Tag Archive for: Veneto

Il rilascio del condono edilizio non implica necessariamente l’agibilità del fabbricato

10 Apr 2013
10 Aprile 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 289 del 2013.

Scrive il TAR: "anche se nella concessione in sanatoria si fa riferimento ad una destinazione a “pollaio” non significa, come invece sostiene il ricorrente, che sia stata implicitamente concessa l’agibilità per uso ricovero animali del manufatto condonato. Licenza questa che, invece, non è mai stata  rilasciata. Peraltro, non esiste alcuna automaticità nel rilascio del certificato di agibilità a seguito di concessione in sanatoria, dovendo, pur sempre, il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di agibilità siano osservate le disposizioni normative sulle condizioni igienico – sanitarie (cfr. Corte Cost. n. 256/1996; Cons. Stato n. 2140/2004). Dunque, il rilascio di una sanatoria edilizia non comporta necessariamente l’obbligo per l’autorità amministrativa di emettere un provvedimento ugualmente positivo in ordine all’agibilità con riguardo all’attività che vi deve essere svolta, in quanto il rilascio di tale ulteriore licenza implica, in capo all’autorità emanante, il preventivo accertamento e la conseguente valutazione di elementi non rilevanti in sede di rilascio della sanatoria che presuppone la presenza di requisiti diversi e autonomi. Nel caso di  specie, l’amministrazione ha da ultimo rilevato, nel corso di un apposito sopralluogo, che il manufatto condonato era stato in concreto destinato ad un’attività, quella di allevamento di maiali, che poteva influire sulle condizioni di salubrità dell’ambiente circostante, essendo situato in prossimità dell’abitazione dell’odierno controinteressato. Pertanto, la destinazione dell’annesso rustico a porcile, costituendo una circostanza nuova e rilevante sul piano igienico – sanitario, comporta la necessità del rilascio di una specifica licenza di agibilità che, d’altra parte, non sembra possa essere attualmente conseguita, stante l’esistenza dell’abitazione di Pio Carretta a distanza inferiore a quella di trenta metri prevista dalle n.t.a. e dal regolamento edilizio.  Va infatti evidenziato che l’attività di allevamento di animali (qual è quella che oggi viene svolta all’interno del manufatto, essendo irrilevante il numero di animali che attualmente vi sono custoditi) rientra nell’elenco delle industrie insalubri di prima classe di cui al D.M. 05.09.1994 e all’art. 216 del R.D. 1265/1934, che devono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni. Ne consegue che sussistevano tutti i presupposti per l’emissione del divieto di destinare a porcilaia l’annesso rustico in questione e che la circostanza della preesistenza o meno dell’annesso rustico all’abitazione di Pio Carretta non è decisiva, in quanto ciò che conta è che l’attività ivi esercitata non è mai stata regolarizzata e dunque oggi è destinata a scontare la vicinanza della detta abitazione".

Sentenza TAR Veneto 289 del 2013

Corti Conti delle Marche: Il Mepa si applica anche agli acquisti in economia

10 Apr 2013
10 Aprile 2013

 La Corte dei Conti, sez. contr. Marche, nel parere del 25 marzo 2013 n. 17, ribadisce l’obbligo di ricorrere al MePA anche per gli acquisti in economia, confermando quanto già espresso nella precedente deliberazione n. 169/2012/PAR commentata nel post del 16.01.2013.

Nello specifico il Comune di Ussita richiama “le motivazioni poste a fondamento della deliberazione n. 169 del 29 novembre 2012 resa da questa Sezione in ordine alla portata cogente del novellato art. 1 comma 450 della L. 296/06 (L.F. 2007) a mente del quale “ fermo restando gli obblighi di cui all’art. 449 della L. 296/06, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/01 per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo art. 328 (del d.p.r. 327/2010)”, giungendo ad affermare che: “l’obbligatorietà del ricorso al mercato elettronico non potrebbe configurarsi rispetto agli affidamenti c.d. in economia rinvenendo gli stessi il loro referente normativo nell’art. 335 del d.p.r. 327/2010 cui l’art. 7 della L. 94/2012 non opera alcun rinvio”; inoltre lo stesso Comun ritiene che: “il disposto di cui all’art. 26 comma 3 della Legge 488/1999 che, in tema di acquisti centralizzati, esclude i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e per i Comuni montani con popolazione fino a 5.000 abitanti dalla platea dei soggetti incisi dalla norma”, determina l’esclusione dell’ente – avente una popolazione inferiore ai 1000 abitanti – non solo dall’obbligo di ricorrere al MePa per gli acquisti in economia, ma anche dalla connessa responsabilità disciplinare ed amministrativa.

Il Collegio, però, ritiene che: “L’esame delle questioni prospettate dall’Ente istante non può che prendere le mosse dal precedente parere reso dalla Sezione e dalle considerazioni svolte in ordine alla obbligatorietà per gli Enti locali di far ricorso – ai fini degli acquisti c.d. sotto soglia – al mercato elettronico previsto e disciplinato all’art. 328 d.p.r. 327/2010.

A tal riguardo giova, anzitutto, ribadire che vertendosi in tema di normativa vincolistica – asseritamente preordinata alla razionalizzazione ed al contenimento di uno specifico segmento di spesa – l’interpretazione della stessa deve essere condotta secondo rigorosi criteri ermeneutici con preclusione di inammissibili interventi additivi.

