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Mancata corrispondenza del cronoprogramma all’offerta economica

31 Gen 2013
31 Gennaio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 28 gennaio 2013 n.95, si occupa della possibile discrasia tra il termine di ultimazione dei lavori contenuto nell’offerta economica (60 giorni) e quello previsto dal cronoprogramma allegato all’offerta medesima (90 giorni).

Premesso che il cronoprogramma attiene “direttamente all’offerta del concorrente la quale deve indicare alla stazione appaltante «in modo completo e dettagliato le caratteristiche e le modalità di esecuzione dei lavori oggetto di appalto» e che, pertanto, esso deve essere «congruente con il tempo di esecuzione offerto, con sequenza logica dei tempi e dei costi»” e che: “il cronoprogramma, come indicato dalla stessa legge di gara, costituirebbe infatti un documento essenziale dell’offerta, tanto che la sua omissione è presidiata dalla stessa legge di gara con la sanzione dell’esclusione, per cui dalla sua rilevata incongruenza deriverebbe un’indeterminatezza dell’offerta, tale da impedire alcuna aggiudicazione così come attribuzione di punteggio”, il T.A.R. Veneto non ritiene il suo contrasto con l’offerta economica una mera irregolarità formale sanabile nel corso della procedura concorsuale - in applicazione del principio comunitario di massima partecipazione e di prevalenza della sostanza sulla forma -, ma una “indeterminatezza dell’offerta” insanabile, comportante l’esclusione dalla gara ex art. 46, c. 1-bis D. Lgs. 163/2006, poiché: “la mancata corrispondenza del cronoprogramma all’offerta economica incide irrimediabilmente, rendendolo contraddittorio, su un elemento essenziale dell’offerta medesima (tempo di esecuzione dei lavori) che, proprio per tale natura, non è suscettibile di interventi manipolativi e di adattamento ex post, nel corso della procedura selettiva, volti alla ricerca della effettiva volontà contrattuale, risultando altrimenti violati la "par condicio" dei concorrenti, l'affidamento da essi posto nelle regole di gara per modulare l'offerta economica e le esigenze di trasparenza e certezza (con conseguente necessità di prevenire possibili controversie sull'effettiva volontà dell'offerente) delle gare pubbliche, a fronte delle quali risulta evidentemente recessivo il principio della conservazione delle offerte e della massima partecipazione alla gara (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 22 agosto 2012, n. 4592)”.

dott. Matteo Acquasaliente

 TAR Veneto 95 del 2013

La “vicinitas” vista da lontano

30 Gen 2013
30 Gennaio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la nota sentenza n. 959 del 05.07.2012, dichiarava che la mera vicinitas non legittima ex se l’impugnazione del permesso di costruire del vicino-confinante, essendo ulteriormente necessaria una lesione, anche solo potenziale, di un interesse meritevole di tutela.

Recentemente anche il Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza del 13.11.2012 n. 5715, ha ribadito ciò, sottolineando come la lesione deve essere seria fondata e non meramente pretestuosa o supposta: “La problematica relativa alla legittimazione dei vicini ad impugnare atti riguardanti il regime urbanistico- edilizio di aree confinanti è stata ed è tuttora oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale, sulla quale si è più volte soffermata significativamente anche la giurisprudenza di questa Sezione. Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti con l'area interessata ad un intervento edilizio in ragione della semplice " vicinitas ", trovandosi, il terzo in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall'edificazione, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, giacché tale situazione vale a differenziare una posizione di interesse qualificato rispetto al "quisque de populo" (Cons Stato Sez. VI 26 luglio 2001 n.4123; idem 15 giugno 2010 n.3744; Cons. Stato Sez. V 7 maggio 2008 n.2086; Cons. Stato Sez. IV 17 settembre 2012 n.4926; idem 30 novembre 2009 n.7491; 16 marzo 2010 n. 1535; 20 maggio 2004 n. 3263). Questo arresto giurisprudenziale è stato per il vero più volte integrato e temperato da statuizioni che mettono la vicinitas in più stretta correlazione con la legitimatio ad causam intesa come l'interesse ad agire affermandosi che la legittimazione attiva sussiste ogni qual volta in il progettato intervento urbanistico-edilizio pur concernente un'area non di appartenenza del ricorrente, incida negativamente sul bene di proprietà o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore. Così, si è detto, occorre che dall'approvazione e dall'esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua sfera giuridica (Cons. Stato Sez..IV 24 dicembre 2007 n.6619; 22 giugno 2006 n.3947; idem 10 giugno 2004 n.3755; 5 settembre 2003 n.4980; 9 novembre 2010 n. 8364). In tali sensi, questa Sezione pur non obliterando il principio della " vicinitas " tout court, ha avuto cura di sottolineare, ai fini del radicamento delle condizioni legittimanti l'azione, la necessità che per i vicini si verifichi uno specifico vulnus alla loro sfera giuridica sub specie della sussistenza di un detrimento economico- patrimoniale comunque derivante per il bene (in tal senso decisione n.8364/2010 già citata)”.

