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Opere difformi da progetti degli anni ’60 e inutili tentativi di sanarle anche se all’epoca erano modifiche irrilevanti

03 Set 2013
3 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1077 del 2013 esamina un caso in cui un immobile risulta parzialmente difforme dai progetti risalenti agli anni '60 e ribadisce che le opere difformi sono sanabili solo se sussista il requisito della doppia conformità (art. 36 DPR 380). Sulla base di tale principio risulta non decisivo che all'epoca di realizzazione delle opere le modifiche rispetto al progetto fossero  irrilevanti (per esempio, rispetto alla distanza dai confini, che non  erano allora previste). Inoltre non si può attribuire valore di sanatoria implicita al successivo rilascio nel corso del tempo di altri titoli edilizi nei quali fosse rappresentato l'immobile difforme, se il titolo aveva per oggetto opere diverse da quelle difformi (per esempio la recinzione).

Dal punto di vista della stretta applicazione della legge sarà sicuramente così, ma ciò non toglie che ci sia in questo qualcosa di profondamente ingiusto, tenendo conto del fatto che negli anni '60 erano gli stessi comuni (per voce del sindaco o dell'assessore) che spesso "autorizzavano" verbalmente le modifiche rispetto al progetto approvato, soprattutto quando erano considerate irrilevanti (per esempio rispetto alla localizzazione), dicendo che non serviva presentare un nuovo progetto o una variante e che il successivo rilascio dell'abitabilità avrebbe coperto la modifica. Forse bisognerebbe chiedersi se non si debba invocare anche in questa materia "il principio di inesigibilità" di penalistica memoria.

Scrive il TAR: "1. Con un unico motivo parte ricorrente sostiene che le difformità rispetto al progetto originario, contenute nel provvedimento di diniego, risulterebbero legittimate dai successivi permessi edilizi che hanno riguardato l’immobile di cui si tratta. Si evidenzia, ancora, che le disposizioni relative alle distanze sui confini, oggi contenute nell’art. 29 delle NTA non risultavano vigenti al momento in cui l’immobile veniva assentito dai permessi di costruire n. 213/1961 e 592/1966. 2. Detta ricostruzione non può essere condivisa. In primo luogo va rilevato come le argomentazioni di parte ricorrente, confermano, seppur indirettamente l’esistenza di una difformità in materia di distanze rispetto al progetto in origine assentito, difformità che evidentemente avevano determinato la stessa ricorrente a presentare l’istanza di sanatoria ora sottoposta a questo Collegio.
2.1 Va, inoltre, premesso che l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del Dpr 380/2001 richiede, come è noto, che sia soddisfatto il requisito della c.d. doppia conformità che, a sua volta, presuppone che l’opera sia conforme alla disciplina vigente in due differenti momenti storici: quello in cui l’opera era stata realizzata e, ancora, quello relativo al momento in cui viene presentata la domanda di sanatoria.
2.2 L’intento del legislatore è stato quello di circoscrivere gli effetti “sananti”, al fine di regolarizzare quelle opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma che risultano conformi, nella sostanza, alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono (in questo senso T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 03-12-2010, n. 1931).
3. Tutto ciò premesso va considerato, e con riferimento al caso di specie, che le argomentazioni di parte ricorrente dimostrerebbero, tutt’al più, una conformità dell’opera nel solo momento l’opera veniva realizzata.
3.1 A detta conclusione è possibile giungere considerando quegli elementi riconducibili, in particolare, all’asserita inesistenza della disciplina delle distanze al momento in cui l’immobile veniva costruito e, ancora, alla rappresentazione del lotto posta in essere dal Comune di San Pietro in Cariano e ritenuta erronea dalla parte ricorrente. 4. E’ però, altrettanto, evidente che, nel caso di specie, non sussiste la conformità dell’opera al momento in cui la domanda di costruire veniva presentata e, ciò, come correttamente ha ritenuto sia, l’Amministrazione comunale nel provvedimento impugnato sia, ancora, il Consulente Tecnico d’ufficio, nominato dal Giudice Ordinario nell’ambito della controversia civile attivata dagli stessi ricorrenti e sopra ricordata.
4.1 Al momento in cui detta domanda veniva presentata risultava, infatti, vigente sia l’art. 29 delle NTA del Piano Regolatore sia il DM 1444/68 che, ponendo l’obbligo del rispetto di precise distanze dai confini, avevano l’effetto di determinare il Comune nel rigetto dell’istanza in precedenza presentata.
4.2 Si consideri che una volta verificate le difformità dell’opera rispetto al progetto originario l’Amministrazione comunale, avuto presente la
verifica circa la conformità alla normativa urbanistica ed edilizia vigente, risulta titolata all’esperimento di un’attività oggettiva e vincolata in relazione alla quale non sussiste alcun margine di discrezionalità.
4.3 Un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, 02-09-2010, n. 1887 e T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 12-10-2012, n. 751) ha sancito, infatti, che “in tema di violazioni inerenti la normativa edilizia, il permesso in sanatoria è un provvedimento tipico disciplinato, in maniera specifica, dall'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001. Siffatta rigida tipicità risulta ostativa rispetto ad una possibile estensione di tale potere al di fuori dei presupposti, inerenti alla necessità della doppia conformità (alla normativa vigente al momento della realizzazione ed a quella di presentazione dell'istanza), come dettati dalla citata norma di riferimento. Non sono ammessi, in altri termini, spazi residui che consentano di affermare la sopravvivenza della cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", ….”.
4.4 E’ allora del tutto evidente che nell'accertamento di conformità regolato dall'art. 36 del d.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) il Comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, con la conseguenza che la verifica dei presupposti sopra precisati assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali.
4.5 Si consideri, ancora, come non sia possibile nemmeno condividere l’argomentazione di parte ricorrente nella parte in cui ritiene che l’immobile, per quanto concerne le distanze, dovesse considerarsi già autorizzato dai successivi titoli edilizi, poi emanati dall’Amministrazione comunale.
4.6 Sul punto va rilevato che le successive licenze hanno avuto ad oggetto la realizzazione di opere e lavori del tutto differenti che, in quanto tali, erano riferiti alla realizzazione di un ampliamento e di una recinzione (la licenze del 1971 e del 1985).
4.7 E’ parimenti evidente come non sia condivisibile l’argomentazione in base alla quale un’autorizzazione a realizzare una recinzione (di cui alla licenza del 1971) abbia un effetto sanante per quanto riguarda le difformità inerenti alla sagoma dell’edificio o, ancora, come detto effetto possa essere correlato alla licenza del 1966 in quanto diretta a permettere l’esecuzione di un ampliamento.
5. Ne consegue come detti provvedimenti, pur avendo a riferimento una situazione differente rispetto a quella originaria, non sono suscettibili di costituire una sanatoria, nemmeno implicita di precedenti difformità a, ciò, ostando l’obbligo del rispetto delle prescrizioni e del procedimento delineato dall’art. 36 del Dpr 380/2001.
6. Ne consegue che una volta accertata la mancanza dei presupposti sopra indicati il Comune non poteva non emanare il provvedimento di rigetto ora impugnato e, ciò, in adesione ai principi sopra ricordati".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1077 del 2013