In questa prospettiva nell’evidenziare, ancora una volta, un indubbio problema di coordinamento della pluralità di norme – anche di diverso rango in ragione delle diverse fonti – che concorrono alla disciplina della specifica materia e, dunque, la opportunità di un intervento, se del caso normativo, che riconduca le stesse ad unità, deve rilevarsi come, valorizzando un’interpretazione letterale, non appaia configurabile un regime differenziato per le acquisizioni in economia ma come, anche per queste, debba farsi ricorso al mercato elettronico.

Nessun argomento, invero, appare desumersi né dal tenore letterale della disposizione né in via interpretativa in ordine alla intenzione del legislatore – pur intervenuto, di recente, sull’art. 1 comma 450 L.F. 2007 (cfr. art. 1 comma 149 lett.a – lett. b) – di introdurre, a fronte del predetto obbligo, una disciplina peculiare e, dunque, derogatoria per le acquisizioni in economia.

Sotto tale profilo, peraltro, la tesi prospettata dall’Ente richiedente non appare persuasiva laddove annette efficacia dirimente alla circostanza che il Regolamento di esecuzione ed attuazione del codice dei contratti dedichi alle acquisizioni di servizi e forniture sottosoglia ed in economia – pur accomunate sotto il medesimo titolo V – due distinti capi (rispettivamente il primo ed il secondo) ovvero al fatto che l’art. 7 comma 2 del D.L. 52/2012 faccia rinvio al mercato elettronico della p.a. e ad altri mercati istituiti ai sensi del medesimo art. 328 e non già all’art. 335 del d.p.r. 207/2010 che facultizza le stazioni appaltanti all’utilizzo del mercato elettronico per effettuare acquisti in economia.

Detti argomenti non si appalesano, invero, di particolare significatività per temperare la portata cogente del novellato art. 1 comma 450 L.F. 2007.

A parere del Collegio, il richiamo al citato art. 328 del Regolamento di attuazione rinvenibile in disposizioni relative alle acquisizioni di servizi in economia (cfr. art. 332 – 335 – 336) in uno alla previsione di cui al comma 4 lett. b) dello stesso art. 328 a mente del quale “avvalendosi del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia ……b) in applicazione delle procedure di acquisto in economia di cui al capo II”, militano, di contro per una ricostruzione unitaria dei due istituti – conformemente, peraltro, alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici (cfr. artt. 121-125 sub Titolo II Contratti sotto soglia comunitaria).

Ritiene, invero, la Sezione che, le pur indubbie specificità delle acquisizioni in economia – soggette ad un peculiare statuto per ciò che attiene ambito oggettivo e sia per ciò che attiene i presupposti legittimanti – non valgano a superare le conclusioni già rese circa la latitudine applicativa dell’obbligo di ricorso al mercato elettronico.

Sotto tale profilo giova, peraltro, evidenziare come i principi di semplificazione e celerità, tipici delle procedure in economia, non subiscano un vulnus, ma ben si concilino con le finalità sottese agli strumenti di e-procurement (su cui amplius 169/PAR/2012 Sezione Marche) e con quelle di razionalizzazione e di contenimento perseguite dal legislatore con i Decreti Spending review 1 e 2”, specificando che: “siffatto obbligo sia esigibile esclusivamente per beni e categorie merceologiche presenti sul mercato elettronico e perfettamente confacenti alle esigenze funzionali dell’Ente mentre procedure tradizionali ed autonome possono ritenersi consentite – ancorchè in via residuale – laddove il bene e/o servizio non possa essere acquisito mediante i richiamati sistemi di e-procurement ovvero laddove, pur disponibile, si appalesi inidoneo rispetto alle necessità della amministrazione procedente (cfr. deliberazione 169/PAR/2012 anche con riguardo all’obbligo di motivazione).

Ciò posto, venendo alla ulteriore questione prospettata dall’Ente richiedente con riguardo al connesso profilo delle responsabilità, ritiene il Collegio che, atteso il tenore letterale del disposto di cui all’art. 1 comma 1 D.L. 95/2012, il dato demografico (Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti o sino a 5.000 se montani) rilevi, atteso il richiamo all’art. 26 comma 3 L. 488/99, solo con riferimento alla prima ipotesi evocata dalla norma sanzionatoria e non già con riferimento alla seconda ipotesi ed alla pretesa violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti messi a disposizione di Consip Spa”.

Si consiglia, inoltre, anche la lettura del parere della Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, del 21 marzo 2013 n. 89, il quale affronta approfonditamente e in modo dettagliato l’evoluzione normativa e giurisprudenziale della materia de qua.

dott. Matteo Acquasaliente

C. Conti sez. contr. Marche n. 17 del 2013

C. Conti sez. contr. Lombardia n. 89 del 2013

Decreto legge per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione

10 Apr 2013
10 Aprile 2013

Sulla GU n.82 del 8-4-2013 è stato pubblicato il decreto legge 8 aprile 2013 n. 35, recante: "Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonche' in materia di versamento di tributi degli enti locali. (13G00077)".

