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Il confronto concorrenziale si applica anche alle concessioni di servizi

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 14 maggio 2014 n. 633, si occupa della concessione dei servizi ex art. 30 del D. Lgs. n. 163/2006 ribadendo che i principi comunitari di non discriminazione, parità di trattamento, pubblicità e trasparenza impongono alle Amministrazione di utilizzare delle procedure concorsuali anche per la scelta del concessionario. Solamente in presenza di specifiche ed motivate esigenze, infatti, la Pubblica Amministrazione può eccezionalmente derogare al confronto concorrenziale: “1.- Ai sensi della richiamata norma, infatti, nelle gare indette per la concessione di servizi la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato 25 marzo 1957 e dei principi generali relativi ai contratti pubblici (e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità), previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

Le concessioni amministrative sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici proprio per il fatto che, dal punto di vista della tutela della concorrenza, esse hanno la stessa incidenza sul mercato degli appalti, visto che il concessionario ricava un’utilità sfruttando economicamente servizi o beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata. E poiché i principi comunitari ostano a normative o prassi amministrative che, attraverso un’assegnazione non competitiva delle concessioni, siano idonee a provocare un’alterazione delle ordinarie dinamiche di mercato, l’art. 30 del DLgs n. 163/2006 impone che l’affidamento delle concessioni (di servizi) sia preceduto da un confronto concorrenziale fra i possibili aspiranti.

Ciò stante, dunque, è pacifico che la scelta del concessionario debba essere conseguente ad una procedura competitiva e concorrenziale (ispirata ai principi dettati dal Trattato istitutivo dell'Unione Europea), e non a caso l'art. 2, I comma del codice dei contratti prevede che l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza e che l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nello stesso codice.

In tale quadro normativo, per effetto del quale anche la disciplina delle procedure per l'affidamento di concessioni di servizi deve essere conforme ai principi che regolamentano in tutta l'Unione Europea l'assegnazione di commesse pubbliche, si inseriscono con portata indubitabilmente applicativa ad ogni figura di affidamento – lo si annota per completezza - le disposizioni recate dagli artt. 41 e 42 del codice dei contratti, alla stregua delle quali, ancorchè non costituiscano per la stazione appaltante un vincolo diretto, le determinazioni in materia di requisiti soggettivi di partecipazione alle gare non devono essere illogiche, arbitrarie, inutili o superflue e devono essere rispettose del "principio di proporzionalità", il quale esige che ogni requisito individuato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti. Pertanto, il concreto esercizio del potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal pubblico incanto e deve rispettare i principi del codice dei contratti, con la conseguenza che nella scelta dei requisiti di partecipazione il ricordato principio di non discriminazione impone che la stazione appaltante deve ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per l'esercizio dell'attività economica e l'intero impianto delle prescrizioni di gara non deve costituire, dunque, una violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione e trasparenza di cui al citato art. 2, I comma del codice.

2.- È ben vero che ai sensi dell’art. 57, II comma, lett. b) le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara qualora “per ragioni di natura tecnica…..il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato”: ma è altresì vero che di ciò esse devono dar conto con adeguata motivazione nella determina a contrarre e, altresì, individuano, se possibile, “gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. Gli operatori economici selezionati vengono contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta”.

Trattasi, infatti, di procedura che, derogando all'ordinario obbligo dell'Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale, riveste carattere di eccezionalità e richiede un particolare rigore nella individuazione ed apprezzamento dei presupposti che possono legittimarne il ricorso (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 13 gennaio 2005 n. 84), di cui, peraltro, deve essere data adeguata motivazione nella deliberazione o determinazione a contrarre (art. 57, I comma), in modo da "scongiurare ogni possibilità che l'amministrazione utilizzi situazioni genericamente affermate, come un "commodus discessus" dall'obbligo di esperire una pubblica procedura di selezione che è la sola con carattere di oggettività e trasparenza. In tali ambiti, l'obbligo motivazionale non deve atteggiarsi a mera estrinsecazione di un apparato preconfezionato al solo scopo di giustificare le scelte discrezionalmente operate dall'Amministrazione, ma deve oggettivamente offrire l'indicazione dei pertinenti presupposti legittimanti; e, con essi, della presenza di un nesso di necessaria implicazione causale, tale da imporre il ricorso all'affidamento diretto" (cfr. T.A.R. Lazio Roma, I, 18 febbraio 2009, n. 1656).

3.- Precisato, dunque, che la procedura di evidenza pubblica costituisce un indispensabile presidio a garanzia del corretto dispiegarsi della libertà di concorrenza e della trasparenza dell'operato delle Amministrazioni, elementari e indefettibili canoni di legalità (positivizzati, peraltro, nell’art. 57 del codice) impongono alla Pubblica Amministrazione - quando sussistano i presupposti per ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato, i servizi di cui ha bisogno per il suo funzionamento - di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità della propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire l'incarico.

