito di intervento e di esercizio della discrezionalità amministrativa è ampia: la commissione di gara, infatti, non può limitarsi a verificare l’entità delle offerte, ma compie una serie articolata di operazioni determinando, in primo luogo, gli elementi in base ai quali attribuire a ciascuna voce il punteggio pertinente, poi analizza singolarmente ciascuna voce e, attenendosi ai criteri prefissati, assegna un punteggio e, infine, accerta il valore economico dell’offerta e, dopo aver sommato i criteri, redige la graduatoria. Vi è, quindi, un ampio spazio di discrezionalità non solo nell’impostazione dei criteri motivazionali per attribuire i punteggi, ma anche per far rientrare ciascun elemento valutato in questo o quell’altro criterio motivazionale. La disaggregazione del punteggio, dunque, è fondamentale al fine di rendere trasparente l’azione amministrativa e controllabile in sede di sindacato anche giurisdizionale l’operato della commissione. Gli operatori economici hanno quindi tutto l’interesse a conoscere il più possibile la ripartizione dei punteggi di ciascuna voce, allo scopo di poter verificare esattamente l’operato della commissione”.

Infine, con riferimento ai parametri di valutazione delle offerte: “Ciò premesso, si osserva che sussiste un principio giurisprudenziale pacifico secondo il quale solo in presenza di criteri di valutazione sufficientemente analitici e precisi si affievolisce la necessità di motivazione. Se, invece, i criteri o subcriteri sono generici, la commissione dovrà motivare ampiamente ed esaurientemente i singoli punteggi, e l’obbligo motivazionale è indirettamente proporzionale all’analiticità dei parametri di valutazione: più ampia è la discrezionalità della commissione nel giudizio tecnico, più pressante è l’obbligo di esternare con precisione l’iter logico percorso. La motivazione è lo strumento tecnico attraverso il quale si riesce a controllare il rispetto dei principi costituzionali sostanziali della parità di trattamento (a livello generale) e della parità di concorrenza (a livello di imprese) e giurisdizionali della ragionevolezza e della logicità delle scelte. È appena il caso di sottolineare che i criteri motivazionali devono essere conosciuti dagli offerenti anteriormente alla presentazione dell’offerta, non essendo più possibile, in seguito alla recente abrogazione del IV comma, ultimo periodo dell’art. 83 del codice appalti, che la commissione giudicatrice, prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte, possa fissare i parametri cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e subcriterio il punteggio prestabilito dal bando. Massima trasparenza preventiva dunque. Alla luce dei cennati principi legislativi e giurisprudenziali, di fronte ad un criterio valutativo abbastanza generico, come quello indicato dalla legge di gara, l’obbligo motivazionale era rigoroso. La commissione tecnica aveva l’obbligo di spiegare con sufficiente chiarezza e precisione le ragioni dell’assegnazione ai concorrenti dei punteggi. La motivazione non può essere fornita o integrata successivamente alla formulazione del giudizio (cfr. la nota 29.7.2013 con cui il Comandante della polizia urbana invita la commissione giudicatrice a “specificare l’iter motivazionale che ha indotto la commissione di gara ad affidare la procedura alla RTI Vigeura”: doc. 12 del Comune), ma deve essere ad essa contestuale. Concludendo, in assenza di motivazione sufficiente, l’aggiudicazione va annullata, compresi gli atti connessi (presupposti e consequenziali), ivi inclusa la procedura concorsuale. Sta nella discrezionalità della stazione appaltante decidere, in sede di riedizione della gara, se specificare meglio i criteri di valutazione attraverso la riformulazione del disciplinare e del capitolato di gara o se accontentarsi di un rigoroso obbligo motivazionale in capo alla commissione tecnica, lasciando invariati il disciplinare di gara ed i criteri già formulati”.  

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 425 del 2014

L’importanza della motivazione e della comunicazione dei motivi ostativi

22 Apr 2014
22 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 27 marzo 2014 n. 389 si sofferma sull’importanza dell’obbligo di motivazione ex art. 3 della L. n. 241/1990: “E’ noto che l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, stabilendo il generale obbligo di motivazione, impone all’Amministrazione di esternare i presupposti di fatto e le ragioni diritto in base alle quali la stessa ha agito in un determinato senso, in ossequio alla esigenza, non certo trascurabile, di improntare l’esercizio dei pubblici poteri a precipue esigenze di conoscibilità dell’azione amministrativa. La motivazione del provvedimento amministrativo, infatti, è intesa a consentire al cittadino la ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il quale l’Amministrazione si è determinata ad adottare il provvedimento stesso, con possibilità di controllare il corretto esercizio del potere ad essa conferito dalla legge, oltre che a permettere al destinatario del provvedimento la concreta possibilità di esercitare in maniera compiuta e consapevole il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, nei confronti degli atti della P.A.

