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Per sanare un abuso nei centri storici è necessario il parere della Soprintendenza?

25 Feb 2014
25 Febbraio 2014

Il Consiglio di Stato risponde di no nella sentenza n. 855 del 2014.

Scrive il Consiglio di Stato: "Con l’unico articolato motivo d’appello, il Ministero per i beni e le attività culturali censura la lettura interpretativa data dal giudice di primo grado alle disposizioni di cui agli artt. 33, comma 4, e 37, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui il parere della Soprintendenza per i beni storici, artistici e paesaggistici sarebbe richiesto solo ai fini della determinazione della sanzione ( reale o pecuniaria) da applicare in caso di abusi edilizi commessi su immobili, anche se non vincolati, collocati nei centri storici.

Nella prospettazione della amministrazione appellante, da nessuna disposizione normativa si ricaverebbe che il suddetto parere sia richiesto solo in relazione alle opere non sanabili ( e quindi ai soli fini della determinazione della sanzione da applicare) e che invece, per le opere suscettibili di sanatoria (come appunto nel caso di specie), pur se riferite ad immobili posti nei centri storici, il suddetto parere non sarebbe richiesto. Deduce l’appellante amministrazione come, contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, per tutti gli interventi nei centri storici sia necessario il coinvolgimento dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, tenuto conto anche della nozione di centro storico rinvenibile nel decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444 e della disciplina recata dall’art. 2 per le zone omogenee di cui alla lettera “A”, e cioè per le parti di territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico artistico o di particolare pregio ambientale.

Inoltre, a parere dell’appellante, a ritenere coerente con le regole di sistema, e quindi dovuto, l’intervento dell’autorità soprintendentizia nel procedimento di sanatoria di immobili posti nel centro storico cittadino, soccorrerebbe la stessa ratio e l’interpretazione sistematica delle richiamate disposizioni ( in particolare, artt. 33, comma 4 e 37, comma 3, cit.) del Testo unico dell’edilizia, che escluderebbero la correttezza del distinguo tra opere sanabili e opere non sanabili, fatto proprio erroneamente dal Tar, ai fini dell’individuazione del titolo di intervento dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.

3.- Rileva il Collegio che l’articolata censura non merita condivisione.

4.- Giova premettere che i centri storici ( e, per quel che qui rileva, il centro storico di Lucera) non rientrano tra le aree tutelate per legge ai sensi dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio ( introdotto dal d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42).

Lo si ricava dal secondo comma dello stesso art. 142, ove si legge che le disposizioni sulle aree tutelate ex lege, di cui al comma 1 della disposizione, non si applicano alle aree che alla data del 6 settembre 1985 erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee A e B. Le zone territoriali di tipo A sono, in base al d.m. n. 1444 del 1968, le parti di territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico artistico o di particolare pregio ambientale (id est, i centri storici).

I centri storici rientrano invece tra gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico, come descritti all’art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Tuttavia, affinchè tali beni vengano attratti al particolare regime di tutela previsto dalla legge, è sempre necessaria la dichiarazione di notevole interesse pubblico.

In assenza di vincolo specifico che abbia ad oggetto il centro storico cittadino, quale bene culturale d’insieme ai sensi del richiamato art. 136 del d.lgs 22 gennaio 2004 n.42, non è pertanto ipotizzabile l’applicazione delle disposizioni del Codice dei beni culturali sul particolare procedimento autorizzatorio degli interventi edilizi che abbiano oggetto immobili ivi collocati, salvo che il vincolo abbia fondamento in una previsione di piano paesaggistico ovvero in altro provvedimento puntuale che abbia dichiarato l’immobile di interesse culturale in ragione del suo pregio storico-artistico.

5.- Nella impugnata sentenza, il Tar ha accertato, peraltro dopo specifica attività istruttoria, che nel centro storico di Lucera non sussistono provvedimenti di vincolo rivenienti da atti dell’autorità statale o regionale. Inoltre, è stata accertata la inesistenza di vincoli specifici di natura storico-artistica sull’immobile dell’appellato Zolli.

