4 Aprile 2024
La Sezione II del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria il quesito su quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.
Da un lato, la giurisprudenza dominante ritiene che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini – cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di (in)utilizzo del titolo – ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non implica l’obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive), ove queste risultino conformi al progetto approvato con il PdC, ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l’esecuzione delle opere non ancora ultimate. Con la conseguenza che, in mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, con conseguente legittimità dell’ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all’intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza.
A sostegno, si afferma che, se l’art. 31 d.P.R. 380/2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione, il successivo art. 38 ha disciplinato il particolare caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato”, prevedendo la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a demolire possa essere applicata una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere.
E tuttavia, nel caso di specie il TAR Napoli, in prime cure, aveva affermato che, sebbene il PdC decada – decorso inutilmente il termine di conclusione dei lavori – per la sola parte non eseguita, il mantenimento delle opere presuppone la possibilità di portare a compimento l’opera iniziata; diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la possibilità per il privato titolare di un PdC di abbandonare l’opera incompiuta – specie se funzionalmente non autonoma – con ingiustificato deturpamento del contesto circostante, specie se l’opera contrasti con la regolamentazione urbanistica dell’area (peraltro nel caso in questione, il privato si è visto respingere per due volte un progetto di completamento, in virtù di atti cui prestava acquiescenza).
La Sezione II del Consiglio di Stato ha ritenuto questa tesi “non irragionevole”, ma “in frizione” con la giurisprudenza prevalente, da cui la rimessione all’Adunanza Plenaria.
Si osserva che questa vicenda suscita degli interrogativi di più ampio respiro. Supponiamo che un privato ottenga un PdC per realizzare un condominio di 12 metri, ma ne realizzi uno di 11 metri, che però rispetta tutte le possibili norme edilizie, urbanistiche, igienico-sanitarie ecc.: quel condominio è abusivo? Oppure il PdC – che ha natura autorizzatoria, cioè è volto a rimuovere un limite all’esercizio dello ius aedificandi insito in ogni diritto di proprietà immobiliare, attribuendo così una facoltà, non un dovere, al privato – può essere legittimamente sfruttato “solo in parte”?
In alcuni casi, peraltro, sembra di poter dire che i lavori non completati costituiscano di fatto una totale difformità oppure una variazione essenziale rispetto all'opera assentita e, quindi, assomigliano molto a un abuso edilizio.
Post di Dario Meneguzzo – avvocato
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