DECRETO-LEGGE 8 aprile 2013, n. 35

Gli interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici vanno rimossi, senza possibilità di invocare le disposizioni sull’attività edilizia libera

09 Apr 2013
9 Aprile 2013

La sentenza del Tribunale di Venezia in commento riguardava una causa di scioglimento di una comunione avente ad oggetto un terreno agricolo.

Nell’economia del giudizio rilevava l’abusività o meno di un “gazebo” insistente sull’area.

Gli attori, per sostenere la legittima insistenza del manufatto, avevano provato di avere subito (e pagato) una sanzione pecuniaria ex art. 6 comma 7 del D.P.R. 380/2001, dunque per omessa comunicazione di attività edilizia libera.

Il giudice ordinario – avvalendosi del potere generale di cui all’art. 5 della L. 2248/1965, all. E – ha disapplicato nel caso specifico l’ordinanza applicativa della sanzione pecuniaria, ritenendo da un lato che il gazebo non potesse essere ricompreso in alcuna delle previsioni di “attività libera” dell’articolo 6 e dall’altro che comunque fosse preclusivo dell’applicazione dell’articolo 6 (e delle sanzioni da esso previste) il contrasto del gazebo con la destinazione urbanistica dell’area.

Si legge nella sentenza:

In primo luogo, il gazebo non risulta rientrare in nessuna delle fattispecie elencate all'art. 6 co. 2 D.P.R. 380/2001 novellato e, in particolare, non appare costituire una pertinenza difettando l'edificio principale (si rammenta che il bene in comunione è un terreno). In secondo luogo, occorre osservare, con riferimento all'attività edilizia libera disciplinata dal D.P.R. n. 380 del 2001 art. 6, che la stessa riguarda alcune tipologie di opere che si ritiene non abbiano alcun impatto sull'assetto territoriale e, come tali, non soggette ad alcun titolo abilitativo.

L'art. 6 è stato profondamente modificato ad opera della menzionata L. n. 73 del 2010 che ne ha sostituito il testo originario.

La disposizione, tuttavia, specifica che vengono fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e non si prescinde dal rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, dalle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004.

Dal tenore letterale del testo deve ritenersi che l'elencazione non sia tassativa ma esemplificativa, con la conseguenza che deve ritenersi richiesto il rispetto di tutta la normativa di settore, ancorché non menzionata, che abbia comunque rilevanza nell'ambito dell'attività edilizia.

Dovranno, pertanto, essere esclusi dall'applicazione di tale particolare regime di favore tutti gli interventi eseguiti in contrasto con le disposizioni precettive degli strumenti urbanistici comunali ed in violazione delle altre disposizioni menzionate. Sulla scorta di dette premesse, la Suprema Corte ha affermato il principio, secondo il quale la particolare disciplina dell'attività edilizia libera, contemplata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6 come modificato dalla L. n. 73 del 2010, art. 5, comma 2, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici (così Cass. pen. n. 19316/2011).

Alla luce del principio appena formulato, deve ritenersi che, nel caso in esame, il gazebo non fosse realizzabile da parte dei comproprietari in assenza di un titolo abilitativo, in quanto la sua erezione è avvenuta in area classificata dallo strumento urbanistico come zona agricola, di tal che l'opera si pone in contrasto con la destinazione urbanistica dell'area”.

La decisione ci sembra del tutto corretta.

Forse la conclusione – ma non era oggetto del giudizio – potrebbe essere ancora più ampia, e radicale: alla luce dei presupposti dati, infatti, il gazebo appare non solo e non tanto “non realizzabile in assenza di un titolo abilitativo”, ma non realizzabile tout court.

Infatti se da un lato, come ha ricordato la sentenza, l’art. 6 fa salve esplicitamente “le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività' edilizia ….”, va ricordato anche che l’art. 22 comma 1 del D.P.R. 380/2011, in tema di SCIA, richiede in ogni caso la conformità “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”; e ancora, e soprattutto, che l’art. 27 comma 2 sempre del Testo unico (su cui si siamo espressi in più occasioni in questo blog[1]) prevede la sanzione demolitoria “in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Insomma, non ci sono solo le attività libere, quelle soggette a comunicazione, quelle soggette a SCIA/SIA, quelle soggette a permesso di costruire; ci sono anche le attività non ammesse (dalla legge o dallo strumento urbanistico), e per esse l’unica sanzione non può che essere quella ripristinatoria.

Dario Meneguzzo

Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicita’, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni

09 Apr 2013
9 Aprile 2013

E' stato pubblicato sulla GU n.80 del 5-4-2013 ed entrerà in vigore il 20 aprile 2013 il DECRETO LEGISLATIVO 14 marzo 2013, n. 33, recante "Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. (13G00076)".

Segnaliamo che l'articolo 39 stabilisce che la pubblicazione degli atti di governo del territorio, come, per esempio, i piani territoriali, i piani di coordinamento, i piani paesistici, gli strumenti urbanistici generali e di attuazione e le loro varianti, è condizione per l'acquisizione di efficacia di detti atti.