I Giudici di Palazzo Spada, d’altronde, avevano già enunciato in precedenza come: “Nelle controversie attinenti alla realizzazione di interventi che incidono sul territorio, se è vero che l'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata, è anche vero che, in concreto, devono ritenersi titolati all'impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, per effetto della realizzazione dell'intervento controverso; il pregiudizio che può conseguire ad un intervento di pianificazione può consistere nella possibile diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore qualità ambientale: una volta accertata la vicinitas, rappresentata dal collegamento territoriale, vanno valutate le implicazioni urbanistiche dell'intervento e le conseguenze prodotte sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorative e simili ragioni, sono in durevole rapporto con la zona interessata dall'intervento” (Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2012, n. 4926).

In definitiva il Consiglio di Stato specifica che, per riconoscere la lesione affermata dal T:A.R. Veneto e determinante la legittimazione ad agire del vicino, l’intervento urbanistico-edilizio deve causare o una diminuzione economico-patrimoniale all’immobile del ricorrente oppure una lesione di valori afferenti la tutela ambientale.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS 5715 del 2012

CdS 4926 del 2012

Prescrizione quinquennale anche per le sanzioni ambientali pecuniarie (ex art. 167, D.lgs. n. 42/2004)

30 Gen 2013
30 Gennaio 2013

 L’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), intitolato “Ordine di remissione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria”, al comma 5, dispone che: “Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 (ovvero A) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero  aumento di quelli legittimamente realizzati; B) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; C)  per  i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380) presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere  vincolante  della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta  giorni. Qualora venga accertata  la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento  di  una somma  equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di  rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica  presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater,  si  intende  presentata  anche  ai  sensi e per gli effetti di cui al presente comma.”.

 La norma in commento contempla, quindi, a carico dell’autore di un danno in materia di tutela dei beni paesaggistici due misure alternative: la condanna alla rimessione in pristino a proprie spese (comma 1) dello stato dei luoghi oppure, ma solo  nei limitati casi sopra indicati, il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione.

 In merito a quest’ultima, l’interpretazione sistematica di quanto disposto all’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004 porta a concludere che “la somma di denaro ivi prevista non costituisca una forma di risarcimento del danno, ma una sanzione amministrativa pecuniaria che prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale e per la cui irrogazione è sufficiente il semplice fatto formale dell’accertata inottemperanza all’obbligo, previsto dalla legge, di chiedere ed ottenere l’autorizzazione paesaggisitica prima di eseguire un’opera” (cfr. Corte di Cassazione, sez. unite civili – 10/8/1996, n. 7403; T.A.R. Sicilia Catania, sez. I –  8/3/2004, n. 542).

 Alla luce di quanto detto fin d’ora, sorge spontanea la domanda: le sanzioni ambientali pecuniarie relative ad opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica si prescrivono in 5 anni?

Questo è il quesito a cui ha dato risposta il T.A.R. Veneto con la sentenza breve n. 59, 21 gennaio 2013. Le parti in causa sostenevano da un lato la prescrizione quinquennale decorrente dalla cessazione dell’illecito commesso e venutasi a determinare per effetto della conseguita concessione in sanatoria (previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica); dall’altro lato l’impossibilità del conteggio dei 5 anni, dato il non definito ammontare della sanzione.