Orbene, nel caso di specie non soltanto l’Amministrazione ha omesso qualsiasi motivazione in merito alla pretermissione della procedura concorsuale, ma nemmeno appaiono sussistenti i presupposti previsti dalla norma per il ricorso alla trattativa privata, giacchè l’aggiudicataria non agisce in regime di monopolio e, comunque, non presenta caratteristiche esclusive con riferimento all’esercizio dell’attività oggetto della concessione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 633 del 2014

Distanze e art. 2-bis del DPR 380/2001: la posizione della Corte Costituzionale sul riparto di competenza tra Stato e Regioni

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza della Corte Costituzionale n.  134 del 2014 del 19 maggio 2014: "...3.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

La disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 6 del 2013, n. 114 del 2012, n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Deve però essere precisato che «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, [sicché] la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Dunque, se, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella competenza legislativa statale esclusiva, alle Regioni è comunque consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale, anche se unicamente a condizione che tale deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.

Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005). Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza – statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» –, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».

In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013).

Tale principio è stato sostanzialmente recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

La norma regionale impugnata dev’essere, dunque, scrutinata alla luce dei suesposti princìpi. Essa s’inserisce in un elenco di varianti ai piani vigenti alla data di entrata in vigore della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013, che, nel quadro di una normativa transitoria applicabile nelle aree industriali lucane, è previsto siano adottate e approvate dal consiglio di amministrazione del Consorzio territorialmente competente, in deroga alla normale procedura regolata dai commi precedenti dello stesso art. 29, «anche su istanza degli operatori economici insediati o che intendano insediarsi nell’area, […] previo espletamento delle procedure di partecipazione per osservazione di cui all’art. 9, comma 2, della legge regionale 11 agosto 1999, n. 23».

Le varianti di cui alla disposizione regionale denunciata attengono, dunque, a strumenti urbanistici mirati (come i piani di area di sviluppo industriale), i quali producono, a norma dell’art. 51, sesto comma, del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno), «gli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150». Tanto determina, per i Comuni ricadenti nell’ambito del piano, l’obbligo di adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici [art. 6 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica)].

Conseguentemente, ricorre nella specie quella finalizzazione urbanistica dell’intervento regionale, intesa alla costruzione di un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, che costituisce l’estrinsecazione della relativa competenza legislativa regionale.

Peraltro, venendo in rilievo una competenza concorrente riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, non v’è dubbio che debbano essere comunque osservati i principi della legislazione statale quali «si ricavano dall’art. 873 cod. civ. e dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 230 del 2005).

Quindi, seppure il regime delle distanze ha la sua prima collocazione nel codice civile, la stessa disciplina ivi contenuta è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968, costituente un corpo unico con la regolazione codicistica.

Per tali ragioni d’ordine sistematico, l’esplicito richiamo al codice civile contenuto nell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 deve essere inteso come riferito all’intera disciplina civilistica di cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e fondamentale.

Così interpretata, la disposizione regionale censurata risulta pienamente rispettosa della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica dei rapporti interprivati, appunto perché essa impone il rispetto del codice civile e di tutte le disposizioni integrative dettate in tema di distanze nell’ambito dell’ordinamento civile, comprese quelle di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968. ..."

Alla luce di tale orientamento, come va interpretato l'art. 9, comma 8 bis. della L.R. Veneta 14/2009, aggiunto dal comma 13, art. 10, legge regionale 29 novembre 2013, n. 32?

 "... Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2 bis del DPR n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente...

geom. Daniele Iselle

sentenza Corte Costituzionale 134 del 2014

Anche una pavimentazione in calcestruzzo può non essere sanabile dal punto di vista paesaggistico ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "7. Per quanto attiene il ricorso presentato con motivi aggiunti avverso il diniego di permesso in sanatoria va rilevato che a parere dei ricorrenti la Soprintendenza, nell’imporre la rimozione della pavimentazione in calcestruzzo, avrebbe espresso una motivazione contraddittoria rispetto al precedente parere del 02 febbraio 2011.

7.1 Dette eccezioni non possono essere condivise. Dalla lettura del parere sopra ricordato emerge come la Soprintendenza abbia ritenuto che la pavimentazione in calcestruzzo, proprio in considerazione della estensione della stessa (pari a 852,46 mq), determinasse una modifica strutturale dell’area non riconducibile alla nozione di “interventi di edilizia minore” che come è noto consentono l’autorizzazione postuma in sanatoria ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004.

7.2 Come correttamente insegna un costante orientamento giurisprudenziale devono intendersi sanabili solo quegli interventi che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, ovvero siano consistiti nell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica ovvero, ancora, abbiano avuto ad oggetto lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 26-01-2012, n. 24).