Giova ricordare che il provvedimento impugnato risulta motivato nel seguente modo: “…si comunica al richiedente che non può subentrare nelle concessioni in argomento senza l’autorizzazione dell’autorità competente (art. 46 del Codice della Navigazione). Si ribadisce che a tutt’oggi non ci sono i presupposti per il subentro nel godimento delle concessioni di che trattasi”. Ebbene, è di tutta evidenza che la motivazione del provvedimento, attesa la sua assoluta genericità ed insufficienza, non consente al destinatario del provvedimento stesso di ripercorrere il ragionamento logico-giuridico seguito dall’Amministrazione e di comprendere le effettive e concrete ragioni che impediscono il subentro nelle concessioni demaniali relative all’area in discussione, anche in considerazione della documentazione integrativa da ultimo trasmessa dal ricorrente”.

 Analogamente il Collegio sottolinea il rilievo della comunicazione del motivi ostativi ex art. 10 bis della L. n. 24171990: “Sotto quest’ultimo profilo, si deve rilevare che la partecipazione procedimentale del ricorrente avrebbe potuto meglio definire i termini della questione, evidenziare gli aspetti di effettivo impedimento al subentro e le eventuali possibilità di superare l’asserita “mancanza dei presupposti”. Proprio per tali ragioni, risulta fondata anche la censura relativa al vizio procedimentale.

Come noto, infatti, l’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, dispone che “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale….”. Tale norma, che esprime un principio di carattere generale, stabilisce un onere procedimentale propedeutico all’adozione di ogni provvedimento finale reiettivo dell’istanza del privato al fine di consentire allo stesso di dedurre tempestivamente, nel procedimento, eventuali circostanze idonee ad influire sul contenuto dell’atto finale, così anticipando e prevenendo il contenzioso che potrebbe verificarsi in sede giurisdizionale.

Pertanto, anche il rigetto dell’istanza di cui si discute doveva essere preceduta dal preavviso di diniego di cui all’art. 10 bis, legge n. 241 del 1990 e la mancanza di tale avviso ha carattere assorbente perché preclude all’interessato lo svolgimento del necessario contraddittorio nell’ambito del relativo procedimento, non consentendogli un apporto collaborativo, in grado di condurre ad una diversa conclusione della vicenda (ex mulitsTAR Lombardia, Milano, sez. IV, 12 dicembre 2013, n. 2826; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14 novembre 2013, n. 4954; TAR Lazio, Latina, sez. I, 28 ottobre 2013, n. 809; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18 settembre 2013, n. 2177; TAR Piemonte, sez. II, 22 ottobre 2012, n. 1154; TAR Lazio, Roma, sez. II, 14 giugno 2011, n. 5269).

Del resto, proprio in considerazione della asserita “mancanza dei presupposti” appare evidente che l’Amministrazione avrebbe dovuto preventivamente comunicare al ricorrente tali mancanze, in modo tale da consentire un confronto tra le parti in sede procedimentale, permettendo al ricorrente medesimo di rappresentare e specificare il proprio punto di vista e, quindi, formulare le proprie osservazioni in ordine alle presunte ragioni ostative all’accoglimento della domanda. Sotto tale profilo, nemmeno è sostenibile, almeno allo stato, che la comunicazione in esame non sarebbe stata necessaria in quanto il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, non potendo trovare applicazione l’art. 21 octies della medesima legge n. 241 del 1990, atteso che, nel caso in esame e allo stato degli atti, non è affatto palese che il contenuto dispositivo dell’atto non avrebbe potuto essere diverso rispetto a quello concretamente assunto dall’Amministrazione resistente (TAR Marche, Ancona, sez. I, 24 febbraio 2012, n. 137; TAR Lazio, Roma, sez. II, 15 aprile 2009, n. 3847)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 389 del 2014

Chi sospende il rilascio del Permesso di Costruire in contrasto con gli strumenti urbanistici?