Il T.A.R. stabilisce che: “il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni, evocato dall'Amministrazione appellante, va rettamente inteso nel senso che l'intervenuta sanatoria dell'abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega alcuna influenza sulla permanenza di quest'ultima; ne consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell'art. 28 legge n. 689 del 1981. L'opposto avviso, oltre a comportare - come detto - la sostanziale imprescrittibilità della sanzione pecuniaria de qua, si porrebbe in contrasto con fondamentali principi di matrice penalistica (come noto richiamati dalla ridetta legge n. 689 del 1981 anche in materia di illeciti amministrativi), alla stregua dei quali la nozione di illecito a carattere permanente ovvero con effetti permanenti postula necessariamente, pena il configurarsi di una sorta di non ammissibile responsabilità oggettiva, che il responsabile dell'illecito conservi la possibilità di far cessare la permanenza dell'illecito stesso, ovvero di rimuoverne gli effetti”.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza Tar Veneto 59 del 2013

Conferenza dei servizi: il dissenso deve avere la forma di critica costruens (indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso)‏

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

Lo scrive il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 24.1.2013, n. 434: "...2.2. Ed invero, in relazione al primo profilo, osserva il Collegio come nell'ambito della conferenza di servizi convocata dalla Regione Sardegna in data 24 maggio 2011 l'Amministrazione comunale abbia espresso "il parere di conformità alla disciplina urbanistica comunale", limitandosi ad evidenziare che doveva "essere chiarita la titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto che in quello dove passeranno i cavidotti".

E', quindi, palese come il Comune di Isili non abbia espresso alcun diniego formale in sede di conferenza di servizi.

Infatti, ai sensi dell'art. 14 ter della L. n. 241/1990, per essere validamente espresso, il dissenso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso medesimo.

Ed in conformità al precetto normativo, anche la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte chiarito come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla conferenza di servizi deve rispondere ai principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera opposizione al progetto in esame, ma dovendo essere costruttivo e motivato (cfr. per tutte Sez. V, 23 maggio 2011, n. 3099).

Privo di fondamento, pertanto, si appalesa l'assunto del Comune appellante di non aver mai espresso il proprio assenso alla realizzazione dell'impianto per cui è causa, ma di essersi limitato ad esprimere un "generico punto di vista" relativamente al profilo urbanistico.

Infatti, il modulo procedimentale della conferenza di servizi ammette che l'ente regolarmente convocato possa esprimersi unicamente in uno dei seguenti modi:

a) consenso espresso (art. 14-ter, comma 6, della Legge n. 241/1990);

b) consenso tacito proveniente dall'ente regolarmente convocato il cui rappresentate non abbia espresso la volontà dell'amministrazione rappresentata in modo definitivo (art. 14-ter, comma 7, della Legge n. 241/1990);

c) dissenso espresso, ammissibile solo se espresso in conferenza di servizi, motivato e circostanziato (art. 14-quater, comma 7, della Legge n. 241/1990).

Pertanto, del tutto correttamente il primo giudice ha dichiarato inammissibile il motivo, rilevando che:

"..il Comune avrebbe dovuto correttamente e tempestivamente dedurre tale ragione di dissenso nella sede della conferenza di servizi svoltasi il 24 maggio 2011, convocata dalla Regione Sardegna per l'esame dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione unica presentata dalla controinteressata", mentre dal verbale risulta che lo stesso "sul punto, si è limitato a chiedere che fosse «chiarita la titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto, che in quello dove passeranno i cavidotti, senza ulteriori specificazioni o rivendicazioni in ordine alla reale proprietà degli immobili.

Peraltro, la generica osservazione del Comune, sopra riferita, è stata comunque oggetto di esame nella conferenza di servizi e si è tradotta anche in una specifica condizione (l'acquisizione della documentazione in merito al contratto definitivo di disponibilità delle aree di impianto) cui subordinare l'esito positivo della determinazione conclusiva della conferenza.

Condizione che si è, in seguito, realizzata (come risulta dalla documentazione versata in atti".