Il cambio d’uso senza senza opere non è libero, ma è “variazione essenziale” qualora implichi una variazione degli standard previsti dal DM 2 aprile 1968, n. 1444

03 Set 2013
3 Settembre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1078 del 2013.

Scrive il TAR: "5. E’ parimenti infondato il quinto, il sesto e l’ottavo motivo mediante i quali si rileva il venire in essere di un eccesso di potere in considerazione del fatto che sulla base della disciplina tutt’ora vigente il mutamento di uso senza opere dovrebbe essere ritenuto “libero” e, ancora, che l’attività di cui si tratta, anche laddove venisse qualificata come commerciale, non avrebbe comportato un mutamento di destinazione d’uso rilevante sul piano urbanistico.
5.1 In relazione a quanto dedotto va ricordato come l’Amministrazione comunale abbia contestato un mutamento di destinazione d’uso, nell’ambito del quale sono state eseguite opere edilizie non autorizzate, consistenti nella realizzazione di un magazzino e di servizi igienici e, ciò, pur considerando come l’ordinanza faccia riferimento alla possibilità che dette opere possano essere sanate.
5.2 Ma anche a prescindere della rilevanza delle opere sopra citate al fine di qualificare la natura del mutamento di destinazione d’uso, sul punto risulta dirimente constatare che l’utilizzo dell’area a fini esclusivamente commerciali determinerebbe, di per sé, il venire in essere di un carico urbanistico e, ciò, considerando la necessità di realizzare quei parcheggi previsti dall’applicazione degli artt. 32 e 52 delle NTO del Piano degli Interventi. Conseguenza diretta dell’applicazione di dette disposizioni è quella di correlare il mutamento di destinazione d’uso di cui si tratta all’acquisizione di un titolo edilizio, circostanza che a sua volta comporta, nell’ipotesi di provvedimenti sanzionatori, l’inevitabile applicazione degli art. 31 e 32 del Dpr 380/2001.
5.4 Sul punto va, pertanto, richiamato quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 08-03-2013, n. 580) nella parte in cui ha precisato che tutte le volte che il cambio di categoria edilizia determina il venire in essere di un carico urbanistico, unitamente alla dotazione di standards, specie di parcheggi, detta circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l'effettuazione di opere edilizie. Detto costante orientamento giurisprudenziale (si veda anche T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, 27-07-2012, n. 2146) ha sancito, tra l’altro, che “In materia edilizia, l'art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), qualifica come "variazione essenziale" - sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 (T.U. Edilizia) con l'obbligo di demolizione e riduzione in pristino - il mutamento di destinazione d'uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 2 aprile 1968, n. 1444”. Le censure sopra citate sono, pertanto, infondate.
6. Va rigettata anche l’argomentazione, contenuta nel settimo motivo, mediante la quale si sostiene l’illegittimità degli art. 32 e 52 delle NTO nella parte in cui dette disposizioni assoggetterebbero alla disciplina del permesso di costruire i mutamenti di destinazione d’uso di cui si tratta.
6.1 In relazione a quanto dedotto va rilevato che in mancanza di una disciplina regionale, e nell’ipotesi di una pluralità di usi ammessi su una determinata zona, sia inevitabile applicare il DM 1444 del 1968 nella parte in cui prevede determinati standards per le singole zone, standards che hanno costituito, per il Comune, il riferimento per adottare quelle norme tecniche operative ora impugnate nel presente ricorso.
6.2 Ne consegue che lungi dal sussistere quella violazione della riserva di legge, correlata all’applicazione dell’art. 10 del Dpr 380/2001 nei confronti delle Regioni, si è di fronte alla mera applicazione di una disciplina che consente al Comune di differenziare determinati mutamenti di destinazione d’uso che pur essendo senza opere, incidono comunque sul territorio".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1078 del 2013

Risarcimento danni da lesione di interesse pretensivo: danno emergente, lucro cessante e perdita di chances?

02 Set 2013
2 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto  n. 1073 del 2013, già allegata al post che precede, dopo avere ritenuto risarcibile il danno da lesione di interesse legittimo pretensivo (illegittimo diniego di titolo edilizio e sopravvenita normativa del PAI che ne impedisce il rilascio), si occupa della quantificazione del danno risarcibile.

Il TAR approfondisce tre questioni: danno emergente, lucro cessante e perdita di chances.