18 Apr 2014
18 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 28 marzo 2014 n. 418 chiarisce che la competenza a sospendere il permesso di costruire in contrasto con gli strumenti urbanistici dell’ente spetta all’organo che può rilasciare questo titolo edilizio: “Ed invero, osserva il Collegio, il potere di sospensione di ogni determinazione su domande di permesso di costruire in contrasto con le statuizioni degli strumenti urbanistici generali o attuativi adottati, è attribuito all’organo comunale competente per il rilascio del permesso di costruire, ciò in base alla legge n. 1402 del 1952 - che tale potere di sospensione introdusse attribuendolo al Sindaco- , ed in base all’attuale art. 12, terzo comma del D.P.R. n. 380/2001, oltreché, all’art. 29 della L.R. n. 11/2004.

Si tratta di norme che attribuiscono un potere di natura eccezionale e derogatoria, non suscettibili di applicazione analogica a casi come quello di specie di autorizzazione per l’esecuzione d’ interventi di miglioria fondiaria da parte del dirigente regionale (ben diversi dal rilascio di un titolo edilizio da parte del competente organo comunale)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 418 del 2014

Il T.A.R. Veneto riconferma l’obbligo di indicare gli oneri specifici

18 Apr 2014
18 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 27 marzo 2014 n. 392 riconferma l’obbligo di indicare i costi della sicurezza da rischio specifici sia negli appalti di lavori sia negli appalti di servizi e/o forniture: “La ricorrente rileva, ed il fatto non è oggetto di contestazione, che la controinteressata non ha indicato, nell’offerta, i costi di sicurezza specifici previsti dall’art. 87, comma 4, in uno con l’art. 86, comma 3 bis del Dlgs 163/2006.

Ritiene il Collegio, che l’art. 86, III comma bis e l’art. 26, VI comma del DLgs n. 81/2008 dispongono, con identica formulazione, che “gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente….al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.

Il combinato disposto appena riportato consente di affermare, proprio in relazione al chiaro dato letterale, che le stesse disposizioni si riferiscono e coinvolgono ogni tipo di appalto.

Questo Tribunale è dell’opinione, costantemente ribadita nella sua giurisprudenza (cfr., da ultimo, sez. I, 10.12.2013 n. 1388, 8.8.2013 n. 1050 e 299/2014), che le imprese partecipanti ad una gara d’appalto, sia essa di servizi, di forniture o di lavori, devono necessariamente includere nell’offerta, in modo analitico, così da consentire l’esatta valutazione della congruità dell’offerta stessa, oltre agli oneri di sicurezza da interferenza, anche gli importi relativi agli oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali), la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica (Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014 n. 348).

E’ altresì evidente che tali oneri siano, dall’ordinamento configurati nell’ambito di un contesto normativo immediatamente precettivo (cfr. i citati artt. 86, III comma bis del DLgs n. 163/2006 e 26, VI comma del DLgs n. 81/2008) e tale da eterointegrare, proprio per il loro carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori), l’eventuale omissione o la diversa regolamentazione contenuta nella legge di gara.

Non solo.

Conforta tale opzione ermeneutica anche l’orientamento al riguardo assunto dall’AVCP, secondo cui “la mancata indicazione preventiva dei costi per la sicurezza rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente pregnante, alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla pubblica amministrazione un adeguato controllo sulla affidabilità della stessa: in altri termini, l’offerta economica priva dell’indicazione degli oneri di sicurezza manca di un elemento essenziale e costitutivo, con conseguente applicazione della sanzione dell’esclusione dalla gara anche in assenza di una specifica previsione in seno alla lex specialis, attesa la natura immediatamente precettiva della disciplina contenuta nelle norme citate, idonea ad eterointegrare le regole procedurali” (cfr. il parere 9/05/2013 n.77).

Pertanto, gli oneri di sicurezza costituiscono un elemento essenziale dell’offerta, sicchè la loro omessa indicazione deve ritenersi afferente e parte integrante l’elenco delle cause specifiche di esclusione previste dall’art. 46, I comma bis del Dlgs 163/2006.

Né tale omissione potrebbe comportare un ipotetico potere di soccorso della stazione appaltante, in quanto tale ulteriore fase presuppone, in ogni caso, che l’offerta economica sia completa nei suoi elementi essenziali (elementi tra i quali vanno appunto annoverati, come si è detto, i costi relativi alla sicurezza).

Anche perché, se si consentisse tale postuma integrazione, si ammetterebbe, all’evidenza, un'offerta originariamente incompleta, lesiva della par condicio tra i concorrenti (cfr. Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348 cit.)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 392 del 2014

Il giudice amministrativo non ha giurisdizione sul processo verbale di contestazione tributario

18 Apr 2014
18 Aprile 2014

La ricorrente ha impugnato davanti al TAR un processo verbale di constatazione, formato da funzionari dell'Agenzia delle Entrate - Direzione regionale dell'Abruzzo, in data 27 dicembre 2007, relativo ad una verifica fiscale, deducendone l'illegittimità.