 

Quando possono dirsi ultimati gli edifici per i quali si chiede il condono per il cambio d’uso

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

La questione viene esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 21 del 2013.

Scrive il TAR: "Stabilisce infatti l’art. 31, comma 2, della legge n. 47/85 - richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/94 e poi dalla legge n. 326/2003 - che, ai fini dell'applicazione delle regole sul condono, "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente".
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di ultimazione delle opere condonabili, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, la norma citata introduce - in alternativa al criterio dell'esecuzione al rustico e completamento della copertura dell'edificio - il parametro del completamento funzionale dell'opera: per i mutamenti di destinazione d'uso di edifici residenziali è condonabile la struttura in cui le opere, pur se non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali con le caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere alla funzione cui sono destinate. Il criterio del "completamento funzionale " anticipa, quindi, la data di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al condono, per cui un intervento non ancora completato può, tuttavia, essere giudicato sanabile dal punto di vista funzionale (cfr. T.A.R. Liguria, sez. I, 6.5.2010 n. 2295).
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla legge, anche se le attività edilizie siano ancora in corso, l'immobile deve essere già fornito degli elementi indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito - in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione (cfr. T.A.R. Abruzzo Pescara, 22.10.2007 n. 837) - pur se non siano stati ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare ed accessorio (cfr. T.A.R. Veneto, sez. II, 28.5.2008 n. 1631).
Costituisce, infine, principio consolidato della giurisprudenza quello secondo il quale l’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo (o anche della attività edilizia abusiva da sanare) spetti a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.1.2010, n. 45; Consiglio di Stato, V, 9.11.2009, n.6984).
E, infatti, la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell’intero suo territorio a quella data prevista dalla legge, mentre il privato, che propone l’istanza di sanatoria, è normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l’ultimazione dell’abuso entro la data di riferimento, vale a dire nel caso di specie il 31.3.2003, spettando a costui l’onere di fornire quantomeno un principio di prova su tale ultimazione e in caso contrario
restando integro il potere di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta.
Orbene, nel caso in esame dette condizioni non sono state rilevate dall’amministrazione, la quale, basandosi sulla documentazione acquisita, anche con riferimento a dati oggettivi che, pur riferendosi ad altri procedimenti attestavano in ogni caso lo stato di fatto dell’immobile, non ha ritenuto che il mutamento d’uso funzionale risultasse completato entro la data del 31.3.2003.
Al riguardo va in primo luogo osservato come proprio l’utilizzo precedentemente operato dell’unità in questione (dormitorio per le maestranze dell’attività artigianale esercitata al piano terra dell’immobile) comportasse uno specifico onere da parte istante per dimostrare che l’utilizzo del bene è stato modificato, risultando destinato ad abitazione.
Come correttamente rilevato dalla difesa resistente, proprio il confine sottile esistente fra le due destinazioni in rapporto allo stato di fatto, imponeva l’onere a carico del richiedente di comprovare in modo più qualificato l’effettivo mutamento operato.
Ed a tale proposito è di tutta evidenza che nessuna rilevanza può essere attribuita alle mere intenzioni del richiedente, che, pur mantenendo lo stato di fatto, avrebbe inteso assegnare al bene utilizzato una diversa destinazione d’uso: come già osservato in fattispecie analoghe, il condono edilizio non legittima un’intenzione, ma sana un effettivo e dimostrato uso del bene diverso da quello autorizzato".

sentenza tar Veneto 21 del 2013

Rendimento energetico nell’edilizia: sostituzione dell’Allegato A del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192

29 Gen 2013
29 Gennaio 2013

Sulla GU n. 21 del 25 gennaio 2013 è stato pubblicato il Decreto 22 novembre 2012 del Ministero dello Sviluppo Economico, recante "Modifica dell'Allegato A del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, recante attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia. (13A00571)".

Decreto 22.11.2012 Ministero Sviluppo Economicol

La destinazione a “uso comune”, se le opere possono essere realizzate dal privato, è un vincolo conformativo e non espropriativo

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

Lo ribadisce la sentenza del TAR Veneto n. 13 del 2013.