Tali conclusioni non hanno formato oggetto di contestazione e devono pertanto ritenersi definitivamente acclarate.

In tale stato di cose, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto insussistente il potere stesso della Soprintendenza ad esprimere il suo parere nell’ambito del procedimento finalizzato all’accertamento di conformità di alcuni abusi edilizi posti in essere sull’immobile in titolarità del signor Massimo Zolli.

Al parere negativo espresso dalla Soprintendenza, in carenza del presupposto giuridico per la sua adozione, non può riconnettersi pertanto, come a ragione rilevato dal Tar, la sua usuale forza conformativa vincolante.

Per conseguenza, il provvedimento di rigetto della istanza di accertamento di conformità, in quanto avente a presupposto il suddetto parere negativo, risulta illegittimo, e del pari illegittima va ritenuta, come condivisibilmente rilevato dal giudice di prime cure, la pedissequa ordinanza di demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi.

6.- Non convince l’argomento difensivo della Amministrazione appellante che pretende derivare da altre disposizioni del Testo unico in materia edilizia il potere dell’autorità soprintendentizia di adottare il parere nel procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R n. 380 del 2001.

In particolare, non appare qui pertinente il richiamo agli artt. 33, comma 4 e 37 comma 3 del d.P.R. n. 380 che prevedono il parere del Soprintendente ai limitati fini della individuazione della sanzione applicabile in caso di opere eseguite su immobili, anche non vincolati, posti nei centri storici, rispettivamente in assenza o in difformità del permesso di costruire o della denuncia di inizio di attività.

Ed invero, in mancanza di uno specifico regime vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se non nei casi e nei limiti previsti dalla legge.

Appare pertanto evidente che le disposizioni dianzi richiamate non trovano applicazione nella fattispecie in esame, in cui soltanto l’Autorità comunale, investita della domanda di accertamento di conformità degli interventi, avrebbe dovuto pronunciarsi sull’assentibilità dell’intervento

7.- D’altra parte non sarebbe rispondente al principio di coerenza del sistema e di simmetria delle forme del procedimento che, mentre in fase di rilascio del titolo edilizio in via ordinaria, l’autorità preposta alla tutela del vincolo non sia coinvolta nel procedimento abilitativo (proprio in ragione dell’insussistenza di un regime vincolistico sull’area), mentre lo sarebbe in caso di rilascio del titolo in sanatoria, pur essendo in ogni caso il titolo ablitativo condizionato, nell’un caso e nell’altro, al rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia del territorio.

Da ultimo, non è secondario rilevare, anche sul piano della interpretazione letterale, come nel procedimento di accertamento di conformità ( art. 37, comma 4, d.P.R. cit.) non sia prevista, per gli immobili non vincolati posti nei centri storici, l’adozione del parere della Soprintendenza, il che è argomento ulteriore a riprova del carattere eccezionale del coinvolgimento dell’autorità paesaggistica nella individuazione della corretta sanzione da applicare in relazione agli immobili siti nei centri storici, anche non vincolati, e della non consentita estensione del principio oltre i casi previsti espressamente dalla legge".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS n. 855 del 2014

Gli indirizzi per la valutazione delle aree fabbricabili interne a strumenti attuativi decaduti quando sono impugnabili?

25 Feb 2014
25 Febbraio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 209 del 2014, la quale ritiene che la deliberazione consiliare relativa non possa essere impugnata in via principale (trattandosi di un regolamento non immediatamente lesivo), ma solo  con l'atto in materia di IMU che darà applicazione al regolamento.