Con la sentenza n. n. 84 del 25 gennaio 2013 il T.A.R. per l'Abruzzo ha dichiarato inammissibile il ricorso per carenza di giurisdizione amministrativa in favore della giurisdizione tributaria, in base ai rilievi di seguito testualmente riportati: "... in disparte il fatto che le censure dedotte avverso il suddetto processo verbale di contestazione sono state poi integralmente reiterate nel successivo ricorso proposto avverso il conseguente avviso di accertamento (ricorso rigettato dalla Commissione Tributaria Provinciale, e in sede di appello, dalla Commissione Tributaria Regionale, e ora pendente in Cassazione), deve ritenersi assorbente il fatto che la Giurisprudenza ha da tempo chiarito che la giurisdizione delle Commissioni Tributarie, essendo piena ed esclusiva, si estende non soltanto all'impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento e che a seguito della riforma di cui all'articolo 12 della legge 28 dicembre 2001 n.448, la giurisdizione del Giudice Tributario, si estende ormai a qualunque controversia in materia di imposte tasse che non attenga al momento  della esecuzione in senso stretto (Cassazione civile, sezioni unite, 14 marzo 2011, ordinanza n.5928; Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana 28 luglio 2011 n. 523)". Con appello notificato il 24 aprile 2013 e depositato l'8 maggio 2013, la sentenza è stata impugnata deducendone l'erroneità, quanto alla declaratoria di difetto di giurisdizione amministrativa, rilevando, in sintesi,sul che il processo verbale di constatazione è atto preparatorio e istruttorio, privo di effetti tributari diretti, non impugnabile in via autonoma dinanzi al giudice tributario, né ricompreso nell'elencazione degli atti impugnabili nel processo tributario, con riproposizione delle censure già dedotte con il ricorso in primo grado.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n.  1821 del 2014, ha riconfermato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con la seguente motivazione: "Il processo verbale di constatazione è l'atto in cui si condensano le risultanze degli accessi nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, finalizzati a "... ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni...", da parte di funzionari dell'amministrazione finanziaria (ora dell'Agenzia delle Entrate) e/o muniti di apposita autorizzazione; dal medesimo debbono risultare "...le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute" e "...deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione", fermo il diritto del contribuente di ottenerne copia (art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, applicabile anche in materia di imposte dirette sui redditi ai sensi dell'art. 33 comma 1 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. E' evidente che trattasi di atto privo di contenuto ed effetti provvedimentali, dal quale può eventualmente scaturire l'emanazione di un accertamento tributario, privo pero ex se di effetti tributari e di efficacia lesiva, e in quanto tale, appunto, non impugnabile in via diretta e autonoma dinanzi alle commissioni tributarie, secondo giurisprudenza affatto pacifica (Cass. civile, Sez. Trib., 29 maggio 2006, n. 12789; id., 20 gennaio 2004, n. 787, che rileva come esso sia atto endoprocedimentale, sfornito di rilevanza giuridica esterna e di valore impositivo; id., 30 ottobre 2002, n. 15305, che ha altresì negato che la non impugnabilità -da escludere ai sensi del previgente art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, e ora dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546- configuri profili d'illegittimità costituzionale). E' altresì chiaro che la non immediata impugnabilità non preclude che eventuali vizi del processo verbale, che infirmino l'efficacia probatoria del medesimo, quanto alle modalità dell'accesso e/o all'acquisizione dei documenti, possono comunque essere fatti valere in relazione all'impugnazione dell'atto di accertamento, e in tal senso, come osservato dal giudice amministrativo abruzzese, non è senza significato  che "...le censure dedotte avverso il suddetto processo verbale di contestazione sono state poi integralmente reiterate nel successivo ricorso proposto avverso il conseguente avviso di accertamento...", ancorché il relativo ricorso tributario sia stato rigettato dalla commissione tributaria provinciale con sentenza confermata dalla commissione tributaria regionale, pendendo, all'epoca dell'emanazione della sentenza gravata nella presente sede, ricorso per cassazione. D'altro canto, questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che atti che si pongano quali presupposti di attività ispettiva e acquisitiva prodromica all'accertamento sono sindacabili dinanzi alla giurisdizione tributaria ed esulano dalla giurisdizione amministrativa (nella specie l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica alla perquisizione del domicilio del contribuente o del legale che lo rappresenta: Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2008, n. 6045)".