Scrive il TAR: "5. Per quanto attiene la quantificazione del “danno emergente” va rilevato come la perizia prodotta dal ricorrente contenga, allegate, le
fatture pagate dello stesso attore nei confronti del professionista che ha redatto la progettazione dell’edificio, fatture che contrariamente a quanto sostenuto nel testo del ricorso ammontano a Euro 22.520,83, danno quest’ultimo che risulta pertanto compiutamente provato e, ciò,unitamente al nesso di causalità con i provvedimenti di diniego sopra citati.
6. Per quanto attiene il “mancato guadagno” va, inoltre, precisato come parte ricorrente richieda il ristoro delle somme sostenute per la predisposizione del progetto della cantina e delle pratiche connesse e, nel contempo, il risarcimento corrispondente ai minori redditi annuali, conseguenti all’impossibilità di edificare la cantina, somma pari a Euro 660.000,00 - per i primi dieci anni successivi al momento in cui il permesso di costruire avrebbe dovuto essere rilasciato -, nonché dell’ulteriore importo relativo agli anni successivi al decimo in ragione di Euro 126.000,00 euro all’anno.    6.1 Sempre parte ricorrente sostiene, nel petitum del ricorso, il diritto ad ottenere il ristoro del danno conseguente “alla minore redditività” conseguente alla mancata edificazione della cantina. Nella successiva perizia è stato depositato un contratto di affitto, stipulato nell’eventualità in cui detta cantina fosse stata realizzata, dal quale si deduce che detto danno di “minore redditività” ammonterebbe a Euro 180.000,00. Si sostiene in ultimo, sempre nella perizia sopra citata, il venire in essere di un danno consequenziale al deprezzamento del terreno per un importo pari a Euro 500.000,00.
6.2 In relazione a quanto sopra precisato va in primo luogo rilevato come i valori sopra precisati siano stati poi modificati dalla  presentazione di una successiva perizia di parte mediante la quale si è quantificata una somma considerevolmente differente e pari a Euro 1.228.609,02.
6.3 Va, inoltre, rilevato come il danno dalla “mancata vendita dei prodotti del vigneto” integri la fattispecie del danno da chance, avendo a riferimento quei profitti che il ricorrente avrebbe conseguito una volta avviata l'attività imprenditoriale cui l'edificazione della cantina era strumentale, danno in relazione al quale è stata sollecitata una liquidazione equitativa.
6.4 Al riguardo, vanno richiamati i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato (contenuti nella decisione sopra citata) in relazione ai quali l'esame della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo,  interviene:                                                             

- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’ articolazione di argomentazioni logiche che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non", e cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, nr. 2974).
6.5 Con riferimento al danno sopra citato, nulla di tutto ciò è presente sia, nel ricorso che nella successiva perizia, nell’ambito della quale parte ricorrente si limita ad elencare i presunti profitti relativi alla vendita dei vini prodotti dai vigneti.
6.6 Sul punto non risulta provato il nesso di causalità tra la mancata realizzazione della cantina e il danno da mancato guadagno sopra specificato, risultando del tutto eventuale la produzione e la vendita dei vini rispetto alla mancata edificazione di un manufatto. Alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., come nel caso di specie chiede la parte ricorrente e, ciò, in considerazione del fatto che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata, o comunque incontestata, l'esistenza di un danno risa(in questo senso Cons. Stato, sez. IV, 7 gennaio 2013, nr. 23).                                                                                                                                                                                                               6.7 Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa, pur nell'accertata spettanza della concessione edilizia a suo tempo richiesta dall'appellante al Comune, è evidente che non è stata fornita alcuna prova, delle probabilità di esito positivo dell’attività imprenditoriale che il ricorrente avrebbe voluto avviare.
E’, inoltre, del tutto evidente che a tale carenza di prova non sia possibile sopperire attraverso i processi deduttivi sopra richiamati, in considerazione dell'incertezza e dell'aleatorietà delle variabili che notoriamente possono influire sull'andamento di una nuova impresa che entra nel mercato.
7. Ad una valutazione equitativa è, al contrario, possibile accedere per quanto attiene la voce relativa al danno da “mancata redditività” e al danno da deprezzamento del terreno. In relazione a dette ultime tipologie di danno parte ricorrente esibisce un contratto di affitto sottoscritto nel 2001, con il quale la società Agricola Maine si era impegnata a cedere in locazione la cantina nei confronti della società che ha in gestione il vigneto di cui la ricorrente risulta proprietaria.
8. E’ possibile prescindere da detta quantificazione considerando come l’orientamento prevalente (Cons. Stato Sez. IV Sent., 24-12-2008, n. 6538) sancisce … “il danno subito in seguito ad illegittimo diniego di concessione edilizia può essere determinato in via equitativa sulla scorta della differenza del valore che l'area di proprietà degli appellanti aveva al momento del progetto di diniego ed al momento della delibera di approvazione del nuovo piano regolatore generale. L'ammontare del risarcimento così stabilito dovrà essere aumentato della rivalutazione monetaria degli interessi legali da calcolarsi fino alla data di notifica della domanda giudiziale”.
9. Va rilevato come parte ricorrente abbia quantificato il danno da deprezzamento del terreno, per un importo pari alla somma pari a Euro 500.000,00, risultato delle differenza tra il valore dell’area inedificabile e il valore dell’area con il fabbricato di cui si tratta.
10. Detto computo non può essere automaticamente recepito da questo Collegio e va pertanto considerato un riferimento di massima del danno subito e, ciò, considerando come non sia possibile desumere quali siano i valori di partenza e in relazione a quali presupposti di riferimento è stata effettuata detta stima.
10.1 La stessa stima non solo non risulta provata, ma a differenza della Giurisprudenza sopra citata assume a riferimento il valore che l’area avrebbe avuto qualora fosse stato realizzato il fabbricato richiesto e , quindi, un parametro parzialmente differente da quello individuato dalla pronuncia del Consiglio di Stato sopra citata. Ne consegue che in ragione delle circostanze sopra ricordate è possibile disporre una quantificazione equitativa, liquidando la una percentuale pari al 5% del valore sopra citato.
11. In considerazione di ciò la somma di Euro 500.000,00 (deprezzamento del terreno) potrà essere ridotta ad un ammontare complessivo pari a Euro 25.000,00 (venticinquemila//00) oltre interessi legali e rivalutazioni dalla data di notifica della domanda giudiziale e sino al giorno di deposito della presente sentenza".

Dario Meneguzzo

Se il Comune ritarda illegittimamente il rilascio di un titolo edilizio e sopravviene una normativa (PAI) che ne impedisce il rilascio, bisogna risarcire il danno

02 Set 2013
2 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1073 si occupa di una questione tecnica nota come risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo pretensivo.

Il caso esaminato è quello del diniego al rilascio di un titolo edilizio, diniego illegittimamente emesso dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina (il PAI) dalla quale scaturisca l'impossibilità di realizzare detto intervento edilizio.

Il TAR ritiene che il danno debba essere risarcito, ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.

