Solo gli architetti possono realizzare interventi sulle opere di interesse storico-artistico

06 Giu 2014
6 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 03 giugno 2014 n. 743, conferma che la legittimità dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che riconosce una riserva a favore degli architetti laddove si tratta di affidare dei lavori edilizi che riguardano immobili storici o di pregio artistico-architettonico: “La questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, assai dibattuta e oggetto in passato di pronunce di segno diametralmente opposto, è stata definitivamente affrontata e risolta dal Consiglio di Stato (sentenza n. 21/2014 cit.), il quale, nel pronunciarsi su gravami presentati avverso due divergenti pronunce di questo stesso Tribunale (sentenze n. 3630/2007 e n. 3651/2008), ha tracciato precisi canoni interpretativi in ordine alla applicabilità (e, quindi, alla compatibilità con il diritto comunitario) del citato art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925.

Per fare ciò, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto necessario investire la Corte di Giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 del TFUE; in particolare, è stato chiesto: (a) se la ricordata direttiva n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica il più volte menzionato art. 52, che riservi specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di “architetto” ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nei settori dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva; (b) se tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52 del R.D. n. 2357/1925.

La Corte di Giustizia ha definito la questione con sentenza del 21.2.2013, nella quale ha precisato che gli artt. 10 e 11 della direttiva 85/384/CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno stato membro diverso dallo Stato membro ospitante -titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato art. 11 – possono svolgere, in questo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere qualifiche nel settore dei beni culturali.

Ciò posto, il Consiglio di Stato, richiamati gli approdi giurisprudenziali che sono giunti a soluzioni condivise circa l’insussistenza di profili di incompatibilità della parziale riserva di cui al ricordato art. 52 R.D. 2537/1925 con i dettami del diritto comunitario (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 maggio 2006, n. 2776, id., 11 settembre 2006, n. 5239, id., 24 ottobre 2006, n. 6343), ha affrontato la questione relativa alla possibilità che il suddetto art. 52 possa determinare –in danno degli ingegneri italiani nei confronti di ingegneri di un qualunque altro Paese dell’Unione Europea - un fenomeno di “discriminazione alla rovescia”, da accertarsi, in via esclusiva, da parte del giudice nazionale.

In tale prospettiva, anche sulla base dei chiarimenti della stessa Corte di Giustizia - rilasciati non solo con la ricordata pronuncia del 21.2.2013 resa su rinvio dello Stesso Consiglio di Stato, ma anche, in precedenza, con ordinanza del 5.4.2004, su ricorso C-3/02, resa a seguito dell’ordinanza di rimessione del TAR Veneto, nell’ambito del procedimento che ha condotto alla sentenza n. 3630/2007 - è stato rilevato che la direttiva 85/394/CEE ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, ma non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né le disposizioni in essa contenute hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere; in buona sostanza, la richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’art. 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia.

Impostati in tal modo i termini della questione, il Consiglio di Stato ha concluso, con argomentazioni che il Collegio ritiene di condividere, nel senso che non siano ravvisabili i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno degli ingegneri italiani.

In particolare, è stato osservato che, se si esamina il contenuto minimo obbligatorio che la ricordata direttiva impone affinché un determinato percorso formativo sia incluso fra quelli che consentono di invocare il mutuo riconoscimento, ci si avvede che tali requisiti sono pienamente compatibili con il ricordato orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925. Invero, la giurisprudenza del supremo Consesso amministrativo ha giustificato la detta parziale riserva considerando che, per quanto non manchino approfondimenti anche nel settore dell’architettura nel corso di studi degli ingegneri civili, comunque all’architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, in conseguenza di maggiori approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di affrontare problematiche e sottese valutazioni tecniche relative agli immobili di rilevanza artistica. Il Consiglio di Stato ha, quindi, sottolineato che “l’approccio in questione risulta del tutto compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva 85/384/CEE la quale ….ammette l’esercizio in regime di mutuo riconoscimento e di libera circolazione delle attività tipiche della professione di architetto a condizione che il professionista in questione possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel settore dei beni storici e di interesse culturale. Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso formativo che legittima un professionista ad invocare il regime di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della storia e delle teorie dell’architettura nonché della arti, tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono influire sulla qualità della concezione architettonica”. Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione secondo l’approccio sostanzialistico proprio dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in tutto coincidente con quello fatto proprio dalla giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato”.

Il Consiglio di Stato ha, dunque, concluso precisando che non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi dell’UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico-artistico), ma, al contrario, giusta la normativa comunitaria, l’esercizio di tali attività –in regime di mutuo riconoscimento – sarà consentito ai soli professionisti che (al di là del nomen iuris del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto; pertanto, anche volendo ammettere che un professionista non italiano con titolo di ingegnere sia legittimato, in base alla normativa del paese d’origine, a svolgere attività rientranti tra quelle abitualmente esercitate con il titolo di architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex se una “discriminazione alla rovescia”, atteso che, in forza della direttiva 85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere, ma) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo di architetto (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 21 cit.).

La conclusione cui giunge il supremo Consesso amministrativo –e dalla quale non vi è motivo per discostarsi- è, dunque, nel senso di ritenere che non sia possibile affermare che la previsione di parziale riserva in favore degli architetti di cui all’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925 sia idonea a determinare, in danno degli ingegneri italiani, un effetto di “discriminazione alla rovescia””. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 743 del 2014

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