7.3 Si è affermato altresì (si veda per tutti T.A.R. Campania Salerno Sez. I, 16-02-2012, n. 247), che “la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria in coerenza con la ratio della introduzione di tale divieto induce a ritenere che esulano dalla eccezione prevista dall'art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali)
gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici e di nuovi volumi ….”

7.4 Deve, inoltre, ritenersi inesistente la presunta contraddittorietà tra i pareri del 02/02/2011 e dell’08/10/2012 e, ciò, considerando come la conservazione del pavimento è stata ritenuta ammissibile solo nei tratti coincidenti con semplici marciapiedi esterni di limitata larghezza. Ne consegue come la motivazione della Soprintendenza, non solo deve ritenersi espressione di un potere di merito, ma nel contempo esprima  una motivazione strettamente correlata al caso concreto, nell’ambito del quale si è sancita l’incompatibilità di cui ora si controverte. Il ricorso proposto con i primi motivi aggiunti è, pertanto, infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Oneri specifici: anche il TAR Campania è rigoroso come quello Veneto

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

 Il T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, nella sentenza del 21 maggio 2014 n. 2785, conferma il pensiero rigoroso in materia di oneri specifici espresso in modo unanime dal T.A.R. Veneto e seguito in parte dal Consiglio di Stato: “Ciò posto, ad avviso del Collegio, si palesa fondato, oltre che assorbente, il quinto motivo del ricorso incidentale, con cui si sostiene che la ricorrente principale andava esclusa dalla gara, non avendo indicato gli oneri di sicurezza “da rischio specifico”, detti anche “aziendali”, né in sede di presentazione dell’offerta né in occasione delle giustificazioni prodotte nel corso della verifica di anomalia dell’offerta.

Premesso che la rilevata omissione, con riguardo ad entrambe le fasi della procedura, non è contestata in punto di fatto, il Collegio non ritiene di doversi discostare dall’orientamento, già ribadito anche di recente dalla Sezione, secondo cui l’indicazione degli oneri per la sicurezza costituisce un requisito ineliminabile dell’offerta e, in caso di omissione, comporta l’esclusione dalla gara anche ove non espressamente richiesto dal bando (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 20 febbraio 2013, n. 934, e 8 aprile 2014, n. 2010; Consiglio di Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n.3565, e 23 gennaio 2014, n. 348).

Al riguardo, giova rammentare la distinzione tra oneri di sicurezza per le cc.dd. “interferenze” – i quali sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell’ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto – ed oneri di sicurezza da “rischiospecifico” o “aziendale”, la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta.

Tanto premesso, va chiarito che secondo il Collegio l’omessa indicazione specifica sia dell’una che dell’altra categoria di oneri comporta – sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture – la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell’offerta, venendo a mancare un suo elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici. In particolare, la valenza di elemento essenziale ai costi per la sicurezza è riconosciuta dal dato normativo di cui agli artt. 86, comma 3 bis, e 87, comma 4, del Codice dei contratti, nonchè dell'art. 26, comma 6, del d.lgs. 81/2008, sul fondamentale rilievo del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge richiamate, le quali prescrivono di indicare tali costi distintamente, come tali idonee ad eterointegrare le regole della singola gara, ai sensi dell'art. 1374 c.c., per cui è irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara abbia o meno richiesto la detta indicazione. Ne discende anche che non può ritenersi consentita l’integrazione del suddetto elemento essenziale originariamente mancante mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante, ex art. 46, co. 1 bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.

Va aggiunto che, nel caso di specie, il disciplinare di gara (al punto 3.2., pag. 27) includeva il profilo della sicurezza nel cantiere tra i parametri di valutazione dell’offerta tecnica, laddove al criterio sub c) prevedeva l’assegnazione fino a 15 punti in relazione alle “Proposte di organizzazione del cantiere con utilizzo di sistemi innovativi di gestione e di controllo diretti a garantire un incremento dei livelli di sicurezza […]”.

Alla medesima conclusione della doverosa esclusione del Consorzio Unifica dalla procedura de qua si giungerebbe, nella fattispecie concreta, anche secondo il meno rigoroso orientamento secondo cui l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza ovvero l’omesso scorporo matematico di questi dal prezzo offerto, in assenza di un’espressa comminatoria di esclusione, potrebbe rilevare solo ai fini della valutazione dell’anomalia dell’offerta (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014 n.36; Consiglio di Stato, sez. III, 18 ottobre 2013 n.5070), atteso che, come si è già anticipato, il concorrente ha del tutto omesso di quantificare i suddetti costi anche in sede di giustificativi presentati nell’ambito del sub procedimento di verifica della congruità dell’offerta”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Napoli n. 2785 del 2014