Scrive il TAR: "1. Il ricorso può essere parzialmente accolto così come di seguito specificato. L’esame della documentazione in atti, malgrado la mancata costituzione dell’Amministrazione comunale, consente di individuare come, nel caso di specie, siano presenti tutti i presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c. per il riconoscimento del danno extracontrattuale.
2. Sussiste il presupposto del provvedimento illegittimo e, ciò, considerando come l’Amministrazione abbia provveduto a negare l’emanazione di un provvedimento vincolato sia, con nota del 08/01/2004 sia, ancora, con successivo provvedimento del 29/03/2009, provvedimento quest’ultimo che era intervenuto dopo la prima sentenza di questo Tribunale che aveva annullato il precedente diniego.
2.1 Nelle more del successivo giudizio di appello, avverso detto secondo diniego di permesso di costruire, veniva pubblicato il Piano per l’Assetto idrogeologico dei bacini del Fiume Isonzo, circostanza quest’ultima che determinava il Comune di Vicenza ad applicare le misure di salvaguardia e a rigettare una successiva e ulteriore istanza presentata dalle parti ricorrenti.
2.2 Nel corso di causa si è, altresì, rilevato come le misure del PAI, nella parte in cui impediscono l’edificabilità del manufatto, siano tutt’ora vigenti e, ciò, in considerazione dell’intervenuta adozione di due successive varianti (nel 2007 e nel 2012).

3. In considerazione di quanto sopra risulta evidente come sussista, altresì, il presupposto del comportamento colposo dell’Amministrazione che ha reiterato le proprie argomentazioni, e i provvedimenti di diniego, anche successivamente alla prima pronuncia di questo Tribunale.
3.1 Il comportamento colposo è evincibile, altresì, dalla circostanza in base alla quale il permesso di costruire avrebbe potuto essere emanato in virtù dell’applicazione dell’art. 4 delle NTA del Piano Regolatore vigente, laddove prescrive che l’azienda agricola è composta da terreni in proprietà, affitto o possesso a vario titolo, purchè sottoposti a gestione tecnico economica unitaria, circostanze che sussistevano tutte nel caso di specie.
3.2 E’, allora, evidente che i successivi frazionamenti del terreno non solo, non avevano avuto effetti sulla configurabilità dell’azienda agricola, ma non potevano essere imputati ai ricorrenti nel momento in cui gli stessi, avendo proceduto ad una parziale alienazione di detti terreni, non ne avevano più la materiale disponibilità.
3.3 Sul punto va rilevato che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, ribadito pur con alcune differenze in una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato Sez. IV, 18-04- 2013, n. 2164), deve ammettersi il risarcimento dell'interesse pretensivo all'ottenimento di permesso di costruire la cui lesione sia stata cagionata dal duplice diniego illegittimamente opposto dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina paesaggistica dalla quale scaturisca l'impossibilità di realizzare detto intervento edilizio.
4. Risulta, pertanto, accertato che i provvedimenti sopra emanati risultano astrattamente idonei a cagionare un danno ingiusto ai ricorrenti".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1073 del 2013

Le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione penale su Silvio Berlusconi

30 Ago 2013
30 Agosto 2013

Pubblichiamo il testo della sentenza n. 35729/13 della Corte di Cassazione, depositata il 29 agosto 2013, relativa al processo penale al senatore Silvio Berlusconi per frode fiscale (208 pagine).

sentenza_penale Silvio Berlusconi

L’inibizione di una DIA dopo i 30 giorni vale come autotutela?

30 Ago 2013
30 Agosto 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1072 del 2013 esamina un caso in cui un Comune ha inibito una DIA tardivamente, vale a dire dopo 30 i giorni. Il TAR dichiara l'illegittimità di tale provvedimento, che non è stato possibile neppure convertire in un provvedimento di autotutela (autotuela che di per sè che sarebbe possibile dopo i 30 giorni), perchè nel caso specifico il provvedimento impugnato non possedeva i requisiti per qualificarlo coe esercizio dell'autotutela.

Scrive il TAR: "2. Per quanto riguarda il ricorso RG 200/08 è possibile accoglierlo, ritenendo fondato il primo motivo, diretto a rilevare la violazione del termine entro il quale poteva essere, legittimamente, inibita la DIA ora impugnata.

3. A queste conclusioni è possibile giungere considerando l’espresso riferimento, contenuto nell’art. 23 del Dpr 380/2001, laddove dispone che il provvedimento inibitorio debba essere “notificato” all’interessato entro il termine di 30 giorni, circostanza che consente di ritenere come detto termine abbia natura perentoria, insuscettibile quindi di essere derogato.
3.1 E’, altresì, noto che nel regime così previsto l’Amministrazione, una volta che risultino decorsi i termini di cui all’art. 23 sopra citato, può provvedere esercitando il potere di autotutela disciplinato dagli art. 21 nonies e quinquies della L. n. 241/90. Detta interpretazione è confortata da un costante orientamento giurisprudenziale, confermato anche da pronunce di questo Tribunale (T.A.R. Veneto Venezia Sez. II, 12-08-2011, n. 1361) in base alle quali si è sancito che “Ai sensi dell'art. 23, commi 5 e 6, D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (T.U. Edilizia), il provvedimento inibitorio dell'attività edilizia oggetto della DIA deve essere non solo adottato, ma anche notificato, entro termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione della denuncia medesima”.
3.2 Costituisce principio altrettanto consolidato quello in base al quale (T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 14-02-2013, n. 1653) “Decorso senza esito il termine per l'esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione dispone del potere di autotutela ai sensi degli articoli 21 quinquies e 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241. Restano inoltre salve, ai sensi dell'art. 21 della legge medesima n. 241, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore”.

4. Applicando detti principi al caso di specie risulta evidente l’illegittimità del provvedimento impugnato e, ciò, laddove si consideri come esso sia stato adottato il trentesimo giorno dalla data di presentazione della DIA e, solo successivamente, avviato alla spedizione per la conseguente notifica.
4.1 Si consideri, ancora, come nello stesso provvedimento si sancisca il “non accoglimento” della DIA unitamente alla diffida a proseguire i lavori, senza che sia possibile desumere l’esistenza di quei requisiti tipici dell’avvenuto esercizio di un potere di autotutela".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1072 del 2013

Le novità del “decreto del fare” dopo la conversione

29 Ago 2013
29 Agosto 2013

In un post precedente avevamo elencato brevemente le modifiche più significative apportate al Testo Unico dell’Edilizia dall’art. 30 del  D.L. 69/2013 - c.d. “Decreto del fare”.

Con questo post segnaliamo le modifiche apportate al decreto legge citato in sede di conversione ad opera della L. 9 agosto 2013 n. 98  (il testo coordinato è già stato pubblicato su questo sito il 22 agosto 2013 ). Esse, per il vero, riguardano, non solo l’edilizia in senso stretto ma anche l’urbanistica e una in particolare il commercio.