Scrive il TAR: "Considerato che la delibera impugnata ha espresso gli indirizzi per quanto riguarda la valutazione delle aree fabbricabili oggetto delle previsioni di strumenti attuativi decaduti ai sensi dell’art. 18 della L.r. 11/2004; che, pur individuando i valori per i diversi ambiti, rilevandone il deprezzamento nella percentuale del 60%, la delibera fa comunque salvo il diverso computo del valore delle aree, in rapporto ai valori di mercato ed a quelli delle aree contermini, rimandando alla possibilità di una stima diretta del valore dell’area; orbene, nonostante che le doglianze dedotte appaiano dotate di apprezzabili motivi di fumus, con specifico riguardo alla genericità dei dati indicati e soprattutto alla carenza di supporto motivazionale alle conclusioni tratte dall’amministrazione, che non pare aver tenuto conto della sostanziale inedificabilità (giusto il disposto di cui all’art. 33 della stessa legge regionale, sulla stessa linea della normativa statale) delle aree  divenute zone bianche per effetto della decadenza dei vincoli preordinati all’espropriazione, le quali sono caratterizzate da una capacità di sfruttamento edificatorio del tutto marginale, proprio nella prospettiva di non alterare lo status quo nelle more della nuova programmazione urbanistica delle stesse, cui l’amministrazione è peraltro tenuta a provvedere; ritiene tuttavia il Collegio che la reale lesività della deliberazione impugnata si produrrà al momento in cui dovrà essere computato il valore delle aree ai fini del versamento dell’Imu, di modo che in sede di contestazione del valore da attribuire alle aree per il calcolo dell’imposta sarà possibile valutare l’illegittimità dell’atto presupposto, quale è appunto la delibera ora impugnata; pertanto, allo stato e ferme restando le considerazioni sopra espresse – anche ai fini di una rimodulazione delle stime da parte dell’amministrazione comunale – il ricorso deve considerarsi inammissibile, trattandosi dell’impugnazione di un atto di indirizzo, non immediatamente lesivo, volto a regolamentare per il futuro il valore da considerare, con riferimento alle aree individuate, ai fini del calcolo dell’imposta comunale, suscettibile, quale atto regolamentare presupposto, di essere censurato congiuntamente all’atto che ne darà applicazione".

sentenza TAR Veneto n. 209 del 2014

avv. Dario Meneguzzo

I fatti accertati in sede penale devono essere considerati provati nel procedimento amministrativo

24 Feb 2014
24 Febbraio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR Veneto n. 200 del 2014.

Scrive il TAR: "6. Sul punto va, peraltro, ricordato che un costante orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato sez. IV del 22/06/2004 n.4464) ha previsto che, seppur in un diverso ambito, l'Amministrazione possa legittimamente utilizzare il risultato delle indagini penali per quanto riguarda, fra l'altro, i fatti non controversi. Si è sancito, infatti, che “in sede disciplinare, l'amministrazione non ha l'obbligo di svolgere una particolare attività istruttoria al fine di acquisire ulteriori mezzi di prova quando dispone di elementi emersi dal giudizio penale, fermo restando l'obbligo di valutare autonomamente e discrezionalmente i fatti addebitati all'incolpato. Ne consegue che i fatti compiutamente accertati nella sede penale vanno assunti nel procedimento disciplinare senza che sugli stessi l'amministrazione possa procedere a nuovi e separati accertamenti, trattandosi di dati irremovibili, dovendo la p.a. procedere solo all'autonoma e discrezionale valutazione della loro rilevanza sotto il profilo disciplinare. Tale vincolo deve, in ogni caso, intendersi riferito anche alle ipotesi, quale quella di specie, in cui a fronte di una sentenza penale di condanna di  primo grado, sia intervenuta una decisione di appello recante dichiarazione di non doversi procedere per prescrizione del reato, atteso che una tale statuizione processuale non vale a porre nel nulla gli specifici accertamenti compiuti nel primo grado del giudizio penale”.

7. Anche a prescindere dagli esiti del giudizio penale, e ai fini della decisione delle controversie sottoposte al presente Collegio, risulta
comunque dirimente constatare come l’Avepa ha dimostrato la violazione di quanto previsto dalla misura 214, laddove richiede che i
beneficiari della stessa misura dovranno disporre di idonei titoli di possesso sulla superficie oggetto di impegno per cinque anni e, ciò, senza soluzione di continuità".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 200 del 2014

L’interesse al ricorso deve permanere per tutta la durata del processo

24 Feb 2014
24 Febbraio 2014

Nella medesima sentenza il T.A.R. Veneto n. 237/2014 chiarisce che l’interesse al ricorso deve permanere per tutta la durata del processo: “Come è noto l'interesse al ricorso, in quanto condizione dell'azione, deve sussistere tanto al momento della proposizione della controversia, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 14 novembre 2006, n. 6689)”. 