Sì agli oneri di urbanizzazione se c’è aumento del carico urbanistico

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Il T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, nella sentenza del 05 maggio 2014 n. 468 si occupa del discrime tra la ristrutturazione edilizia (leggera o pesante che sia) e la manutenzione straordinaria affermando che: “(a) in base alle definizioni contenute nell’art. 3 comma 1-b-d del DPR 6 giugno 2001 n. 380 (v. art. 27 comma 1-b-d della LR 12/2005), l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio. Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l’introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, ma se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell’insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione;

(b) perché vi sia ristrutturazione non è necessario che cambi la destinazione dei locali o che vi siano incrementi nel volume o nella superficie (questi sono semmai indici della ristrutturazione pesante ex art. 10 comma 1-c del DPR 380/2001). La ristrutturazione presuppone soltanto che si possa apprezzare una differenza qualitativa tra il vecchio e il nuovo edificio;

(c) nello specifico, l’insieme delle opere previste dal progetto rivela chiaramente la finalità di trasformare l’edificio in questione da struttura produttiva unitaria in agglomerato di microimprese. Poiché cambiano profondamente sia gli spazi interni sia le modalità di utilizzazione dell’immobile, è evidente che il nuovo assetto dell’edificio è il prodotto di una ristrutturazione e non di una semplice innovazione, seppure riferita a elementi strutturali”.

Chiarito ciò, per quanto concerne gli oneri di urbanizzazione, il Collegio afferma che la loro debenza - in caso di intervento edilizio - sia dovuta soltanto se vi è un incremento del carico urbanistico. Per il loro calcolo concreto, inoltre, bisogna sottrarre quelli già versati al momento della costruzione dell’edificio: “(e) la normativa regionale (v. art. 44 comma 12 della LR 12/2005) disciplina la fattispecie della ristrutturazione con cambio di destinazione, prevedendo che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria siano commisurati all’eventuale maggiore somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente. Questa norma mette in evidenza il carattere corrispettivo degli oneri di urbanizzazione, che compensano le spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un edificio nuovo o rinnovato. Quando si verifica un cambio di destinazione, la pretesa dell’amministrazione è limitata al costo aggiuntivo delle urbanizzazioni per la nuova destinazione, perché non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;

(f) valutazioni analoghe devono essere svolte nel caso in esame, dove non cambia la destinazione ma è comunque evidente che il nuovo assetto dell’edificio ne consentirà un uso più intenso e quindi con maggiori costi riflessi per la collettività. La principale novità introdotta dalla ristrutturazione è rappresentata infatti dall’incremento del carico urbanistico, che può essere assimilato (a scopo esemplificativo) a quello che si verifica quando da una sola grande unità immobiliare si passa a una pluralità di unità immobiliari autonome. In particolare, con la presenza di numerose microimprese e di spazi di deposito si possono ragionevolmente presumere aggravi nella viabilità e nella movimentazione delle merci, e una maggiore produzione e diversificazione dei rifiuti;

(g) pertanto, fermo restando l’obbligo di corrispondere per intero il contributo collegato allo smaltimento dei rifiuti, e prendendo atto della rinuncia dell’amministrazione ad applicare il contributo sul costo di costruzione in conseguenza della natura produttiva dell’edificio (v. memoria del Comune depositata il 3 gennaio 2014), gli oneri di urbanizzazione devono essere ricalcolati in modo da tenere conto soltanto dell’incremento del carico urbanistico. Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall’importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell’edificio e dei successivi ampliamenti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Brescia n. 468 del 2014

Entro il 1° giugno c’è l’obbligo per i comuni di disciplinare l’installazione delle centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Ringraziando l’arch. Emanuela Volta per la segnalazione, ricordiamo il testo dell’art. 4, c. 1-ter, 1-quater, 1-quinquies  del D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17-quinquies, c. 1, della L n. 134/2012, che introduce importanti novità edilizio-urbanistiche nella costruzione di nuovi edifici diversi da quello residenziali. In particolare l’articolo prevede l’obbligo per i Comuni, entro il 1° giugno 2014, di disciplinare l’obbligo di installare le centraline elettriche per ricaricare i veicoli nelle nuove costruzioni diverse da quelle residenziali: “1-ter. Entro il 1º giugno 2014, i comuni adeguano il regolamento di cui al comma 1 prevedendo, con decorrenza dalla medesima data, che ai fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio sia obbligatoriamente prevista, per gli edifici di nuova costruzione ad uso diverso da quello residenziale con superficie utile superiore a 500 metri quadrati e per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia, l’installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate nel regolamento stesso.