Introduzione dell’art. 2 bis del D.P.R. 380/2001, intitolato “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”

L’articolo rappresenta una piccola rivoluzione, dal momento che per la prima volta viene scalfita la forza granitica del D.M. 2.4.1968, dando la possibilità alle Regioni e alle Province autonome (ferma restando la competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile ai sensi dell’art. 117, comma 1, lettera l) della Cost.):

1)      di prevedere con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori Pubblici 2 aprile 1968 n. 14444;

2)      di dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione degli strumenti urbanistici o comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.

Osserviamo, ad un prima lettura, che, mentre la rubrica dell’articolo parla espressamente di deroga ai limiti di distanza tra fabbricati, il disposto normativo parla genericamente di disposizioni derogatorie al D.M. 1968; ciò fa sorgere il dubbio su quale sia la portata reale derogatoria della norma.

Neanche la seconda parte dell’articolo in questione risulta molto chiara, perché parrebbe che fossero le Regioni a dettare disposizioni sul dimensionamento della pianificazione, esautorando la potestà pianificatoria degli enti territoriali. Ma attendiamo lumi.

 Modifiche al nuovo art. 23- bis del D.P.R. 380/2001 in materia di scia edilizia

In sede di conversione è stato modificato il comma 4 del nuovo art. 23- bis del D.P.R. 380/2001, attraverso una disciplina ancora più restrittiva in materia di scia edilizia a tutela delle Z.T.O. A o equipollenti. 

La regola generale è che tutti gli interventi realizzabili con scia in zona A non possono essere iniziati prima che siano decorsi trenta giorni dalla presentazione della segnalazione.

Ma v’è di più. I Comuni devono adottare, entro la data del 30 giugno 2014, una deliberazione che individui, all’interno della zona A o equipollente, specifiche aree nelle quali sono vietati interventi di demolizione e ricostruzione e le di varianti a p.c. comportanti modifiche della sagoma.  In assenza della deliberazione e in mancanza di intervento sostitutivo regionale, il provvedimento è adottato da un commissario nominato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Fintantoché la prevista deliberazione non viene adottata, all’interno della zona A o equipollente,  non si applica la scia con modifica della sagoma.

Modifiche al nuovo comma 4-bis e soppressione del nuovo comma 4 -ter dell’art. 24 del D.P.R. 380/2001 in materia di agibilità parziale

 Vengono meglio specificate le condizioni per i rilascio dell’agibilità per singoli edifici o porzione della costruzione o per singole unità immobiliari. In particolare  viene specificato che è sufficiente che siano “completate  e collaudate le parti  strutturali connesse” , nonché “collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni” (prima si parlava genericamente di parti strutturali e parti comuni). 

Viene soppresso il comma 4-ter dell’art. 24 sulla proroga di tre anni del certificato di agibilità parziale.

Soppressione del comma 2 dell’art. 30 del D.L. 69/2013

Risulta soppresso in sede di conversione l’art. 2 del D.L. 69 sul trasferimento del solo vincolo di pertinenzialità dei parcheggi ex art. 9 della c.d. “Legge Tognoli” (L. 122/1989).

Precisazioni in merito alla proroga dei termini di inizio e ultimazione lavori di cui all’art. 15 del D.P.R. 380/2001

Il comma 3 dell’art. 30 del D.L. viene integrato, precisando che la proroga prevista per i termini di inizio e fine lavori si intende esclusa nei casi in cui i predetti termini siano già scaduti al momento della comunicazione di proroga dell’interessato o nei casi in cui, al momento della comunicazione stessa, il titolo abilitativo sia in contrasto con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati (una sorta di “salvaguardia”, dunque)

Introduzione del comma 3-bis dell’art. 30 del D.L. 69/2013

Molto interessante e per certi versi “dirompente” è la previsione della proroga di tre anni del termine di validità, nonché del termine di inizio e fine lavori nell’ambito di tutte le convenzioni di lottizzazione ovvero di accordi similari stipulati sino al 31 dicembre 2012. Parrebbe una sorta di norma imperativa cogente di inserzione automatica di clausole contrattuali ex art. 1339 c.c.

Introduzione del comma 5-ter dell’art. 30 del D.L. 69/2013

La norma integra il disposto di cui all’art. 31, comma 2 del D.L. 201/2011, recante disposizioni sull’apertura di esercizi commerciali, introducendo una sorta di temperamento al principio della liberalizzazione tout court.

Infatti, le Regioni e gli enti locali, in sede di adeguamento dei propri ordinamenti alla disciplina europea sulla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali, possono “prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali”.

Avv. Marta Bassanese

 

Impegni contrattuali e provvedimenti amministrativi in materia di edilizia o di commercio

29 Ago 2013
29 Agosto 2013

I contratti che limitano le facoltà dell'utilizzatore di un'area incidono sulla legittimità degli atti amministrativi che consentono di effettuare interventi edilizi o di svolgere attività commerciali in contrasto con le previsioni contrattuali?

Risponde di no il TAR Veneto nella stessa sentenza n.  1076 del 2013, già allegata al post che precede.