Il Comune può rivolgersi al TAR per ottenere l’adempimento di un atto unilaterale d’obbligo

21 Feb 2014
21 Febbraio 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 124 del 2014: "In primo luogo è necessario precisare come il ricorso di cui si tratta vede quale parte attrice l’Amministrazione comunale, nell’ambito di un giudizio c.d. a parti invertite, dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento dell’atto unilaterale d’obbligo da parte della società Golf Euganeo Spa, affinchè quest’ultima sia condannata ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nella sistemazione del parcheggio antistante la zona di ampliamento. 

2. Sul punto va confermata la Giurisdizione di questo Tribunale, sul presupposto che un costante orientamento giurisprudenziale ritiene come in materia di esecuzione di un atto unilaterale d’obbligo si verta in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò, considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; Cass. n. 7157 del 15/04/2004; Cass. n. 13403 del 23/05/2008)”.
2.1 Si è affermato, infatti, che l’atto unilaterale assolve alla stessa funzione dell’accordo, in quanto il suo contenuto è diretto a integrare il contenuto del provvedimento conclusivo e, ciò, constatando come la volontà delle parti si sia incontrata nell’ambito del procedimento una volta che l’atto d’obbligo è stato recepito dall’Amministrazione.
2.2 Detta circostanza è rinvenibile nel caso di specie, laddove si consideri che l’atto unilaterale d’obbligo è stato recepito
dall’Amministrazione con la delibera n. 61 del 15 Dicembre 2004 con la quale è stata accolta l’osservazione della società resistente.
2.3 Ne consegue come sia applicabile la fattispecie di cui all’art. 11 della L. n. 241/90 e, ciò, considerando quanto precisato da un ulteriore orientamento laddove si è affermato che la “normativa sugli accordi  endoprocedimentali si applica anche alle dichiarazioni unilaterali aventi analoga funzione (Cons. di Stato del 21 Settembre 2011 n. 5300)”.

2.4 Si consideri, inoltre, come la Giurisdizione di questo Tribunale vada confermata anche tutte le volte che si sia in presenza (come nel caso di specie) dell’inadempimento di un “obbligo di fare” (in quanto relativo alla mancata sistemazione del parcheggio), sul presupposto che la fattispecie di cui all’art. 11 sopra citato deve intendersi estesa a tutti i rimedi contrattuali previsti dal Codice civile nell’ambito dei quali rientra l’art. 1453 c.c., nell’intento di assicurare il raggiungimento dell’interesse sottostante all’obbligo assunto e all’accordo sottoscritto.
2.5 E’, altresì noto che, con gli art. 30 comma 1 e 34 del Codice del processo Amministrativo, si è legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
2.6 Ne consegue come sussista il potere di questo Collegio di decidere sulle domande avanzate dal Comune ricorrente, volte ad accertare l'inadempimento sopra citato e a far condannare la società resistente al risarcimento in forma specifica, o per equivalente, in applicazione della disciplina civilistica e di cui all’art. 2931 del codice civile".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 124 del 2014

I limiti del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica della Soprintendenza