"Art. 39  Trasparenza dell'attivita' di pianificazione e governo del territorio

   1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano:

    a) gli atti di governo del  territorio,  quali,  tra  gli  altri, piani  territoriali,  piani  di  coordinamento,   piani   paesistici, strumenti urbanistici, generali e  di  attuazione,  nonche'  le  loro varianti;

    b)  per  ciascuno  degli  atti  di  cui  alla  lettera  a)   sono pubblicati, tempestivamente, gli schemi di  provvedimento  prima  che siano  portati  all'approvazione;   le   delibere   di   adozione   o approvazione; i relativi allegati tecnici.

  2.  La  documentazione   relativa   a   ciascun   procedimento   di presentazione  e  approvazione  delle  proposte   di   trasformazione urbanistica  d'iniziativa  privata  o  pubblica  in   variante   allo strumento urbanistico generale comunque  denominato  vigente  nonche' delle proposte di trasformazione urbanistica d'iniziativa  privata  o pubblica in attuazione dello strumento urbanistico  generale  vigente che comportino premialita' edificatorie  a  fronte  dell'impegno  dei privati alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra  oneri  o della cessione  di  aree  o  volumetrie  per  finalita'  di  pubblico interesse e' pubblicata in una sezione apposita nel sito  del  comune interessato, continuamente aggiornata.

  3. La pubblicita' degli atti di cui al  comma  1,  lettera  a),  e' condizione per l'acquisizione dell'efficacia degli atti stessi.

  4. Restano ferme le discipline di dettaglio previste dalla  vigente legislazione statale e regionale".

Decreto Legislativo 14 marzo 2013 n. 33

Ancora sul concetto di “bosco”

08 Apr 2013
8 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza del 29 marzo 2013 n. 1851, si sofferma sulla definizione di bosco.

Nello specifico la sentenza ritiene che un terreno coperto da 268 piante, prevalentemente di pino domestico, messe a dimora negli anni ’80, non possa qualificarsi come bosco né alla stregua dell’art. 14 della l. r. Campania 7.05.1996 n. 11, né ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. 18.05.2001 n. 227 (c.d. T.U. forestale) né ai sensi dell’art. 142 del D. Lgs. 22.01.2004 n. 42 (c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio): “Si tratta dunque di verificare, alla luce degli espletati accertamenti in fatto, se qui si era in presenza di un vero e proprio “bosco”.

Premesso che si tratta di una nozione di ordine sostanziale, per la cui operatività in concreto non è necessario un previo atto amministrativo di ricognizione e perimetrazione, va rilevato che la nozione di “bosco” richiamata ai fini della tutela paesaggistica dall’art. 142 è in principio normativa, perché fa espresso rinvio alla “definizione di bosco” dell’art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227 (Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), che (comma 2) demanda alle regioni di stabilire la definizione stessa e che (comma 6) nelle more, “ove non diversamente già definito dalle regioni stesse”, prevede cosa si debba considerare per “bosco”.

L’art. 14, comma 1, della ricordata legge regionale campana n. 11 del 1996, che non appare in contrasto con questa successiva legge statale e che comunque va, anche per esigenze di omogeneità nazionale, a questa rapportata, considera “boschi” “i terreni sui quali esista o venga comunque a costituirsi, per via naturale o artificiale, un popolamento di specie legnose forestali arboree od arbustive a densità piena, a qualsiasi stadio di sviluppo si trovino, dalle quali si possono trarre, come principale utilità, prodotti comunemente ritenuti forestali, anche se non legnosi, nonché benefici di natura ambientale riferibili particolarmente alla protezione del suolo ed al miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività plurime di tipo zootecnico”.

Nella fattispecie in esame il terreno era coperto da un insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico, messe a dimora a filari paralleli negli anni ’80 del secolo scorso.

A giudizio del Collegio, questo insieme non corrisponde alla nozione di “bosco”: né alla luce della detta disposizione regionale, né alla luce della nozione generale stabilita dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 227 del 2001, né alla luce, comunque, del comune significato proprio della parola.

Poiché qui si verte di tutela del paesaggio, è essenziale considerare che il rinvio alla definizione normativa, che è propria del distinto ordinamento del settore forestale, è sottoposto all’insuperabile limite di ragionevolezza e di proporzionalità rispetto alla finalità propria di questa tutela (diversamente, l’apparato autorizzatorio e sanzionatorio del paesaggio verrebbe incongruamente traslato ad apparato autorizzatorio e sanzionatorio dell’interesse forestale: così in particolare dicasi per gli interventi di distruzione o di “modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione” ai sensi dell’art. 146). Come altri vincoli “morfologici” del medesimo art. 142 d.lgs. n. 42 del 2004, questo vincolo per categoria legale muove dalla considerazione che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” (art. 131) (cfr. Cons. Stato, VI, 12 novembre 1990, n. 951). Per questa ragione ne sono esclusi gli insiemi arborati che non costituiscono elementi propri e tendenzialmente stabili della forma del territorio, quand’anche di imboschimento artificiale; ma che rispetto ad essa costituiscono inserti artefatti o naturalmente precari.

Al tempo stesso, va considerato che “foreste e boschi” sono a questi propositi evidentemente altro da “i giardini e i parchi […] che si distinguono per la loro non comune bellezza” e non tutelati come beni culturali individui, di cui parla il precedente e contestuale art. 136, comma 1, lett. b), a proposito dei beni paesaggistici che possono essere vincolati in via amministrativa (non vi sarebbe ragione di un vincolo in via amministrativa se già vi fosse il vincolo ex lege).