Scrive il TAR: "6.1 In relazione a quanto sopra va premesso che, con atto del 15/06/1996, il Comune di Venezia ha concesso, al Consorzio cantieristica minore, il diritto di superficie sul compendio immobiliare di cui si tratta, a fronte del corrispettivo di un determinato prezzo. La precedente Convenzione (sottoscritta nel 1992), così come l’atto di cessione del diritto di superficie, prevedono effettivamente un riferimento all’uso “cantieristica minore” dell’immobile di cui si tratta, previsione che tuttavia deve essere interpretata in una dimensione prettamente privatistica, nell’ambito della quale hanno valenza gli obblighi contenuti nelle convenzioni sopra citate.
7. Come correttamente evidenzia parte ricorrente l’emanazione dei provvedimenti sanzionatori deve trovare fondamento sull’accertata diffor mità del relativo progetto, avendo a riferimento unicamente le prescrizioni urbanistiche al momento vigenti (Cons. di Stato sez. IV del 20/12/2005 n. 7263), circostanza quest’ultima che, come si è potuto evincere, deve ritenersi sussistente nel caso di specie.
7.1 E’, altresì, evidente che l’asserita violazione della Convenzione avrebbe potuto assumere rilievo ai fini della contestazione al cessionario del diritto di superficie circa “l’asserita” inosservanza degli obblighi assunti, così come avrebbe potuto configurare ipotesi di risoluzione della convenzione per un preteso inadempimento della stessa.
7.2 Certo è che la presunta violazione di un disposto contrattuale, peraltro riferito ad un bene di proprietà privata e non pubblica, non integri la fattispecie di un presupposto che poteva assurgere a fondamento dei provvedimenti impugnati e, quindi, di rimozione delle Scia commerciali di cui si tratta e, ciò, considerando la ricordata conformità delle stesse alle prescrizioni urbanistiche vigenti.
7.3 Sul punto è, peraltro, necessario ricordare che per un costante orientamento giurisprudenziale, seppur riferito alle opere edilizie - ma estensibile anche alla fattispecie in questione (T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 09-12-2010, n. 1949) -, “la pubblica amministrazione deve occuparsi solo di verificare - ex art. 12 d.P.R. 380/2001 - che le opere edilizie, oggetto di domanda diretta ad ottenere un provvedimento abilitativo, siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici (PRG; piano di fabbricazione ecc), dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, nonché conformi ai vincoli di varia natura (paesaggistici, idrogeologici ecc.) eventualmente esistenti nell'area la cui tutela sia stata rimessa dal legislatore alla cura dell'ente locale. Per contro, l'amministrazione deve completamente disinteressarsi dei rapporti privatisti che non la riguardano e che non sono oggetto di interesse pubblico di cui la medesima amministrazione è attributaria”.
7.4 Ne consegue che, anche laddove fosse possibile evincere nella Convenzione sopra citata l’esistenza di un autonomo vincolo all’utilizzo dell’immobile, esso avrebbe un effetto su un piano prettamente civilistico, determinando il venire in essere di una forma di responsabilità contrattuale e, ciò, considerando come detto “preteso” vincolo non sia stato tradotto in una disciplina edilizia o urbanistica.
7.5 Un utilizzo non conforme alle prescrizioni della Convenzione non può costituire il presupposto per la rimozione degli effetti di un atto
pubblicistico, diretto ad autorizzare lo svolgimento di un’attività commerciale.
7.6 Detta interpretazione è stata peraltro – e seppur implicitamente – confermata anche dall’Amministrazione comunale nel momento in cui la stessa Convenzione, e in particolare l’utilizzo degli immobili posto in essere dal ricorrente, ha costituito il presupposto per un’azione di risoluzione intentata, con atto di citazione notificato in data 18/04/2013, da parte del Comune di Venezia e nei confronti dell’attuale ricorrente. In detto atto di citazione l’utilizzo del bene ad uso commerciale, e non alla “cantieristica minore”, è la circostanza che consente alle parti attrici di dimostrare l’inadempimento della ricorrente alle prescrizioni contenute nella stessa Convenzione e, che ancora, costituisce il fondamento di una risoluzione parziale della stessa Convenzione.
8. Ne consegue che i provvedimenti inibitori sopra ricordati possano essere annullati in quanto illegittimi".

Dario Meneguzzo

Quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori)

29 Ago 2013
29 Agosto 2013

Segnaliamo sul punto al sentenza del TAR Veneto n. 1076 del 2013.

Scrive il TAR: "1.3 Sul punto va ricordato come l’orientamento giurisprudenziale prevalente, peraltro confermato da recenti pronunce, abbia sancito che ” quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), nel presupposto che, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzitutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l'improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi (Cons. Stato Sez. V, 24-04-2013, n. 2280, conferma della sentenza del T.a.r. Veneto, sez. II, n. 1008/2000)”. Anche in precedenti pronunce la giurisprudenza di merito ha confermato che “la proposizione di ogni istanza di sanatoria o di condono successivamente all'adozione dei provvedimenti negativi già impugnati con uno o più ricorsi giurisdizionali ancora pendenti, determina l'improcedibilità dei gravami stessi per carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tali istanze comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, idoneo comunque a superare la precedente misura sanzionatoria oggetto dell'ultima impugnativa; l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio viene pertanto traslato verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga detta istanza e disponga ex novo la demolizione (T.A.R. Abruzzo L'Aquila Sez. I Sent., 17-12-2008, n. 1322 e T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, 22-05-2009, n. 1262)”.
1.4 Detto orientamento trova la propria ragion d’essere nella considerazione in base alla quale, a seguito della presentazione della domanda di sanatoria o di accertamento di conformità, viene ad instaurarsi un nuovo procedimento che può culminare con il rilascio della concessione edilizia in sanatoria o con il rigetto della nuova domanda. In entrambi i casi è del tutto evidente come si determini il venir meno della precedente situazione litigiosa, in quanto la stessa verrà comunque superata dal nuovo provvedimento del Comune che concluderà  definitivamente il procedimento di sanatoria. L’interesse originario del ricorrente, anche a seguito dei provvedimenti inibitori delle Dia e delle Scia edilizie, risulta pertanto effettivamente “traslato” nel procedimento diretto all’emanazione del permesso in sanatoria e, ciò, considerando che non è possibile individuare alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che verranno sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio, ovvero, dal titolo
edilizio rilasciato in sanatoria".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1076 del 2013

La Confcommercio e i singoli commercianti non sono automaticamente legittimati a impugnare titoli edilizi riguardanti immobili commerciali

28 Ago 2013
28 Agosto 2013

Si occupa della questione la sentenza del TAR Veneto n. 1071 del 2013.