Dario Meneguzzo - avvocato

 sentenza CDS n. 1821 del 2014

 

 

Secondo il Consiglio di Stato la “pergotenda” è un elemento di arredo che non comporta aumenti di volume

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

La circolare di Roma Capitale n. 19137 del 9 marzo 2012 – definisce la ‘pergotenda’ quale manufatto rientrante nell’attività edilizia libera, come «struttura di arredo, installata su pareti esterni dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio, costituito da struttura leggera e amovibilie, caratterizzata da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione».

Dalla lettura della sentenza del Consiglio di Stato n. 1777 del 2014 sembrerebbe che a fare la differenza sia l'ancoraggio oppure no al pavimento del terrazzo pertinenziale dell’appartamento dei pali di sostegno della struttura: se manca l'ancoraggio l'opera non costituisce aumento di volume o di superficie e rientra nell'attività edilizia libera. 

Che poi a me non sia tanto chiaro cosa renda ontologicamente diversa una struttura ancorata al pavimento da una ancorata alle pareti esterne forse è indizio di scarsa vocazione per le sfumature. 

Scrive il Consiglio di Stato:  "Merita, in primo luogo, accoglimento il motivo di error in iudicando costituito dall’erronea valutazione delle caratteristiche di fatto connotanti l’opera in oggetto, atteso il mancato ancoraggio – invece erroneamente supposto dal T.a.r. – dei pali di sostegno della struttura in esame al pavimento del terrazzo pertinenziale dell’appartamento dell’appellante (infatti, nel verbale di sopralluogo della Polizia municipale, posto a base degli impugnati provvedimenti, si discorre di pali «poggiati sul pavimento», e non già di pali ancorativi in modo fisso; v., altresì, la documentazione fotografica, in atti), con conseguente facile amovibilità della struttura medesima. La struttura in esame, quale descritta sopra sub § 1. – costituita da due pali dello spessore di 8,50 cm x 11,50 cm poggiati sul pavimento del terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in PVC della superficie di 15 mq e dell’altezza variabile da 2,80 m a 2,10 m, ancorata al sovrastante balcone e munita di una copertura rigida di 0,80 (in aggetto) x 5,00 m a riparo del telo retraibile (v. il citato verbale e la documentazione fotografica) –, non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua facile e  completa rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della facile rimuovibilità della copertura orizzontale (addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico). La stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001. Ne consegue la fondatezza del motivo d’appello, di erronea reiezione della censura di violazione degli artt. 3, 6, 10 e 33 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e 14 e 16 l. reg. - Lazio 11 agosto 2008, n. 15, avendo gli impugnati provvedimenti erroneamente qualificato l’opera in oggetto come intervento di «ristrutturazione edilizia e/o cambio di destinazione d’uso da una categoria all’altra», anziché come semplice intervento di natura manutentiva rientrante nell’attività edilizia c.d. libera".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1777 del 2014

La sanatoria non si applica alle opere precarie

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 28 marzo 2014 n. 410 afferma che non si può ottenere la sanatoria edilizia di un immobile precario in quanto: “2.2 Preso atto del carattere assolutamente precario del manufatto di cui si tratta, consistente in un’opera costituita da tetto e muri perimetrali in legno, è del tutto evidente come l’Amministrazione comunale non avrebbe potuto che denegare l’istanza di cui si tratta.

2.3 Si è infatti affermato, con un orientamento giurisprudenziale consolidato e risalente al tempo in cui gli atti venivano emanati (si veda sul punto Cons. Stato Sez. V, 04-02-1998, n. 131), che “ai sensi dell'art. 31 l. 28 febbraio 1985 n. 47, non può essere rilasciata concessione edilizia in sanatoria per opere di carattere assolutamente precario, carattere che va valutato dal punto di vista funzionale, cioè con riferimento all'uso cui le opere sono destinate (nel caso di specie, il manufatto precario, costituito da un prefabbricato, era temporalmente destinato a soddisfare le esigenze di funzionalità di un cantiere edile, e, quindi, ad essere rimosso insieme con questo una volta conclusi i lavori di costruzione di alcune palazzine)”.

2.4 Analogamente è, altresì, noto (T.A.R. Campania Napoli Sez. II Sent., 24-01-2008, n. 403) come non sia ammissibile la realizzazione di opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo e, ciò, in ragione del carattere dello stesso manufatto che, in quanto tale, non può impedire in alcun modo l’attività sanzionatoria del Comune diretta a reprimere l'opera abusiva nella sua interezza”.