Perciò, in coerenza con queste distinzioni, per riconoscere ai fini dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio la presenza di un bosco occorre un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione forestale arborea” e – tendenzialmente almeno – da arbusti, sottobosco ed erbe. Questa copertura, per rispondere ai detti caratteri, deve costituire un sistema vivente complesso (non perciò caratterizzato da una monocoltura artificiale), di apparenza non artefatta (come ad es. se a filari). Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola, ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto di “densità piena”, dove la “pienezza” della massa boschiva sta non solo a significare il livello di copertura del suolo, ma anche ad evocare la naturale capacità di rigenerazione o rinnovazione. Il bosco è un complesso organismo vivente, nel quale le nuove risorse sono in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di esaurimento. Non è quindi sufficiente la presenza di piante, quand’anche numerose, ma non strutturate fino a sviluppare un ecosistema in grado di autorigenerarsi”.

Per completezza espositiva si sottolinea che, nella Regione Veneto, la definizione di bosco è dettata dall’art. 14 della l. r. 13.08.1978 n. 52 (Legge forestale regionale), il quale prevede una definizione di area boscata conforme al c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio: “1. Agli effetti della presente legge si considerano a bosco tutti quei terreni che sono coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo.

2. Sono parimenti da considerarsi bosco i castagneti da frutto.

3. I terreni, privi temporaneamente della vegetazione forestale, per cause naturali o per intervento dell’uomo, conservano la classificazione a bosco.

4. Non sono considerate bosco le colture legnose specializzate.

5. Per coltura legnosa specializzata si intende l'impianto di origine artificiale, effettuato anche ai sensi della regolamentazione comunitaria, reversibile a fine ciclo colturale ed eseguito su terreni precedentemente non boscati.

6. Le colture legnose specializzate devono essere gestite secondo le indicazioni fornite dal servizio forestale regionale competente per territorio, fatta eccezione per quelle esistenti su terreno escluso da vincolo idrogeologico.

7. Sono parimenti esclusi i parchi cittadini ed i filari di piante.

8. Non si considerano a bosco i terreni in cui il grado di copertura arborea non supera il trenta per cento della relativa superficie e in cui non vi è in atto rinnovazione forestale e le macchie boscate, realizzate in base al Reg. CE n. 1257/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti, ed in base ai relativi regolamenti precedenti.

8 bis. I boschi, come definiti al presente articolo, devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri.

8 ter. Sono assimilate a bosco le radure e tutte le altre superfici d'estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco.

8 quater. Le disposizioni di cui ai commi 8, 8 bis e 8 ter non si applicano nelle aree naturali protette e nei siti della rete Natura 2000 di cui alla Direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, qualora i rispettivi piani di gestione o gli strumenti di pianificazione forestale di cui all’articolo 23, individuino valori parametrici di maggiore tutela.

8 quinquies. La definizione di bosco di cui al presente articolo si applica anche ai fini dell’applicazione dell’articolo 142, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS 1851 del 2013

L’evidenza pubblica richiesta dal diritto comunitario non implica che spetti solo al Comune l’esecuzione delle opere di urbanizzazione

08 Apr 2013
8 Aprile 2013

 Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013 (già pubblicata nei giorni scorsi), sottolinea che l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, quando è richiesta l’evidenza pubblica, non è riservata al Comune, ma può anche essere convenzionalmente attribuita al lottizzante, il quale sarà allora tenuto a esperire le procedure di evidenza pubblica.

Chiarito che: una convenzione urbanistica ben può contemplare la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo; e la circostanza per cui la realizzazione di tali opere gravi economicamente sull’operatore privato che è parte della convenzione non determina la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime, non sottacendosi, altresì, che nella specie la convenzione vincola Kolbe a fornire determinate infrastrutture, senza contemplare di per sé un puntuale obbligo a direttamente realizzarle”, i Giudici di Palazzo Spada rigettano la tesi di parte ricorrente secondo cui non si può imporre a carico del soggetto titolare del permesso di costruire l’obbligo di realizzare e/o di cedere opere diverse ed ulteriori rispetto a quelle necessarie all’urbanizzazione dell’area interessata dall’intervento edilizio assentito, “anche se nella sua prospettazione l’attuale appellante avesse inteso far valere la nullità o l’annullabilità del proprio obbligo a realizzare le opere di urbanizzazione dedotto nella convenzione, alludendo ad un preteso obbligo di fonte comunitaria - derivante ad oggi dal combinato disposto degli artt. 1 e 8 della direttiva 2004/18/CE - di affidare mediante evidenza pubblica (e, quindi, non mediante convenzione conclusa con il lottizzante privato) la realizzazione delle opere di urbanizzazione: disciplina, questa, recepita comunque nel nostro ordinamento, in epoca successiva ai fatti di causa, mediante l’art. 32, lett. g) del D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163”.

 Infatti i Giudici sottolineano che: “Per il vero la disciplina di fonte comunitaria alla quale parrebbe alludere Kolbe si identifica nella nozione di “appalto pubblico di lavori” così come definito dall’art. 1, lett. a), della precedente direttiva 93/37/CEE, per certo vigente all’epoca dei fatti di causa ed inteso dalla giurisprudenza comunitaria come comprensivo anche delle opere di urbanizzazione (cfr. Corte di Giustizia CE, Sez. VI, 12 luglio 2001 n. 399, Ordine Architetti delle Province di Milano e Lodi e altro c. Comune di Milano).