Scrive il TAR: "1.1 Sul punto va premesso che la mancanza di interesse di interesse a ricorrere è da ritenersi riferita ad entrambe le differenti  categorie di soggetti nell’ambito delle quali è possibile distinguere gli attuali ricorrenti. E’ necessario, infatti, constatare come i provvedimenti di cui si tratta siano stati avversati da un’associazione di categoria, e precisamente la “Confcommercio Unione Venezia” sia, nel contempo, da tre titolari di esercizi commerciali.
2. Per quanto concerne la Confcommercio Unione Venezia risulta evidente la carenza sia, di una qualunque legittimazione ad agire sia, ancora, di un interesse specifico, concreto e attuale all’annullamento degli atti del presente ricorso che, è necessario rilevarlo sin d’ora, hanno una caratterizzazione esclusivamente urbanistica.
2.1 Come è noto l’interesse sul quale poggia la legittimazione delle associazioni di cui si tratta deve avere un carattere collettivo, dovendo così riferirsi all’intera categoria considerata in modo complessivo e unitario. Un costante orientamento giurisprudenziale, richiamato dai soggetti contro interessati, e a cui questo Collegio ritiene di aderire (TAR Lombardia IV n. 2054/2006), ha rilevato come detto requisito non sussista nell’ipotesi in cui si impugni un titolo edilizio, seppur correlato all’edificazione di un parco commerciale, posto in essere di  un’associazione di commercianti. Si consideri, ancora, come non rientri negli scopi statutari dell’associazione sopra ricordata l’impugnativa di provvedimenti edilizi riferiti a soggetti terzi.
2.2 Nemmeno è possibile fare proprie le affermazioni degli stessi ricorrenti le quali rilevano, al fine di fondare il requisito della legittimazione attiva, l’inesistenza di un conflitto di interessi tra la Confcommercio di Venezia e il Consorzio Forte di Brondolo e la Società Immobiliare Grandi distribuzioni e, ciò, considerando come queste ultime siano delle società immobiliari non iscritte all’associazione di cui si tratta.
2.3 A prescindere dall’iscrizione o meno dei controinteressati all’associazione in questione, sul punto, risulta dirimente constatare come non sia possibile ravvisare l’esistenza di un interesse di carattere generale - correlato alle funzioni dell’associazione - e in relazione alla tutela del quale l’impugnazione avrebbe potuto risultare ammissibile. 
2.3 Si consideri ancora, come non solo risulti carente il requisito della legittimazione attiva, ma che nel contempo sia assente anche qualunque interesse diretto, ed attuale, ad ottenere l’annullamento dei permessi di costruire (e successive varianti) impugnati con il presente ricorso. Confcommercio Unione di Venezia, infatti, non ha dato prova in giudizio di essere proprietaria di un qualunque terreno o di un immobile ubicato, o meno, “in prossimità” dell’area di incidenza del parco commerciale di cui si tratta.
3. Analogo difetto di interesse sussiste, seppur con riferimento ad altri profili, nei confronti dei rimanenti ricorrenti qualificati, nel ricorso di cui si tratta, quali “esercenti attività commerciali in Chioggia”, in quanto titolari di licenze di abbigliamento sportivo e alimentari. Parte ricorrente, con riferimento a questi ultimi, afferma genericamente che le attività di cui sono titolari gli stessi verrebbero svolte a “pochissimi chilometri” dall’area oggetto del ricorso. Nulla di più.
3.1 E’ noto che l’impugnativa dei provvedimenti di autorizzazione edilizia è soggetta ad una disciplina parzialmente differente da quella che attiene all’impugnazione delle autorizzazioni commerciali.
3.2 Va, infatti, rilevato che in materia di impugnativa di permesso di costruire risulti determinante l’interpretazione dell’art. 31 comma 9 della L. n. 1150/1942, disposizione che ha portato al cristallizzarsi di due orientamenti. Un primo orientamento ritiene sufficiente la nozione di  “vicinitas” al fine di fondare l’interesse a ricorrere e, ciò, in contrasto a quell’ulteriore orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere che la nozione di stabile collegamento territoriale, tra il ricorrente e la zona interessata, debba essere interpretata unitamente alla ricerca “di una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante quale diretta conseguenza della realizzazione dell’intervento contestato (Consiglio di Stato Sez. IV del 04/12/2007 n. 6157)”.
3.3 Ulteriori, pronunce hanno, poi, sancito la necessità di ancorare, e meglio definire, la nozione di stabile collegamento territoriale nell’ipotesi in cui ad impugnare il permesso di costruire fosse un operatore economico. E’ stata così sancita la necessità (si veda T.A.R. Abruzzo L'Aquila Sez. I, 10-05-2011, n. 249) che affinchè “il suo interesse processuale possa qualificarsi personale, attuale e diretto, deve potersi ravvisare la coincidenza, totale o parziale, del prevedibile bacino di clientela, tale da potere determinare un apprezzabile calo del volume di affari del ricorrente; in  sostanza l'insediamento commerciale realizzato ex novo nella zona può considerarsi pregiudizievole e radicare un interesse tutelabile quando serve in tutto o in parte lo stesso bacino di clientela (in questo senso anche T.A.R. Campania Napoli Sez. IV Sent., 21-08-2008, n. 9955).
3.4 Si è, così, riconosciuta la legittimazione all'impugnazione di atti edificatori in favore di coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con l'area oggetto dell'intervento assentito e che facciano valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, anche se correlato ad altro di natura economico-commerciale (cfr. C.d.S, Sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4821).
4. Ne consegue che il riconoscimento di detta legittimazione ad agire, non è genericamente ammesso nei confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è subordinato al riconoscimento di determinati presupposti e, ciò, al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante (nonché qualificato e differenziato) l’interesse all’impugnazione. E’, pertanto, necessario che il soggetto che intende impugnare un atto edilizio correlato ad un’autorizzazione commerciale eserciti “nelle immediate adiacenze” una determinata attività commerciale e che, detta attività, sia dello stesso tipo di quella relativa al titolare dei titoli abilitativi, stante l'indubbio pregiudizio economico che quello stesso soggetto è destinato a subire con l'apertura dell'impianto concorrente.
4.1 E’, allora, del tutto evidente come l'interesse al rispetto della disciplina urbanistico-edilizia, per trovare adeguata tutela, deve combinarsi e coesistere con quello economico alla tutela dell'attività commerciale, esercitata nella medesima area interessata dalle impugnate concessioni edilizie.