1-quater. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 1-ter del presente articolo, le regioni applicano, in relazione ai titoli abilitativi edilizi difformi da quanto ivi previsto, i poteri inibitori e di annullamento stabiliti nelle rispettive leggi regionali o, in difetto di queste ultime, provvedono ai sensi dell’articolo 39.

1-quinquies. Le disposizioni di cui ai commi 1-ter e 1-quater non si applicano agli immobili di proprietà delle amministrazioni pubbliche”.

Riusciranno i Comuni ad adeguarsi tempestivamente a tale novità?

le serre una volta esaurita la finalità per la quale sono state realizzate, devono essere rimosse e non è ammesso un diverso utilizzo

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "4. Altrettanto censurabile è l’argomentazione, contenuta nel terzo motivo, diretta a sostenere l’inesistenza del contestato mutamento di destinazione d’uso e, ciò, contestualmente alla dedotta carenza di un’idonea motivazione circa l’interesse pubblico esistente a superare un presunto affidamento ingenerato nei ricorrenti.

4.1 L’esame del provvedimento impugnato consente di smentire le argomentazioni di parte ricorrente. In primo luogo va rilevato come la Regione Veneto abbia accertato (come è evincibile dal provvedimento impugnato) la non conformità delle opere interne esistenti con le concessioni edilizie n. 97/122 e 99/144, difformità queste ultime verificate anche per quanto attiene il permesso di costruire n.10/002.

4.2 Per quanto attiene detto ultimo titolo abilitativo va rilevato, sin d’ora, come la demolizione sia una conseguenza diretta di quanto previsto dal comma 6 dell’art. 44 della L. reg.11/2004 e dalla successiva Delibera di Giunta regionale n. 172/2010. In particolare l’art. 44 comma 6 sopra citato, disciplina quest’ultima che costituisce il fondamento per il rilascio del permesso di costruire n. 10/002, prevede il potere della Giunta regionale di individuare “le caratteristiche costruttive e le condizioni da rispettare per l'installazione delle serre tunnel di cui al presente comma”.

4.3 In ossequio a detta disposizione la Delibera di Giunta n. 172/2012 ha previsto che “le serre una volta esaurita la finalità per la quale sono state realizzate, devono essere rimosse e non è ammesso un diverso utilizzo né il cambio di destinazione d’uso del relativo volume/superficie”. Ne consegue che la legislazione regionale ha attribuito ad una successiva delibera il potere di disciplinare le “condizioni da rispettare per l’installazione”, delibera che a sua volta ha esplicitamente sancito l’obbligo della rimozione delle serre tutte le volte che ne sia cessato l’uso in relazione al quale le stesse erano state realizzate. In considerazione della vigenza della normativa sopra richiamata è del tutto evidente che l’Amministrazione comunale non poteva che disporre la demolizione della serra di cui ora si tratta e, ciò, nel momento in cui si era accertato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso e lo svolgimento di un’attività di vendita di piante all’ingrosso. 

4.4 Si consideri, ancora, che l’ordinanza impugnata ha evidenziato la violazione dell’art. 26 punto 3 delle vigenti NTO del Piano di
intervento, rilevando sia la violazione dei parametri di superficie che potrebbero essere dedicati alla vendita al minuto su dette aree sia,  ancora, la violazione del limite delle distanze dai confini di proprietà e, ciò, contestualmente alla realizzazione di opere interne. Ne consegue come deve ritenersi configurata la fattispecie del mutamento di destinazione d’uso con opere che, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale richiede l’emanazione di un correlato permesso di costruire.

4.5 Ciò premesso va comunque evidenziato che il mutamento di destinazione d’uso di cui si tratta doveva considerarsi soggetto a
permesso di costruire anche considerando come in conseguenza di detta variazione si era determinato un incremento del carico urbanistico, da ricondurre all’ampiezza e alla prevalenza (circa il 70% di quella complessiva) della superficie destinata alla vendita all’ingrosso".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

La sanzione demolitoria per gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Segnaliamo un passaggio della sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014: "4.6 Per quanto attiene la dedotta carenza motivazionale, e con riferimento all’interesse pubblico alla demolizione (quarta censura del ricorso), va ritenuto applicabile quel costante orientamento giurisprudenziale in base al quale il provvedimento demolitorio non necessiti di un particolare onere motivazionale, integrando la fattispecie di un atto dovuto al quale l’Amministrazione è obbligata ad ottemperare in presenza dell’obbligo di vigilanza sul territorio di cui all’art. 27 del Dpr 380/2001.

4.7 Va, inoltre, evidenziato come nel caso di specie non sussistevano nemmeno i presupposti per configurare l’esistenza di un contestuale affidamento del privato. Come si rileva nel testo del ricorso erano stati gli stessi ricorrenti a presentare, in data 16/03/2011, una scheda progettuale diretta a realizzare alcune opere in attuazione del Piano degli interventi che, a sua volta, prevede l’ammissibilità di un intervento di perequazione urbanistica mediante la cessione di alcune aree e previa l’adozione di una delibera del Consiglio Comunale.