Scrive il TAR: "tutto il compendio di proprietà è stato inserito in un Progetto Unitario di comparto, che consente di trasferire tutta la capacità di sfruttamento edificatorio (con riguardo alla destinazione D) sul mappale 749.
Orbene, come sottolineato dalla difesa comunale, ciò consente di utilizzare al massimo il rapporto fra superficie disponibile e volumetria realizzabile, con un indice elevato.
Peraltro, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, anche alla luce dei contenuti senza dubbio innovativi presenti nella legislazione regionale in materia urbanistica e specificatamente con riferimento agli istituti dei crediti edilizi, della perequazione e delle compensazioni, è possibile assicurare, senza il ricorso alla procedure espropriative, indubbi vantaggi che compensano il privato delle limitazioni derivanti alla proprietà, con contemporanea soddisfazione delle esigenze di interesse pubblico.
Ed è questo ciò che è avvenuto nel caso di specie, dove, a fronte della concentrazione sul mappale 749 della capacità edificatoria di tutto l’ambito di proprietà, è stata prevista la destinazione ad attrezzature di interesse comune per l’altro mappale n. 223.
In tale ottica perequativa, le nuove previsioni non appaiono così penalizzanti come prospettate dalla difesa istante, anche in ragione dell’ulteriore considerazione per cui le possibilità di utilizzazione anche della parte di proprietà destinata ad uso comune non sono state riservate esclusivamente alla mano pubblica.
Come, invero, riconosce espressamente la stessa difesa istante nella sua ultima memoria, le previsioni di piano non escludono che la realizzazione delle opere necessarie per gli spazi di uso comune siano affidabili anche alla proprietà privata, che quindi può trarre vantaggio in ogni caso dall’impiego ad uso pubblico della porzione di proprietà.
Il che consente di escludere, secondo il costante insegnamento dettato a partire dalla sentenza della Corte .Costituzionale n. 179/99 e dell’A.P., C.d.S, n. 7/2008, che nella fattispecie non sia configurabile un vincolo di contenuto espropriativo, trattandosi in realtà, proprio per le ragioni testè ricordate, di un vincolo conformativo della proprietà".

sentenza tar Veneto 13 del 2013

L’area di cava comprende non solo il “buco” ma anche le zone circostanti funzionali all’attività

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 18 del 2013, già allegata al post che precede, ha ritenuto illegittima una autorizzazione ad ampliare una attività dei cava.

Il Comune ricorrente aveva sostenuto la violazione dell’art. 13 della L.R. n. 44/1982, in quanto il calcolo effettuato per accertare il rispetto del limite di escavazione dettato dalla normativa regionale non risultava corretto, essendo basato su un erroneo presupposto. Invero, il computo operato dalla Regione individuava quale superficie del territorio comunale destinata all’attività di cava la sola area interessata direttamente dall’escavazione, dimenticando che l’attività di cava coinvolge non solo lo spazio strettamente destinato allo scavo, ma anche l’area circostante, utilizzata per l’accumulo dei materiali, agli spazi di manovra dei mezzi, nonché dalle operazioni di carico e scarico dei materiali, essendo tutte attività funzionalmente riconducibili all’attività di cava.