21 Feb 2014
21 Febbraio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 123 del 2014.

Scrive il TAR: "La Soprintendenza ha, nel caso di specie, formulato un giudizio sul caso concreto sottoposto alla sua attenzione (così come richiesto dalla giurisprudenza di questa sezione; si vedano, tra le ultime, le nn. 1407, 1294 e 1104 del 2013); Tale giudizio rientra nell'ambito della discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, a fronte della quale il giudice amministrativo incontra il limite del sindacato giurisdizionale nei confronti delle valutazioni tecnico-scientifiche, le quali possono essere ritenute illegittime solo se incoerenti, irragionevoli o frutto di errore tecnico; non potendo, però, il sindacato divenire sostitutivo delle valutazioni spettanti alla P.A. con l’introduzione di una valutazione parimenti opinabile; Nel caso di specie, la Soprintendenza ha ritenuto che le previste aperture a scomparsa sulla facciata dell’edificio - rientranti nel progetto di realizzazione di un’autorimessa al piano terra – “alterano inevitabilmente la logica compositiva della facciata, trasformando la porzione muraria in una “quinta scenica”, contraria alla natura costruttiva dell’organismo architettonico, i cui elementi costitutivi assolvono a funzioni specifiche che non possono essere contraddette senza generare un ineludibile, e mai auspicabile, detrimento dei valori culturali espressi dal bene tutelato. In particolare, sebbene la facciata sia stata oggetto di modifiche forometriche in una fase storica non meglio determinata (la semplice osservazione del prospetto rende evidente ed ovvia la constatazione, anche alla luce di una analisi stilistica e proporzionale), queste, ormai, oltre ad arricchire la stratifìcazione storica del palazzo, concorrono a costituire l’immagine consolidata del fronte su piazza; l'intervento, come già espresso, pur interessando delle porzioni rimaneggiate, è inammissibile in quanto confonde gli elementi portanti e quelli portati, surrogando la muratura di facciata ad un mero apparato scenico sovrastrutturale”; La motivazione è dunque approfondita e specificamente riferita all’opera concreta ed al particolare contesto spaziale in cui essa si va ad inserire; Né si ravvisano elementi d’ incoerenza, irragionevolezza o errore tecnico, se si considera come obiettivo primario e come interesse pubblico perseguito quello alla conservazione del bene culturale in questione; Infine, quanto alla dedotta disparità di trattamento rispetto ad interventi analoghi invece autorizzati, si condividono le osservazioni effettuate dalla Soprintendenza nel medesimo provvedimento impugnato, la quale, coerentemente con l’impostazione specifica del parere, ha sottolineato come si tratti di “valutazioni che concernono specificamente l’immobile in questione e che non si prestano ad alcuna generalizzazione”.

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 123 del 2014

Convegno di Confartigianato Belluno sul piano casa ter: istruzioni per l’uso

21 Feb 2014
21 Febbraio 2014

Pubblichiamo la locandina di un convegno sul piano casa organizzato da Confartigianato di Belluno a Longarone per sabato 22 febbraio 2014, con relatori  Marino Zorzato, Vice Presidente Regione del Veneto, Arch. Vincenzo Fabris, Direttore Dipartimento Territorio Regione del Veneto, Dott. Federico Della Puppa,   Università IUAV Venezia, e il prof. Avv. Bruno Barel.

convegno Piano casa TER . 3 ante WEB ok

Seminario su VAS e pianificazione urbanistica

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Il  prossimo seminario organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti - che avrà come oggetto “Le valutazioni ambientali nell'ambito della pianificazione urbanistica” e vedrà come relatori gli avvocati Paolo Piva e Alessandro Veronese - si svolgerà sabato 22 febbraio prossimo, dalle ore 10 alle ore 13, presso il Tribunale di Padova, Aula d’udienza della Corte d’Assise (“Falcone e Borsellino”), e consentirà il riconoscimento di tre crediti formativi per gli avvocati.

L'ingresso è libero e non è richiesta la preventiva iscrizione.

Appunto sugli interventi edilizi a favore dei disabili

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014
Alla luce della L. R. Veneto n. 14/2009 (c.d. primo Piano Casa), come modificata sia dalla L. R. Veneto n. 13/2011 (c.d. secondo Piano Casa) e sia dalla L. R. Veneto n. 32/2013 (c.d. terzo Piano Casa), la normativa di riferimento per usufruire delle agevolazioni concernenti l’aumento di volume delle abitazioni delle persone disabili sono rappresentati dagli artt. 11, 11-bis e 12 della L. R. Veneto n. 14/2009 i quali prevedono che: “Art. 11 - Interventi a favore dei soggetti disabili.