5. Applicando detti principi al caso di specie risulta evidente la carenza di interesse degli attuali ricorrenti, qualificati quali esercenti un’attività commerciale. A tali fini risulta va sin da subito chiarito come non sia sufficiente affermare di essere titolari di un’attività commerciale nello stesso Comune per un impugnare un provvedimento di natura urbanistica.
5.1 Il Comune di Chioggia ha, peraltro, affermato, senza per questo risultare smentito, che i tre operatori economici esercitano la propria attività in locali ubicati nella zona centrale di Sottomarina e di Chioggia e “quindi a distanza di diversi chilometri dall’area del parco commerciale ubicato fuori città”.
5.2 Non solo dette affermazioni non sono state contestate, ma sul punto non è stata data alcuna prova che lo svolgimento dell’attività commerciale sia in una qualche “prossimità” dell’insediamento edilizio di cui si tratta e, ciò, con riferimento ad un area comunale che, come ricordano i soggetti controinteressati, ha una superficie superiore ai 180 chilometri quadrati. Si consideri, infatti, come non sia stata data alcuna dimostrazione in merito alla distanza che separa le proprietà dei tre soggetti ricorrenti e l’intervento urbanistico oggetto dei titoli edilizi ora impugnati e, ciò, nell’intento di poter desumere, da detto elemento, il pregiudizio e l’alterazione dell’assetto edilizio che il ricorrente intende conservare (Consiglio di Stato n. 339/2003). 5.3 Non risultano nemmeno condivisibili le argomentazioni di parte ricorrente laddove rileva che il concetto di stabile collegamento territoriale sia una nozione “relativa e variabile” in relazione alle connotazioni del soggetto. O meglio, se può essere condiviso astrattamene il fatto che la nozione di collegamento territoriale sia una nozione relativa è, pur vero, che detto presupposto deve sussistere e deve essere dimostrato in sede di giudizio e, ciò, soprattutto nell’ipotesi in cui si impugnano provvedimenti urbanistici.
5.4 Se, ancora, può risultare altrettanto condivisibile l’affermazione in base alla quale (TAR Veneto n. 4302 del 2005), “l'attuale facilità degli spostamenti sono elementi che consentono di superare il tradizionale limite del collegamento della struttura di vendita con il territorio” è, pur vero, che detto orientamento, sancito con riferimento alle impugnazioni di atti di autorizzazione, deve trovare un contemperamento con i principi propri dell’impugnazione dei titoli edilizi e di cui all’art. 31 sopra citato così come interpretati dalla successiva giurisprudenza, nella parte in cui considera essenziale la dimostrazione di uno stabile collegamento con l’area nell’ambito della quale sono stati realizzati determinati abusi edilizi.
6. Argomentare in altro modo, fare proprie le tesi di parte ricorrente – pur ben argomentate -, avrebbe l’effetto di stabilire una sostanziale equiparazione tra impugnare un’autorizzazione commerciale e impugnare un permesso di costruire.
6.1 Conseguenza ulteriore sarebbe quella di differenziare posizioni giuridiche sostanzialmente analoghe e, ciò, in considerazione del fatto se ad impugnare un titolo edilizio sia un singolo cittadino (nei cui confronti si applicherebbero i principi in materia di vicinitas) o, al contrario, sia un esercente un’attività commerciale, nei cui confronti risulterebbe ammissibile l’impugnazione di un permesso di costruire pressocchè del tutto svincolata dall’esame del bacino di utenza in cui incide l’attività commerciale del ricorrente.
6.2 Ne risulterebbe violato il presupposto dello stabile collegamento con l’area interessata, legittimando impugnazioni che potrebbero prescindere da un qualunque esame della contiguità o della vicinitas con il manufatto presumibilmente abusivo.
6.3 Ne verrebbe elusa, altresì, la Giurisprudenza che ha caratterizzato l’art. 31 sopra citato, consentendo l’impugnativa a “chiunque” sia titolare di una licenza commerciale a prescindere dal collegamento territoriale con l’area di cui si tratta e, legittimando, il ritorno alla qualificazione dell’art. 31 quale esercizio di un’azione popolare.
6.4 Ne risulterebbe pregiudicata la certezza dei rapporti giuridici, consentendo ad un qualunque esercente di un esercizio commerciale di impugnare un atto edilizio in considerazione di una presunta lesione alla concorrenza e in relazione a parchi commerciali o esercizi insistenti in ambiti territoriali del tutto differenti.
6.5 Sul punto va, inoltre, rilevato come recenti pronunce (Cons. Stato Sez. V, 21-05-2013, n. 2757) siano arrivate – e in materia di impugnazione di un atto di autorizzazione commerciale - a ritenere non sufficiente, “per comprovare la legittimazione e l'interesse a ricorrere in via giurisdizionale”, la dimostrazione della semplice vicinitas con l'esercizio di nuova istituzione, occorrendo comprovare l'esistenza di un pregiudizio specifico, diretto e immediato (Conferma della sentenza del T.a.r. Piemonte, sez. I, n. 1249/2000).
6.6 Ma a anche a prescindere da detto ultimo orientamento va comunque rilevato come, a parere di questo Collegio, sia necessario distinguere l’interesse a fondamento dell’impugnazione di un’autorizzazione commerciale, dalla situazione che legittima il ricorso avverso un titolo edilizio e, ciò, in ossequio all’ottemperanza al percorso giurisprudenziale di cui all’art. 31 sopra citato.
7. Detta affermazione considera la necessaria correlazione tra titolo edilizio e atto commerciale di cui alla L Reg. 15/2004.
7.1 Se, infatti, è del tutto evidente che l'annullamento della concessione edilizia si ripercuote sull'autorizzazione commerciale assentita al titolare della concessione per l'apertura di un grande centro commerciale va, comunque, rilevato come i due procedimenti (quello teso al rilascio di un permesso e di un’autorizzazione) rispondono a discipline, e all’esercizio, di poteri dell'amministrazione posti a tutela di interessi di diversa natura, con provvedimenti caratterizzati da funzioni tipiche e distinte.
7.2 Ne consegue come risulti altrettanto legittimo differenziare la legittimazione attiva e l’interesse a ricorrere per i due procedimenti, circostanza quest’ultima che ha permesso a questo Tribunale di decidere, nel merito, l’analogo ricorso RG 1853/06 con il quale sono state impugnate le autorizzazioni commerciali conseguenti all’emanazione dei titoli edilizi di cui si tratta.
8. La dichiarazione di inammissibilità, ora al contrario pronunciata, va estesa anche alla delibera di Giunta n. 120/11 impugnata con i terzi e quarti motivi aggiunti e, ancora, alla deliberazione del Consiglio Comunale n. 103/2012 e, ciò, considerando come dette impugnazioni sono comunque finalizzate – unicamente - all’annullamento dei titoli edilizi sopra ricordati".

sentenza TAR Veneto 1071 del 2013

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