 Per quanto concerne l’ordinanza di demolizione si legge: “5. E’ possibile rigettare anche l’impugnazione proposta (nel ricorso RG 1471/97) avverso l’ordinanza di demolizione n.16 del 20/02/1997 e, ciò, considerando come non sussistano i vizi di illegittimità derivata con riferimento ai provvedimenti di diniego sopra citati e ora dichiarati legittimi.

5.1 Non sussiste nemmeno la dedotta violazione dell’art. 92 della L. reg. n. 61/1985, nell’ambito della quale parte ricorrente sostiene che l’Amministrazione comunale non avrebbe evidenziato le disposizioni urbanistiche in contrasto con il mantenimento in essere del manufatto di cui si tratta.

5.2 Sul punto va rilevato come l'ordinanza di demolizione” (n.d.r. l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo) “costituisca un atto dovuto e meramente consequenziale all'ordinanza di demolizione (T.A.R.Liguria sez. I del 04/12/2013 n. 1467).

5.3 E', altresì, noto che presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso (T.A.R. Campania, sez. III del 05/12/2013 n. 5620).

5.4 Deve ritenersi insussistente, altresì, la violazione dell’art. 92 della L. reg. 61/1985, sotto altro presupposto, e per quanto attiene la mancanza del parere della Commissione edilizia previsto dalla disposizione sopra citata.

5.5 Sul punto va ricordato che questo Tribunale ha già avuto modo di precisare (si veda TAR Veneto Sez. II, sent. n. 534 del 07-03-2006) che il provvedimento che ordina la demolizione dell'opera abusiva, nell’eventualità in cui sia stato preceduto dal diniego di concessione in sanatoria, integra la fattispecie di un provvedimento dovuto (da ultimo, CdS, IV, 8.3.2005 n. 1662), in relazione al quale non residua alcun margine di discrezionalità.

5.6 Ne consegue che deve ritenersi “superflua l'acquisizione di qualsiasi parere ovvero l'accertamento dell'incompatibilità dell'opera con la normativa edilizio-urbanistica: in questo caso, infatti, la sussistenza del contrasto con la disciplina urbanistica, nonchè il parere della commissione edilizia - previsti dall'art. 92, IV comma della L.R. n. 61/1985 quali presupposti di legittimità della demolizione non preceduta dal diniego di concessione - vengono assunti a monte, nell'ambito della fase propedeutica concernente l'istruttoria per il rilascio della concessione in sanatoria””.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 410 del 2014

 

Quando bisogna impugnare a pena di improcedibilità del ricorso anche il contratto conseguente alla aggiudicazione di una gara?

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 424 afferma che, con riferimento ad una procedura concorsuale avente ad oggetto la concessione di un bene demaniale, la mancata impugnazione dell’atto di concessione determina l’improcedibilità del ricorso perché: “In linea generale, nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all’interno di un più ampio contesto procedimentale (come quello di evidenza pubblica), occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante: nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto conseguenziale senza bisogno che quest’ultimo sia stato autonomamente impugnato, mentre in caso di illegittimità ad effetto viziante l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto.

Tale ricostruzione si basa, in materia di procedure concorsuali, sul condivisibile assunto che non è necessario impugnare l’atto finale, quando sia stato già impugnato quello preparatorio, solo quando fra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti: diversamente, quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi ovvero adempimenti dell’aggiudicatario (nel caso di specie, in particolare, l’adempimento relativo alla prestazione della cauzione definitiva), la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale, pena la improcedibilità del ricorso.

Che è esattamente quanto accade avuto riguardo alla natura del contratto di concessione, che non va considerato atto meramente esecutivo, ma atto che, anche quando recepisca i risultati dell’aggiudicazione, comporta comunque una autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti e, comunque, l’accertamento degli adempimenti a cui l’aggiudicatario è tenuto.

Ciò stante, il gravame proposto avverso i provvedimenti con i quali un concorrente è stato escluso dalla gara per la concessione di un’area demaniale e la gara stessa è stata aggiudicata al controinteressato diventa improcedibile nel caso di mancata impugnazione del contratto successivamente stipulato con l’aggiudicatario, in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale attributivo dell’utilitas all’aggiudicatario stesso: giacchè anche qualora il ricorrente fosse riammesso in gara in virtù dell’accoglimento delle censure proposte avverso l’esclusione, ciò non di meno non gli deriverebbe alcun vantaggio, in quanto non potrebbe mai aspirare alla concessione del bene oggetto della procedura concorsuale.