1. La realizzazione degli interventi di cui alla presente legge funzionali alla fruibilità di edifici adibiti ad abitazione di soggetti riconosciuti invalidi dalla competente commissione, ai sensi dell’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, dà diritto alla riduzione delle somme dovute a titolo di costo di costruzione in relazione all’intervento, in misura del 100 per cento, sulla base dei criteri definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 10, comma 2, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”. 

Art. 11 bis - Interventi finalizzati a garantire la fruibilità degli edifici mediante l’eliminazione di barriere architettoniche.

1. Le percentuali di cui all’ articolo 2, comma 1 e all’articolo 3 sono elevate fino ad un ulteriore 40 per cento per gli interventi da chiunque realizzati e finalizzati alla eliminazione delle barriere architettoniche di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c), della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 . 

2. La Giunta regionale, per le finalità di cui al comma 1, sentita la competente commissione consiliare, che si esprime entro sessanta giorni dalla richiesta trascorsi i quali si prescinde dal parere, integra le prescrizioni tecniche atte a garantire la fruizione degli edifici residenziali privati, degli edifici residenziali pubblici e degli edifici e spazi privati aperti al pubblico, approvate ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 , prevedendo la graduazione della volumetria assentibile in ampliamento in funzione del livello di fruibilità garantito dall’intervento. 

Art. 12 - Modifiche all’articolo 10 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”.

1. omissis

2. Al comma 3 dell’articolo 10 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 , le parole “120 metri cubi” sono sostituite dalle parole “150 metri cubi”.  

 Di conseguenza gli interventi realizzati in attuazione della suddetta normativa, sia da parte dei soggetti disabili sia da parte dei soggetti invalidi civili con una invalidità superiore al 75 %, hanno diritto:

  • alla riduzione del costo di costruzione nella misura pari al 100 %, sulla base dei criteri definiti dalla D.G.R.V. n. 508 del 02.03.2010;
  • all’incremento volumetrico fino a 150 m.c.;
  • ad un ulteriore incremento volumetrico del 40 % se vi è la rimozione delle barriere architettoniche.

 dott. Matteo Acquasaliente

Il regolamento edilizio può prevedere una superficie minima per gli alloggi di nuova costruzione?

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 747 del 2014, che giunge a conclusioni opposte a quelle alle quali era arrivata la sentenza del TAR Veneto n. 1117 del 2012, che è stata conseguentemente riformata.

Il Comune di Colle Santa Lucia ha negato il permesso di costruire richiesto dalla una società  per la realizzazione di tre fabbricati residenziali, comprendenti ciascuno sei unità abitative, di dimensioni variabili da 56,36 mq a 59,41 mq. Il diniego è stato motivato con riferimento all’art. 3.3.1 del regolamento edilizio comunale, che, per le nuove unità abitative nelle costruzioni residenziali, stabilisce in 80 mq le dimensioni minime di superficie di pavimento, al netto delle murature e degli spazi accessori.

La società ha impugnato l’atto di diniego nonché la disposizione del regolamento edilizio, proponendo ricorso che il T.A.R. per il Veneto, sez. II, ha accolto con sentenza 6 agosto 2012, n. 1117. Secondo il Tribunale regionale, la norma impugnata esorbiterebbe dall’ambito suo proprio (che sarebbe quello di assicurare che gli alloggi rispettino i requisiti minimi di carattere igienico-sanitario ovvero rispondano a determinate caratteristiche tecnico-costruttive ovvero ancora assicurino determinate condizioni di sicurezza e vivibilità), per essere invece destinata ad arginare il fenomeno delle c.d. “seconde case”, con illegittima compressione del diritto di edificare degli operatori del settore.

Il Comune ha interposto appello contro la sentenza, contestando la tesi di fondo fatta propria dal T.A.R., e sostenendo che, anche alla luce del quadro legislativo della Regione Veneto, nella materia controversa all’Ente sarebbe consentito intervenire con regolamento edilizio.