4.8 Ne consegue che le opere di cui si tratta avrebbero dovuto trovare il loro fondamento nell’applicazione di detto Piano di intervento, la cui mancata esecuzione non è suscettibile di fondare, nemmeno indirettamente, un affidamento del privato al mantenimento delle difformità contestate.

4.9 Deve inoltre condividersi l’argomentazione di parte resistente nella parte in cui evidenzia il breve lasso temporale trascorso dal rilascio dei permessi (giugno 2010) e il venire in essere degli abusi, la cui conoscenza è stata acquisita dal Comune di Camposampiero solo a seguito dell’acquisizione del verbale dell’Unità Periferica regionale per i servizi Fitosanitari e, quindi, solo in data 31 Luglio 2012.

5. E’, altresì, legittima anche la sanzione erogata e, ciò, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente nel quinto motivo.
L’Amministrazione ha accertato, infatti, il contrasto delle opere realizzate con l’art. 26 comma 3 delle NTO del Piano degli Interventi,
constatando la realizzazione di una superficie lorda di pavimento adibita ad attività commerciale superiore al limite di 400 mq e, ancora, l’esistenza di una distanza dal confine di proprietà inferiore ai 5 metri.

5.1 Si è così verificata l’esistenza di un incremento di superfici e di volumi, contestualmente al sopra ricordato mutamento di destinazione d’uso, circostanze queste ultime che consentono di ritenere applicabile la fattispecie di cui all’art. 32 Dpr n. 380/2001 e, ciò, considerando come si sia in presenza di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.  A conforto di detta conclusione va ricordato che un costante orientamento giurisprudenziale ha affermato che … "a norma degli artt. 31 e 32 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, T.U. delle disposizioni in materia edilizia, gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 1726 del 21-03-2011)”.

5.2 Ne consegue la legittimità della sanzione demolitoria.

6. Deve ritenersi legittima anche la sanzione del ripristino della destinazione d’uso per quanto concerne la serra di cui alla concessione
edilizia n. 97/122, risultando applicabile il disposto dell’art. 26 delle NTO sopra richiamato nella parte in cui legittima solo l’attività di
commercio al minuto e, ciò, peraltro nel rispetto di parametri prestabiliti".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Gare pubbliche e malafede

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 08 maggio 2014 n. 579, dichiara legittima l’esclusione di una ditta che aveva omesso di comunicare la condanna dell’amministratore con riferimento ad una diversa gara d’appalto: “Con riferimento al merito del ricorso il Collegio ritiene assorbente e dirimente, ai fini della legittima esclusione del ricorrente, il comportamento complessivo tenuto dalla società ricorrente e puntualmente descritto nel verbale del 17 ottobre 2013, in cui la Commissione giudicatrice, alla luce delle successive informazioni ad essa pervenute e, conseguentemente, accertate ha ritenuto che la predetta società è precedentemente incorsa, nell’ambito della sua attività professionale, in errori gravi.

Tale evenienza, invero si concretezza non già e non solo con la definizione degli eventuali procedimenti penali ovvero amministrativi, ma può essere induttivamente ricavata dalla stazione appaltante attraverso indizi seri, precisi e concordanti che consentono di affermare la negligenza ovvero la malafede nella esecuzione di prestazioni già affidate alla candidata, così che può ricavarsi un giudizio prognostico circa la inaffidabilità della concorrente per la futura esecuzione del lavoro o del servizio eventualmente alla stessa aggiudicato.

Nel caso di specie risulta dagli atti che la ricorrente è stata condannata, anche se la sentenza non è passata in giudicato, per gravi reati ( art. 319, 320 e 321 c.p.), inoltre risulta che alla predetta sono stati revocati, per gravissime irregolarità professionali, i servizi cimiteriali già aggiudicati per i comuni di Villafranca e Vigonza.

Questo Tribunale con le sentenze n. 703/2012 e 96/2013 ha respinto le censure al riguardo avanzate dalla ricorrente in merito alle riferite revoche.

E’ opportuno precisare che la prima decisione è passata in giudicato, non avendo la ricorrente proposto ricorso in appello, mentre per la seconda, tutt’ora pendente innanzi al Consiglio di Stato, l’attuale ricorrente non ha neppure chiesto l’adozione della misura cautelare.

Tali obiettive ed univoche evenienze confortano, senza dubbio, l’opinione della stazione appaltante circa le pregresse incompetenze e carenze professionali evidenziate da circostanze oggettive di significativa gravità, emergendo, così, la inaffidabilità della ricorrente nella gestione del servizio eventualmente alla stessa aggiudicato”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 579 del 2014

Considerazioni sulla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 in materia di concordato preventivo

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Considerazioni di prima lettura in ordine alla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 “Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni contenute nell’art. 38, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 163/2006 afferenti alle procedure di concordato preventivo a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 186-bis della legge fallimentare (concordato con continuità aziendale)”.