La stessa giurisprudenza comunitaria, tuttavia, ha espressamente precisato al riguardo che l’osservanza dell’obbligo comunitario non implica una soluzione organizzativa all’interno dell’ordinamento italiano tale da vincolare l’Amministrazione comunale ad applicare le procedure di aggiudicazione della direttiva, essendo a ciò tenuto – ove ne ricorrano i presupposti – lo stesso lottizzante privato (cfr., in tal senso, la testé riferita sentenza della Corte di Giustizia CE, nonché la disciplina ora contenuta nell’anzidetto art. 32, lett. g. del D.L.vo 163 del 2006).

In conseguenza di ciò, pertanto, la disciplina di fonte comunitaria invocata da Kolbe non può assurgere a presupposto per invocare la nullità o l’annullabilità della Convenzione da essa conclusa con il Comune, essendo semmai obbligo della stessa Kolbe curare i dovuti adempimenti dell’evidenza pubblica nella scelta del soggetto realizzatore delle opere di urbanizzazione, anche perché – del resto – correttamente lo stesso giudice di primo grado ha “chiarito che Kolbe non è un appaltatore” e che alla stessa, semmai, “era stato chiesto di conseguire un risultato, cioè la realizzazione di un’opera di urbanizzazione, individuando altresì l’esborso economico corrispondente, il quale costituisce il limite dell’onere economico che si può far gravare sulla stessa. Questo però non significa, com’è intuibile, che l’obbligata potesse pretendere di realizzare direttamente l’opera e di trarne addirittura un utile d’impresa, sovrapponendo la qualità di committente e quella di esecutore, e giungendo poi a richiedere la risoluzione del rapporto ove l’utile non fosse conseguibile” (cfr. pag. 24, rispettivamente al § 4.2.3. e al § 4.2.2.)”.

Naturalmente il lottizzante non sarà tenuto a esperire procedure di evidenza pubblica nei casi nei quali nemmeno l’ente pubblico lo sarebbe.

dott. Matteo Acquasaliente

La localizzazione delle farmacie continua a necessitare della pianta organica?

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 3 aprile 2013 n. 1858, affronta numerose questioni concernenti il trasferimento delle sedi farmaceutiche.

Nel post del 18.07.2012 si era sottolineato che il D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. decreto Cresci Italia), convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012 n. 27, aveva eliminato l’obbligo dei Comuni di adottare una pianta organica per la localizzazione delle sedi farmaceutiche, avendo i medesimi solo l’onere di identificarne le zone.

 Nella sentenza de qua, chiarito che le piante organiche prevedono (o meglio dovrebbero prevedere) in modo specifico e dettagliato le sede di ciascuna farmacia atteso che: “Com’è noto, la generalità, se non la totalità, delle piante organiche descrive invece in modo minuzioso e preciso i confini di ciascuna sede farmaceutica, rispettando il principio (non espressamente enunciato dalla legge, ma desumibile dal contesto e recepito da giurisprudenza più che consolidata) che la distribuzione del territorio comunale fra le sedi non deve lasciare spazi vuoti né sovrapposizioni. Questa cura nel delimitare le sedi farmaceutiche è coerente con la funzione che questo atto assume nel sistema: infatti, com’è noto, il territorio assegnato alla farmacia attribuisce al suo titolare la facoltà (sia pure non incondizionata) di scegliere all’interno di quel perimetro l’ubicazione dell’esercizio e gli attribuisce, altresì, un diritto di esclusiva, ossia il divieto agli altri farmacisti di insediarvisi”, i Giudici di Palazzo Spada evidenziano che, mutatis mutandi, i Comuni possono continuare a pianificare la localizzazione della farmacie tramite la pianta organica o altri strumenti equivalenti: “8. Sin qui, la questione è stata esaminata con riferimento alla disciplina vigente anteriormente alle modifiche all’ordinamento farmaceutico, apportate dal decreto legge n. 1/2012, modificato dalla legge di conversione n. 27/2012.

Ma, ad avviso del Collegio, le nuove disposizioni non cambiano realmente il quadro, per quanto qui interessa.

E’ vero, infatti, che sono state soppresse le disposizioni che prevedevano la formazione e la revisione periodica delle piante organiche comunali, a cura di un’autorità sovracomunale (da ultimo, la Regione o la Provincia, a seconda delle norme regionali).

Tuttavia rimane invariato l’impianto generale della disciplina, a partire dal "numero chiuso" delle farmacie, pur se i criteri per la determinazione di tale numero sono alquanto modificati. Peraltro, il "numero chiuso" implica logicamente che la distribuzione degli esercizi sul territorio sia pianificata autoritativamente. E in effetti, il nuovo testo dell’art. 2 della legge n. 475/1968, come modificato dal d.l. n. 1/2012, dispone: «Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate».