Scrive il TAR: "Un primo e sicuramente assorbente profilo di illegittimità del provvedimento impugnato riguarda il criterio in base al quale è stata definita l’estensione dell’area di cava, che secondo il Comune non andrebbe limitata alla sola superficie di scavo (il “buco” ricavato dalle escavazioni, come più semplicisticamente definito), ma dovrebbe estendersi anche alle altre zone strettamente e funzionalmente collegate con l’area in concreto escavata.
Parte ricorrente invoca a sostegno della propria tesi interpretativa la sentenza n. 5186/2008, con la quale il Consiglio di Stato, Sesta Sezione, nel pronunciarsi in ordine al giudizio instaurato dallo stesso Comune nei confronti delle medesime parti oggi intimate avverso la delibera regionale che aveva autorizzato l’apertura e la coltivazione della Cava Betlemme, ha affermato che per area di cava deve intendersi non solo l’area di escavazione, ma l’intera area destinata ad attività di cava, comprensiva, oltre allo scavo, anche di quella di accumulo dei materiali, di manovra e di carico e scarico, in quanto comunque funzionale all’attività di cava.
A tale tesi, la difesa controinteressata oppone una successiva pronuncia della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, n. 1785/2011, ancora una volta coinvolgente le parti qui costituite, nella quale è stato affermato che, al fine di stabilire quale sia la superficie della cava, agli effetti del calcolo del 3%, bisogna fare riferimento a quella parte in cui vengono effettuate le operazioni che consistono nella estrazione e sistemazione del materiale estratto, non potendosi computare l’ambito circonvicino, ove può essere presente, anche occasionalmente, il passaggio dei mezzi che accedono all’area di cava.
Tale diversa interpretazione, condivisa dalla Regione, consentirebbe quindi di ridurre l’ambito da considerare al fine del rispetto del limite di sfruttamento del territorio comunale, il quale nella fattispecie risulterebbe osservato.
Osserva il Collegio che, in realtà, da una lettura delle due pronunce non è rilevabile un vero e proprio diverso orientamento, ma piuttosto la sostanziale espressione del medesimo principio.
Va dato atto che la prima sentenza è stata espressa in occasione della valutazione della legittimità delle delibera che aveva autorizzato l’apertura della cava Betlemme con riguardo alla VIA : tuttavia, non può essere ignorato il fatto che la definizione ivi contenuta di “area interessata dalla cava”, sebbene poi utilizzata al fine di specificare la funzione della VIA ai fini della valutazione dell’impatto ambientale derivante dall’apertura della nuova cava, non contrasti con quello successivamente espresso nella seconda sentenza.
Invero, se la più ampia definizione è stata resa dal primo giudice al fine di assicurare che il giudizio di VIA considerasse complessivamente l’impatto sul territorio derivante non solo dall’escavazione, ma anche dalle attività funzionali a quella di cava, esaminando attentamente la seconda pronuncia, non si può concludere nel senso che debba essere considerata solo l’area di escavazione.
Anche il secondo giudice ha infatti rilevato come l’estensione della cava, ai fini del rispetto del limite del 3%, se non deve estendersi alle zone in cui non vi è un diretto coinvolgimento in rapporto all’attività estrattiva, cionondimeno, deve essere comunque considerato l’ambito interessato dalle attività di estrazione e sistemazione del materiale estratto.
In questo modo è inevitabile concludere nel senso che il computo dell’area di cava deve tenere conto dell’area effettivamente scavata, ma anche delle zone contermini parimenti utilizzate ai fini dello svolgimento dell’attività di scavo, ad essa funzionali, quali sono in primo luogo quelle dedicate alla sistemazione e movimentazione del materiale estratto.
Non può, invero, logicamente negarsi che anche tale, più estesa superficie, oltre al mero “buco” di scavo, debba essere presa in considerazione, essendo area comunque funzionale in modo diretto ed inequivocabile con l’attività di cava e quindi assibilabile all’area di cava.
Se può anche rivelarsi opinabile comprendere le strade percorse dai mezzi impiegati per il trasporto del materiale, non può tuttavia escludersi che altre aree destinate alle lavorazioni o agli accumuli di materiale debbano essere computate.
Il che comporta, in accoglimento del primo motivo di ricorso, che il computo da effettuare al fine di accertare il rispetto del limite percentuale di sfruttamento del territorio del Comune di Sommacampagna debba essere rivisto, tenendo conto delle indicazioni sopra evidenziate, onde assicurare il rispetto del territorio comunale ed evitare un’eccessiva compromissione dello stesso per effetto dell’ampliamento dell’attività di cava ivi esistenti".

L’intervento ad adiuvandum deve essere proposto e notificato (anche al ricorrente) solo dopo il deposito in Segreteria del ricorso principale

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

Il TAR Veneto, con la sentenza n. 18 del 2013, dichiara inammissibile un intervento ad adiuvandum di Legambiente in un caso nel quale un Comune aveva impugnato una autorizzazione regionale per ampliare una cava.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per due motivi: perchè è stato notificato prima che il ricorrente principale depositasasse il suo ricorso presso la Segreteria del TAR e perchè non è stato notificato anche al ricorrente principale.