Con la determinazione n. 3, del 23 aprile 2014, l’AVCP ha fornito linee interpretative aggiornate in ordine alle ripercussioni della nuova disciplina del concordato preventivo sulla qualificazione degli operatori economici nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Il nuovo provvedimento distingue tra concordato preventivo ordinario o "liquidatorio" e concordato preventivo "con continuità aziendale" e si occupa, altresì, degli effetti sulla disciplina degli appalti pubblici della domanda di concordato "in bianco".

 Il provvedimento dell’AVCP parte dalla constatazione che le precedenti indicazioni operative, contenute nel Comunicato alle SOA n. 68, del 29 novembre 2011, debbono ritenersi superate alla luce della sopravvenuta riforma dell’istituto del concordato preventivo, introdotta nel corpo della legge fallimentare (Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) dal decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, oltreché dalla coeva modifica dell’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

Premessa

Dalla “riforma” operata nel 2012 ed integrata dal c.d. decreto “destinazione Italia” (art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, emergono i seguenti tratti salienti dell’istituto del concordato preventivo, rilevanti ai fini della disciplina della qualificazione degli operatori economici ad operare nel mercato dei contratti pubblici, della relativa capacità di partecipare alle procedure di affidamento di tali contratti e della sorte dei contratti in corso di esecuzione.

Distinzione tra concordato preventivo “con continuità aziendale” e concordato puramente “liquidatorio”

Il primo, introdotto dall’art. 186-bis della legge fallimentare, si ha quando il piano concordatario prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, oppure la cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione. Il secondo è, invece, caratterizzato da un piano concordatario che prevede il soddisfacimento dei creditori esclusivamente attraverso la liquidazione dei beni aziendali, senza alcuna prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività imprenditoriale.

 Possibilità di presentazione di una domanda (rectius: ricorso) di concordato preventivo c.d. “in bianco”

In questo caso il debitore si riserva di depositare la proposta e il piano concordatari nel termine fissato dal giudice, compreso tra 60 e 120 giorni, ulteriormente prorogabile, in presenza di giustificati motivi, per non più di 60 giorni (art. 161, sesto comma, L.F.). Alla presentazione della domanda, ancorché meramente “prenotativa” o “in bianco”, la nuova disciplina del concordato associa l’impossibilità per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore (art. 168 L.F.), nonché, con specifico riguardo ai contratti in corso con le pubbliche amministrazioni, l’esplicita statuizione della relativa non risolvibilità per effetto dell’apertura delle procedura di concordato, mentre la partecipazione a nuove gare è subordinata alla previa autorizzazione del tribunale, sentito il commissario giudiziale se nominato (art. 186-bis, quarto comma, L.F., introdotto dall'art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9).

Dal quadro testé riassunto, l’AVCP ricava le nuove indicazioni operative.

Concordato preventivo “con continuità aziendale”

Il combinato disposto degli artt. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici e 186-bis, commi 3, 4, 5 e 6, della Legge Fallimentare, delinea il seguente regime.

 1^ fase - dalla presentazione della domanda di concordato preventivo “con continuità aziendale” (art. 161 L.F.) al decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.)

 a) I contratti in corso di esecuzione, ancorché stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono (art. 186-bis, terzo comma).

b) La partecipazione alle gare deve essere autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato (art. 186-bis, quarto comma).

c) L’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo. Analogamente, le imprese prive di attestazione possono richiederla per la prima volta. In tutte queste circostanze, peraltro, la determinazione 3/2014 precisa che “resta fermo l’obbligo delle SOA di monitorare lo svolgimento della procedura concorsuale in atto e di verificare il mantenimento del requisito con l’intervenuta ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, pena la decadenza dell’attestazione in caso di mancata ammissione (ndr.: al concordato preventivo “con continuità aziendale”) per sopravvenuta perdita del requisito”.

2^ fase – dal decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.) al decreto di omologazione (artt. 180-181 L.F.)

a) I contratti in essere, stipulati con pubbliche amministrazioni dal debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale”, possono essere ulteriormente eseguiti purché il debitore produca la relazione del professionista che ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.

b) La partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici è consentita purché il debitore presenti la documentazione di cui alla precedente lett. a), nonché la dichiarazione di avvalimento di altro operatore economico. E’ consentita anche la partecipazione in raggruppamento temporaneo di imprese, purché il debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale” assuma la veste di mandante e non di capogruppo-mandatario.

c) Analogamente a quanto stabilito in relazione alla 1^ fase, anche successivamente al decreto di ammissione al concordato l’’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo.