Non si parla più di "sedi" ma di "zone"; ma questo mutamento non è rilevante, perché la giurisprudenza aveva già da tempo avvertito che quando la normativa previgente usava il termine "sede" si doveva intendere "zona", perché questo era il significato che si desumeva dal contesto. Peraltro usa il termine "zona" anche l'art. 1, comma settimo (originariamente comma quarto) della legge n. 475/1968, del seguente tenore: «Ogni nuovo esercizio di farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona». A sua volta il regolamento approvato con d.P.R. n. 1275/1971, art. 13, secondo comma, dispone: «Il locale indicato per il trasferimento della farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona».

E’ vero che la nuova formulazione dell’art. 2 sembra riferirsi esplicitamente solo all’assegnazione delle "zone" alle farmacie di nuova istituzione, tacendo delle altre; ma stanti il contesto e la finalità dichiarata dalla legge, è ovvio che anche le farmacie preesistenti conservano il rapporto con le "sedi", ossia "zone", originariamente loro assegnate; e questo appunto dispone esplicitamente l’art. 13 del regolamento, che del resto esprime una implicazione naturale del sistema.

Ed è nella logica delle cose che questo potere-dovere di pianificazione territoriale non si eserciti una tantum ma possa (e se del caso debba) essere nuovamente esercitato per apportare gli opportuni aggiornamenti, e che ciò venga fatto nel quadro di una visione complessiva del territorio comunale.

In conclusione, benché la legge non preveda più, espressamente, un atto tipico denominato "pianta organica", resta affidata alla competenza del Comune la formazione di uno strumento pianificatorio che sostanzialmente, per finalità, contenuti, criteri ispiratori, ed effetti corrisponde alla vecchia pianta organica e che niente vieta di chiamare con lo stesso nome”.

Nella medesima sentenza, inoltre, il Consiglio di Stato si pone il problema dell’applicabilità del silenzio assenso, ex art. 20 della l. 241/1990, alla richiesta di trasferimento di una sede farmaceutica, sfuggendo però dalla risoluzione del quesito: “10. 1. Per vero, l’art. 20 della legge n. 241/1990, che concerne il silenzio-assenso, espressamente esclude dalla sua applicazione (e dunque dall’istituto del silenzio-assenso) fra l’altro, la materia della tutela della salute. Ora, la distribuzione territoriale degli esercizi farmaceutici, e il relativo sistema di pianificazione, rientrano in questa materia, come si ricava anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 295/2009, che per questa ragione ha escluso che con legge regionale si possa modificare il rapporto numerico, fissato con legge dello stato, tra popolazione e sedi farmaceutiche (neppure ove la legge regionale abbia l’effetto di incrementare il servizio – come nella fattispecie esaminata allora dalla Corte).

Peraltro la tabella C del D.P.R. n. 300 del 26 aprile 1992, recante il Regolamento concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come integrata dall’allegato 1 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 407, include (al n. 52), fra le attività sottoposte alla disciplina dell'art. 20 della legge n. 241/1990, con indicazione del termine di 60 gg. entro cui le relative domande si considerano accolte, i trasferimenti di titolarità, le nuove aperture ed i trasferimenti dell’ubicazione delle farmacie.

Si potrebbe dunque discutere se la disposizione regolamentare, in quanto esplicita ed inequivoca, prevalga sulla indicazione contraria che emerge dalla fonte di livello superiore; o se invece essa debba essere disapplicata proprio in quanto contrastante con la norma primaria.

Tuttavia il Collegio ritiene di potersi esimere da questo problema perché, come si mostrerà appresso, dato e non concesso che in questa materia si applichi l’istituto del silenzio-assenso, in concreto la fattispecie non si può ritenere realizzata”.

Infine, con riferimento all’ubicazione concreta della farmacia, il Collegio afferma che: “Il trasferimento di ubicazione di una farmacia, all’interno della zona di pertinenza è soggetto ad autorizzazione dell’autorità competente (in Sardegna la A.S.L.) la quale deve verificare, fra l’altro che «il locale indicato per il trasferimento della farmacia [sia] situato in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona» (art. 13 del regolamento approvato con d.P.R. n. 1275/1971, che riproduce una formula della legge n. 475/1968).

Come osservato dalla giurisprudenza e in particolare anche da questa Sezione (sent. n. 6810/2011) questa disposizione implica un potere discrezionale che viene a limitare la libertà del farmacista di scegliere l’ubicazione del suo esercizio all’interno della zona a lui assegnata; tale potere va interpretato in senso ragionevolmente restrittivo, in quanto ordinariamente si può presumere che il titolare si orienti spontaneamente dove è maggiore la domanda ed è prevedibilmente più elevato l’afflusso degli avventori, e quindi verso il luogo che, di fatto, è il più idoneo a soddisfare le esigenze degli abitanti della zona.

Tuttavia, il diniego dell’autorizzazione può essere anche giustificato: ad esempio, nel caso in cui il titolare si orienti verso un’ubicazione che rispetto alla zona di competenza è del tutto eccentrica e marginale, e come tale non risponde alle esigenze della relativa popolazione, ma piuttosto è funzionale ad una utenza esterna (questo era appunto il caso deciso con la sentenza n. 6810/2011, con la quale è stato giudicato legittimo il diniego dell’autorizzazione)”.

Ovviamente quanto esposto supra vale solamente per il trasferimento di una sede farmaceutica, non per il trasferimento di un dispensario (farmaceutico) stagionale: “4. La presente decisione si riferisce essenzialmente alla questione del trasferimento della farmacia di titolarità.