Scrive il TAR: "laddove si volesse intendere, come appare desumibile dal tenore dell’atto, che la posizione fatta valere dall’associazione sia quella di interveniente ad adiuvandum, anche in questa seconda ipotesi l’intervento risulta inammissibile o irricevibile in quanto notificato in epoca pressoché contestuale all’avvenuta notifica del ricorso principale da parte del Comune di Sommacampagna.
Va invero ricordato che, in base ai principi generali, la semplice notifica del ricorso non è in grado di instaurare il rapporto processuale, che non può dirsi formato fino a quando il ricorrente non abbia portato la lite a conoscenza del giudice, e cioè col deposito del ricorso presso la segreteria del Tribunale; pertanto, prima di tale momento, l'atto d'intervento ad adiuvandum è inammissibile, essendo la sua proposizione subordinata alla previa notificazione a tutte le parti del rapporto processuale, ai sensi dell'art. 38 R.D. 17 agosto 1907 n. 642, e ciò non può avvenire quando non si è determinato il presupposto per l'instaurazione del giudizio ed ancora non vi è neppure un rapporto processuale.
Poiché quindi, in base alle disposizioni del codice del processo amministrativo, la costituzione del rapporto processuale può ritenersi avvenuta all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito presso la Segreteria del Tribunale amministrativo regionale del ricorso con la prova delle effettuate notifiche (a differenza che nel processo civile, ove il giudizio inizia con la citazione) e considerato che, in base all’art. 50 c.p.a., l’intervento va proposto con atto diretto al giudice adito, il che presuppone già costituito il rapporto processuale da parte del ricorrente principale, ne consegue che nel caso di specie, ove l’intervento risulta notificato in epoca pressoché contestuale alla notifica del ricorso principale, non ancora depositato a cura del ricorrente Comune di Sommacampagna, la posizione processuale dell’associazione Legambiente quale interveniente ad adiuvandum deve considerarsi inammissibile.
In ogni caso, anche voler ritenere superabile la suddetta eccezione in quanto sanabile, nonostante la “precocità”, attesa la successiva instaurazione del rapporto processuale da parte del ricorrente principale per effetto del deposito del ricorso, l’intervento risulta inammissibile anche per mancata notifica al ricorrente principale: l'atto di intervento ad adiuvandum deve infatti essere notificato a pena di inammissibilità, anche ai ricorrenti, in quanto il collegamento processuale fra interventore e ricorrente deve essere formalmente stabilito nei modi previsti dalla legge".

sentenza tar Veneto 18 del 2013

Il Comune può subordinare il rilascio del certificato di agibilità alla presentazione di atto di vincolo di destinazione d’uso a prima casa

25 Gen 2013
25 Gennaio 2013

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 324 del 21 gennaio 2013, ha stabilito che la prescrizione secondo cui, il certificato di agibilità di un immobile sarebbe stato rilasciato per ogni singola unità abitativa dopo che l’Amministrazione comunale ne avesse conosciuto l’acquirente e quest’ultimo avesse sottoscritto l’atto di vincolo di prima casa non è da ritenersi un atto illegittimo per eccesso di potere o per violazione di legge.

In questa articolata sentenza, il Consiglio di Stato ricorda come la convenzione di lottizzazione sia da in inquadrare negli accordi sostitutivi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 (Cass. civ. Sez. Unite , 1 luglio 2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29 febbraio 2008, n. 781; Sez. IV, 2 agosto 2011, n. 4576). “Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva”.

A chi sostiene la nullità della clausola contenuta nello schema di atto d’obbligo che accede alla convenzione di lottizzazione e subordina il rilascio del certificato di agibilità dell’immobile alla presentazione dell’atto di vincolo di prima casa, il Consiglio risponde che “la clausola convenzionale ha solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi segmenti procedimentali, postergando la valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione degli immobili è stata assentita, e non già di inserire nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore. Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse sono state edificate proprio al fine di essere adibite a prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi”.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza CDS 324 del 2013

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