Concordato preventivo “ordinario” o “liquidatorio”

Laddove l’impresa in stato di crisi (ex art. 160 L.F.) presenti una domanda di concordato preventivo che non preveda la continuità aziendale, non è applicabile l’art. 186-bis L.F. e si configura la causa ostativa al requisito generale per la qualificazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

 Conseguentemente:

a) I contratti in corso con le pubbliche amministrazioni sono soggetti a risoluzione per sopravvenuto difetto di qualificazione del contraente privato, con facoltà per la stazione appaltante di interpellare progressivamente i concorrenti postergati nella graduatoria formata in esito della gara che ha portato all’aggiudicazione in favore del debitore richiedente il concordato preventivo (art. 140 D. Lgs. 163/2006).

b) L’attestazione di qualificazione eventualmente posseduta dall’impresa è soggetta alla procedura di decadenza per sopravvenuta perdita del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a) del Codice dei contratti pubblici (art. 40, comma 9-ter, D. Lgs. 163/2006);

c) Non è consentita la partecipazione alle procedure di affidamento di nuovi contratti pubblici. Per quanto, in particolare, attiene ai contratti pubblici di lavori, l’effetto ostativo si produce sia nei confronti dei lavori d’importo superiore a 150.000 euro, sia per quelli d’importo pari o inferiore alla soglia del sistema unico di qualificazione.

Domanda di concordato preventivo “in bianco”

 L’ultima parte della determinazione in commento, dedicata alla fattispecie della domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161, sesto comma, L.F.), giunge a conclusioni che non paiono del tutto coerenti con le norme assunte a riferimento.

 Vi si legge, infatti, che “poiché la presentazione del piano è presupposto per l'applicabilità dell'art. 186 bis L.F., le domande di concordato "in bianco" non risultano essere idonee, di per sé, a permettere la prosecuzione dell'attività.

Da ciò ne deriva che tale ipotesi costituisce causa ostativa per la qualificazione nonché presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito”.

 In particolare, l’affermazione riportata nell’ultimo capoverso prefigura, quale diretta conseguenza della presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ancorché “prenotativa” di un successivo piano per la “continuità aziendale”:

1) l’assenza del requisito generale necessario per acquisire e mantenere la qualificazione, nonché per partecipare alle gare, per essere affidatari di subappalti e per stipulare i contratti ed i subcontratti disciplinati dal Codice (art. 38, comma 1, lett. a, D. Lgs. 163/2006);

2) il verificarsi di una “causa ostativa per la qualificazione” (nel caso di prima richiesta di attestazione), ovvero del “presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito” (nel caso di attestazione già rilasciata e, quindi, efficace).

Simili conseguenze, peraltro, appaiono incompatibili con il regime delineato dal quarto comma dell’art. 186-bis della L.F. relativamente alla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici “successivamente al deposito del ricorso”.

Detta partecipazione è certamente subordinata alla previa autorizzazione del tribunale (sentito il commissario giudiziale, se nominato), ma comunque presuppone la permanente validità ed efficacia dell’attestazione posseduta dall’impresa e, in ogni caso, il persistere del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici. Infatti, quest’ultima norma esclude l’effetto ostativo non solo in capo al provvedimento che ammette il debitore al concordato preventivo “con continuità aziendale”, ma anche alla pendenza del procedimento a ciò finalizzato (che, a norma dell’art. 161, comma 6, L.F., si ha anche con il semplice deposito della domanda “in bianco”, purché prefigurante un successivo concordato “con continuità”).

Altrettanto dicasi anche in ordine alle conseguenze della domanda “prenotativa” di concordato “con continuità” nei confronti dei contratti con pubbliche amministrazioni, in corso di esecuzione alla data di deposito della domanda.

 L’iter argomentativo seguito dall’AVCP nella determinazione in commento dovrebbe comportare il sopravvenire, anche nel caso da ultimo in esame, di una causa di risoluzione di tali contratti, analogamente a quanto indicato nell’ipotesi di domanda di ammissione al concordato “ordinario” o “liquidatorio”.

 Ma tale conclusione si pone in inconciliabile contrasto con la prima parte del terzo comma dell’art. 186-bis L.F., il cui contenuto (ovvero la sopravvivenza dei contratti in corso, anche nei confronti della pubblica amministrazione) trova applicazione anche nel caso della semplice domanda “in bianco” o “prenotativa”, purché finalizzata ad un concordato “con continuità aziendale”.

 E augurabile, pertanto, che l’Autorità riveda le indicazioni interpretative contenute nella determinazione 3/2014, nella parte dedicata al c.d. concordato “in bianco”.

                                                       dott. Roberto Travaglini -  Confindustria Vicenza 

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