Negli stessi termini, peraltro, si è già espresso questo Tribunale laddove, in una fattispecie affatto analoga, ha affermato che “la mancata impugnazione di tale ulteriore atto, conclusivo della procedura e soprattutto costitutivo della concessione demaniale costituisce causa di improcedibilità del ricorso….per carenza di interesse. In proposito, deve essere ricordato che la costituzione di diritti reali su beni demaniali può avvenire soltanto attraverso uno specifico atto di concessione, avente propriamente natura costitutiva, tanto è vero che, fino all'emissione di tale provvedimento, il soggetto interessato non può comunque vantare alcun titolo legittimo alla fruizione con modalità differenziate rispetto alla generalità dei cittadini di un qualsiasi bene appartenente al demanio”.

Né può essere accreditata la tesi del ricorrente secondo cui non sarebbe sorto l’onere di impugnare il contratto in quanto avrebbe giammai ricevuto la formale comunicazione ex art. 79, V comma del DLgs n. 163/2006 relativa alla sua avvenuta stipulazione: premesso, invero, che in mancanza di comunicazione individuale il termine per l’impugnazione degli atti di gara decorre comunque dalla loro conoscenza (cfr., ex pluribus, CdS, V, 31.10.2012 n. 5565; VI, 13.12.2011 n. 6531; III, 12.5.2011 n. 2842; TAR veneto, I, 23.4.2013 n. 613), l’odierno ricorrente ha senz’altro avuto contezza del contratto in questione quanto meno in data 27 gennaio 2014, con la sua produzione in giudizio da parte della difesa della controinteressata (cfr. il doc. 3).

Orbene, così delineata la portata dell’eccezione, essa va accolta, atteso che nel corso del giudizio il ricorrente non ha impugnato con motivi aggiunti l’atto di concessione del bene demaniale stipulato inter partes, neppure dopo averne avuto piena conoscenza in ordine ai suoi dati identificativi e ai suoi contenuti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR veneto n. 424 del 2014

Differenza tra sopravvenuta carenza di interesse e cessazione della materia del contendere

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1825 del 2014: "2. Costituisce jus receptum il risalente principio secondo il quale l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 475/92).  Di recente, (Cons. Stato Sez. IV, 06-08-2013, n. 4145) questa Sezione del Consiglio di Stato ha ribadito il detto principio e tracciato i criteri differenziali tra forme di improcedibilità sopravvenute del gravame a torto assai spesso ritenute assimilabili, stabilendo che “la sopravvenuta carenza di interesse - figura, di stretta elaborazione giurisprudenziale ed ora espressamente prevista all'art. 35, comma 1 lett. c), c.p.a. (D.Lgs. n. 104/2010) - è accomunata a quella limitrofa della cessazione della materia del contendere per la disciplina, che determina in entrambi i casi l'improcedibilità del ricorso, e per la tipologia di fatto di origine, che è sempre un ulteriore provvedimento della pubblica  amministrazione che interviene nel rapporto in contestazione. Le due figure si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell'interesse leso. La sopravvenuta carenza di interesse, infatti, opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato.”. Non ignora il Collegio che tale declaratoria sia preclusa allorchè il ricorrente manifesti una qualche forma di residuo interesse alla trattazione del mezzo (di recente la giurisprudenza ha talvolta affermato che esso possa rinvenirsi anche in interessi di natura morale) ovvero che l’accertamento possa essere finalizzato all’esercizio dell’azione risarcitoria.  Ancora in passato, peraltro, si era detto che (Cons. Stato Sez. IV, 04-12- 2012, n. 6190) “la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al Giudice Amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi e, in particolare, in modo che la declaratoria d'improcedibilità non si traduca in una sostanziale elusione dell'obbligo del giudice di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, perché l'interesse residuo alla pronuncia del merito della controversia va inteso in senso assai ampio, ossia alla luce degli effetti conformativi e ripristinatori dell'eventuale sentenza d'accoglimento - la quale, oltre all'efficacia meramente caducatoria dell'atto impugnato, si riverbera e condiziona la futura attività amministrativa - in quanto la persistenza dell'interesse va valutata considerando anche le possibili ulteriori iniziative attivate o attivabili dal ricorrente per ottenere la soddisfazione della di lui pretesa, potendo la predetta sentenza costituire il presupposto per l'accoglimento dei gravami contro gli atti consequenziali o per esercitare l'azione risarcitoria contro la P.A. emanante”. Di converso, però è stato colto dalla giurisprudenza della Sezione (decisione n. 3458/2013 ) che detta forma “residua” di interesse è connotato essenziale del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va dichiarato inammissibile od improcedibile e che non possa allegarsi per la prima volta in secondo grado posto che nel processo di appello vige il divieto di nuove domande, nuove allegazioni, e nuove prove (art. 345 c.p.c., oggi si veda art. 104 del c.p.a.).  2.1. Orbene, parte appellante supporta la propria critica appellatoria con la presentazione della domanda risarcitoria: ma nella incontestata considerazione che i provvedimenti “sostitutivi” erano stati adottati a seguito di una nuova delibazione che aveva portato ad un nuovo assetto di interessi, che essa aveva già ottenuto la restituzione dell’area in data 5 maggio 1998, e che con deliberazione 8 ottobre 1997 n. 1702 si era provveduto alla riapprovazione ex articolo 1 della legge 1 del 1978 del progetto esecutivo per il recupero e sistemazione dell’area da destinare a parco giochi, dette valutazioni in ordine alla permanenza dell’interesse vanno parenteticamente verificate in concreto alla stregua delle circostanze di fatto, anche sopravvenute rispetto alla proposizione del gravame.