Secondo la società vincitrice in primo grado e appellata davanti al Consiglio di Stato, le dimensioni prescritte dal regolamento edilizio (oggetto in passato, sul punto, di numerose, successive modiche) eccederebbero di gran lunga quelle previste dalle norme igienico-sanitarie per appartamenti destinati a stabile residenza (56 mq per alloggi abitati da quattro persone) e sarebbero molto superiori alla dimensione media dei bilocali idonei a incontrare oggi domanda sul mercato. Gli obiettivi sociali del Comune, semmai, andrebbero perseguiti con strumenti diversi (edilizia popolare o convenzionata; c.d. housing sociale; ricorso a politiche fiscali di incentivo o disincentivo);

nessuna norma di fonte primaria (in particolare: non l’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia; d’ora in poi: t.u.) attribuirebbe al Comune poteri come quello contestato in questa sede, né la disposizione regolamentare potrebbe avere – come invece sostiene l’Amministrazione – carattere pianificatorio, dovendo invece limitarsi a disciplinare le modalità costruttive del manufatto;

come interpretata dal Comune, la norma pregiudicherebbe gravemente la libera iniziativa economica e sarebbe smentita da una lettura operata alla luce delle disposizioni costituzionali (artt. 3, 41 e 47), delle regole di concorrenza dell’Unione europea, della più recente normativa di liberalizzazione (in particolare: l’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27). L’interpretazione comunale, ove ritenuta attendibile, dovrebbe condurre a sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme primarie attributive del potere;

in ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per contrasto con le disposizioni ministeriali (decreto ministeriale 5 luglio 1975), manifesta irragionevolezza e illogicità, carenza di motivazione (sarebbe inammissibile, perché postuma, quella recata dalla delibera consiliare n. 15 del 2012).

Il Consiglio di Stato ha accolto l'appello, ritenendo legittima la previsione del regolamento edilizio comunale: "3. Nel merito della questione, si controverte attorno all’ambito del regolamento edilizio comunale, in relazione alla contestata possibilità che questo possa disporre anche circa la superficie minima degli alloggi.

A norma dell’art. 4, comma 1, t.u. - che viene dunque in gioco -, “il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”.

Come è ben noto alle parti, il tema specifico è stato oggetto di una recentissima decisione della Sezione (6 maggio 2013, n. 2433) la quale, dopo avere ricostruito il quadro complessivo della normativa di settore, ha ritenuto che al regolamento edilizio dei comuni debba essere demandata la specificazione delle regole fondamentali dell'edificazione sotto i profili tecnici, estetici, funzionali, igienico-sanitari e - soprattutto, per quello che qui interessa - "di vivibilità" in senso ampio degli abitati.

L'amplissima latitudine della disposizione da sola giustificherebbe il potere regolamentare del Comune di intervenire sulla struttura minima degli alloggi.

4. Si tratta di conclusioni che ovviamente la Savim contesta sia in termini generali sia con riguardo alle particolarità del caso concreto, che presenterebbe significativi elementi di difformità da quello allora deciso (memoria del 7 gennaio 2014). La norma esaminata dalla sentenza, infatti, non si riferirebbe a tutti gli edifici, consentendo invece una diversificazione, e imporrebbe superfici minime (45 mq e 60 mq) inferiori a quella prescritta dal Comune di Santa Lucia.

Come appare dall’incipit della sentenza citata, il regolamento comunale vagliato in quella sede recava la prescrizione “per cui la superficie minima dei 45 mq doveva essere limitata al 25 % del totale degli alloggi di ogni nuovo fabbricato, mentre per il 75 % la superficie minima avrebbe comunque dovuto essere portata a 60 mq”.