L’altra questione del trasferimento (in senso inverso) del dispensario diverrà attuale solo nel momento (allo stato futuro e incerto) in cui la località Abbiadori venga a risultare dotata di un esercizio farmaceutico in titolarità. Peraltro, i suoi termini saranno alquanto diversi, in quanto la disciplina dei dispensari stagionali (legge 221/1968 e s.m.) appare differente, sul punto, rispetto a quella delle farmacie in titolarità: a queste ultime, come si è detto, è assegnata una "zona" relativamente estesa, all’interno della quale il titolare ha la facoltà (sia pure non incondizionata) di spostarsi; mentre un dispensario stagionale è istituito in una località determinata fissata nel provvedimento che lo istituisce, e cessa nel momento in cui vengono meno le condizioni che ne avevano giustificato l’apertura, salvo il potere dell’autorità competente di istituirne altrove in considerazione delle esigenze delle rispettive località”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1858 del 2013

Anche le piazze sono opere di urbanizzazione primaria

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

L’art. 16, c. 7 e 7 bis, del DPR 380 del 2001, confermando quanto previsto dall’art. 4 della l. 847/1964, definisce le opere di urbanizzazione primaria: “7. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi ai seguenti interventi: strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato.

7-bis. Tra gli interventi di urbanizzazione primaria di cui al comma 7 rientrano i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni”.

Chiarito ciò, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013, ritiene che: “rientrano tra le opere di urbanizzazione primaria le strade residenziali, gli spazi di sosta o di parcheggio e quelli di verde attrezzato.

Secondo il medesimo giudice le piazze che – come, per l’appunto, nel caso di specie - partecipano delle stesse funzioni, separatamente o cumulativamente, non possono che essere incluse nello stesso novero delle opere di urbanizzazione primaria: notazione, questa, che anche il Collegio condivide, rimarcando, altresì, che le convenzioni urbanistiche assolvono allo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 6 novembre 2009 n. 6947)”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il ricorso incidentale ex art. 42 c.p.a.

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013, si occupa dell’art. 42 c.p.a., secondo cui: “1. Le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale. Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni decorrente dalla ricevuta notificazione del ricorso principale. Per i soggetti intervenuti il termine decorre dall'effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale.

2. Il ricorso incidentale, notificato ai sensi dell'articolo 41 alle controparti personalmente o, se costituite, ai sensi dell'articolo 170 del codice di procedura civile, ha i contenuti di cui all'articolo 40 ed è depositato nei termini e secondo le modalità previste dall'articolo 45.

3. Le altre parti possono presentare memorie e produrre documenti nei termini e secondo le modalità previsti dall'articolo 46.

4. La cognizione del ricorso incidentale è attribuita al giudice competente per quello principale, salvo che la domanda introdotta con il ricorso incidentale sia devoluta alla competenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, ovvero alla competenza funzionale di un tribunale amministrativo regionale, ai sensi dell'articolo 14; in tal caso la competenza a conoscere dell'intero giudizio spetta al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, ovvero al tribunale amministrativo regionale avente competenza funzionale ai sensi dell'articolo 14.

5. Nelle controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi le domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in giudizio sono proposte nei termini e con le modalità di cui al presente articolo”.

 Definito il c.d. principio di concentrazione delle impugnazioni secondo cui: “tutti coloro che sono resi notificatari di un ricorso principale sono tenuti a proporre ogni eventuale propria impugnazione nell’ambito dello stesso processo e in forma incidentale, indipendentemente dalla natura dell’interesse da essi fatto valere e nel rispetto dei termini decadenziali al riguardo previsti (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2010 n. 808)”, il Massimo Consesso conferma la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. II, 25.01.2012 n. 33 - oggetto del presente gravame - , laddove asserisce che: “a prescindere da ogni altra considerazione, l’art. 42 afferma che le parti resistenti e i controinteressati “possono” proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale, ma non che siano obbligati a farlo: in altri termini, in un’interpretazione costituzionalmente orientata a garantire massimamente la tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive, nulla preclude che – salve diverse decadenze – i contenuti del ricorso incidentale siano introdotti con un autonomo ricorso principale, salva la riunione dei giudizi, come avvenuto in specie”, aggiungendo che: “Anche al di là della corretta notazione formale per cui l’art. 42, comma 1, prima e seconda parte, cod. proc. amm. dispone nel senso che “le parti resistenti e i controinteressati possono” (e, quindi, non “devono”) “proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale …nel termine di sessanta giorni decorrente dalla ricevuta notificazione del ricorso principale”.

dott. Matteo Acquasaliente

© Copyright - Italia ius | Diritto Amministrativo Italiano - mail: info@italiaius.it - Questo sito è gestito da Cosmo Giuridico Veneto s.a.s. di Marangon Ivonne, con sede in via Centro 80, fraz. Priabona 36030 Monte di Malo (VI) - P. IVA 03775960242 - PEC: cosmogiuridicoveneto@legalmail.it - la direzione scientifica è affidata all’avv. Dario Meneguzzo, con studio in Malo (VI), via Gorizia 18 - telefono: 0445 580558 - Provider: GoDaddy Operating Company, LLC