3. A tal proposito, rileva il Collegio che non residua dubbio in ordine alla circostanza che, allo stato, tale interesse, non sussistesse al
momento della decisione del T.A.R., e che in ogni caso certamente giammai esso potrebbe ravvisarsi persistente oggi. 
3.1. Dalla produzione di parte appellante risulta infatti che il Giudice Ordinario, in primo grado, ha pacificamente ritenuto illegittima la
attività dell’amministrazione comunale sino al momento della emissione degli atti per cui è causa nell’odierno processo, e sino comunque al 1998; che il comune (vedasi il quinto motivo dell’atto di appello innanzi alla Corte di Appello di Bologna) non ha contestato detta declaratoria di illegittimità/illiceità della condotta, dalla quale il Tribunale di Modena ha fatto discendere la condanna risarcitoria pronunciata in primo grado, ma, semmai, le censure si sono incentrate sulla quantificazione del quantum liquidato e sul preteso errore materiale contenuto nella sentenza  di primo grado del Tribunale di Modena; che nessuna delle problematiche sollevate innanzi alla Corte di Appello dal Comune interferisce con quelle dell’odierno giudizio e che peraltro, la causa d’appello è stata rinviata per precisazione delle conclusioni, di guisa che nessun ulteriore tema (ammesso che comunque lo fosse, ex art. 345 c.p.c.) sarebbe sollevabile in detto giudizio, ed in particolare non sarebbe ivi possibile rimettere in discussione, da parte dell’appellante amministrazione comunale, la sussistenza della propria responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.. Va rilevato altresì che il segmento successivo dell’azione amministrativa ha formato oggetto di distinto gravame, prospettato dalla odierna appellante innanzi al competente T.A.R. territoriale per l’Emilia-Romagna, e che quest’ultimo ha respinto il petitum con la sentenza n. 00451/2012 impugnata innanzi a questo Consiglio di Stato (ric. n. 5373/2012 tuttora pendente) di guisa che neppure sotto tale profilo permane in capo all’odierna appellante alcun interesse apprezzabile alla coltivazione del presente gravame. Quest’ultimo ricorso, quindi, deve essere respinto, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso".

sentenza CDS 1825 del 2014.

 

La convenzione urbanistica che preveda l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione non è disciplinata dal codice degli appalti

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Scrive il TAR Veneto nella sentenza n. 505 del 2014: "2.1. In ordine ai vizi formali e procedurali della dichiarazione di risoluzione della convenzione, adottata dal Comune con la nota del 7 settembre 2011, il Collegio rileva innanzitutto come il caso in esame di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione, da parte del privato, in attuazione di una convenzione urbanistica, non sia in alcun modo equiparabile all’esecuzione di un appalto di opere pubbliche, con la conseguenza che non possono trovare applicazione alla fattispecie in questione le norme del codice dei contratti pubblici (art. 136 D.lgs n. 163/2006), ed in particolare quelle relative allo specifico procedimento previsto per addivenire alla risoluzione di un tale tipo di contratto.  Piuttosto può essere utile osservare in proposito che l’obbligo della gara pubblica per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione è stato espressamente escluso - dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in L. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha introdotto un comma 2 bis all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 - per le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria (come sono nel caso in esame) la cui esecuzione “è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

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