Come nel caso presente, si trattava di una regolamentazione a carattere generale, concernente l’intero territorio comunale. Quanto alla differenziazione nell’ambito del patrimonio edilizio, questa nella specie non manca (per il riattamento dei volumi esistenti è previsto il limite minimo di 56 mq, al fine di orientare la domanda turistica verso il recupero degli immobili già edificati). La diversità delle superfici consentite è questione di fatto, frutto di una scelta politica del Comune, che neppure richiederebbe una specifica motivazione per il carattere generale dell’atto e che comunque, in concreto, non appare palesemente irragionevole, in relazione alle finalità che l’Ente ha inteso via via perseguire attraverso le successive modifiche alla propria normativa (e cioè “orientare un processo corretto di trasformazione urbanistica del territorio comunale, relativamente alla metratura minima delle unità abitative” - cfr. la relazione illustrativa alla variante del 2006, che ha portato a 80 mq la superficie minima - nel solco della dichiarata esigenza di “assicurare la realizzazione di appartamenti con spazi idonei alla residenza di carattere stabile”, poiché nel territorio comunale sarebbero “già più che sufficientemente presenti unità abitative di piccole dimensioni, adatte alla sola residenza stagionale” - cfr. la delibera di approvazione della variante del 2005, che aveva previsto il limite in 70 mq).

Non vi sono dunque ragioni perché il Collegio si debba discostare dal precedente richiamato.

5. D’altronde, gli ulteriori argomenti (per così dire, di sistema) proposti dalla società appellata non sono convincenti:

non vi sono elementi perché un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4 t.u. debba condurre a conclusioni diverse: gli artt. 3 e 47 Cost. non sono evocati a proposito, l’art. 41 Cost. pone all’iniziativa economica privata il limite dell’utilità sociale, che nella fattispecie il Comune intende tutelare; per le stesse ragioni, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in via subordinata dalla parte, è infondata;

la normativa dell’Unione europea, peraltro richiamata solo genericamente, tutela non l’iniziativa imprenditoriale in sé, ma la libertà di concorrenza, che qui non viene in questione;

l’art. 1 del decreto legge n. 1 del 2012, a parte la mancanza dei necessari decreti attuativi, ha il medesimo obiettivo di promuovere la concorrenza e fa comunque anch’esso salvo – come peraltro non potrebbe non fare – il limite dell’utilità sociale.

6. In definitiva, l’art. 4 t.u. legittima il Comune a stabilire la superficie di minima degli alloggi di nuova costruzione, poiché la “vivibilità” cui esso si riferisce va intesa – come detto – in senso ampio, comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente, nella sua sfera di competenza, ritenga rilevanti per il normale vivere civile dei propri cittadini, anche in termini di tutela del territorio e della qualità della vita. E questa “vivibilità” può legittimamente essere ricercata imponendo caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto, la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste inevitabilmente comportano.

7. Si osservi infine, per completezza, che la disciplina così disposta non ha nulla a vedere con quella oggetto del decreto ministeriale 5 luglio 1975, i limiti recati dal quale (anche per le superfici: art. 2) attengono solo ai “requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione” e sono dunque estranei alla fattispecie. L’art. 4, comma 1, t.u., d’altronde, distingue nettamente le normative igienico-sanitarie da quelle di vivibilità degli immobili.

8. Né si dica - come sostiene l’appellata (memoria del 12 dicembre 2013) - che la disposizione controversa, semmai, avrebbe dovuto essere adottata con gli strumenti urbanistici e non con il regolamento edilizio.

In realtà, una così netta e radicale distinzione tra regolamento edilizio e N.T.A. al P.R.G. sembra piuttosto artificiosa, quando invece sia l’uno (di natura normativo-regolamentare) che le altre (di carattere programmatorio-pianificatorio) recano prescrizioni destinate a integrarsi reciprocamente. E se il P.R.G. è lo strumento cui compete la disciplina differenziata del territorio, la disposizione concernente le superfici minime ammissibili delle singole unità, riguardando l'intero territorio comunale, ha carattere generale, per cui esattamente il Comune ha ritenuto di provvedere alla sua introduzione attraverso il regolamento edilizio.

9. La disposizione regolamentare impugnata, pertanto, deve dirsi legittima, come di conseguenza legittimo è il diniego opposto dal Comune alla domanda di rilascio del permesso di costruire formulata dalla Savim, che peraltro del presupposto di quel diniego era perfettamente a conoscenza al momento della domanda stessa.

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS n. 747 del 2014

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