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La diffida a ridurre le emissioni rumorose non è autonomamente impugnabile

27 Mag 2014
27 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 22 maggio 2014 n. 693, si occupa dei piani di classificazione acustica che i Comuni devono adottare in base alla Legge n. 447/1995 (Legge quadro sull’inquinamento acustico) e dei connessi provvedimenti comunali. In particolare la diffida finalizzata ad imporre il rispetto dei limiti legai previsti dalla L: n. 447/1995 e dal D.P.C.N. 14.11.1997 non è un provvedimento direttamente lesivo e, dunque, autonomamente impugnabile, atteso che: “In relazione al primo profilo va infatti rilevato che effettivamente l’atto impugnato, in base ad una corretta qualificazione che tenga conto del suo effettivo contenuto e di quanto dispone, nonché delle caratteristiche che presenta nella sua concreta attuazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 19 novembre 2012, n. 5848; Tar Lazio, Latina, Sez. I, 22 ottobre 2012, n. 791; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 8828), è privo di autonoma lesività, perché non è un atto sussumibile entro quelli contemplati dall’art. 9 della legge 20 ottobre 1995, n. 447, ma si sostanzia in una mera diffida a rispettare i limiti di legge, che in quanto tale è priva di effetti costitutivi e pertanto non è autonomamente impugnabile (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6079; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 30 ottobre 2001 n. 783), ed è stata emessa nell’esercizio degli ordinari poteri di vigilanza di cui all’art. 6 e all’art. 14, comma 2, della legge 20 ottobre 1995, n. 447, di competenza del dirigente, per le ipotesi non caratterizzate dal presupposto dell’urgenza che perseguono lo scopo di far rientrare le fonti di inquinamento entro i parametri di legge (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 10 settembre 2009, n. 5420).

Una tale conclusione è avvalorata da profili di carattere letterale, dato che non vi è la comminazione di conseguenze pregiudizievoli in caso di mancata osservanza del contenuto monitorio dell’atto.

Infatti vi è solo l’indicazione della possibile adozione di provvedimenti di cui all’art. 9 della legge 20 ottobre 1995, n. 447, in caso di pericolo immediato per la salute pubblica, e l’espressa attribuzione all’atto della valenza di cui all’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 693 del 2014

Nella S.C.I.A. in sanatoria opera il silenzio-assenso

27 Mag 2014
27 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 1534, si occupa della S.C.I.A. edilizia in sanatoria stabilendo che se l’Amministrazione comunale non inibisce l’intervento entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, l’abuso edilizio si intende sanato: “5. Come risulta dall’esposizione in fatto, l’appellante incidentale ha prodotto copia della segnalazione certificata di inizio attività (ai sensi della L.R. 18 febbraio 2004, n. 1, come modificata e integrata dalla L.R. 16 settembre 2011, n.8), presentata al Comune di Perugia in data 19 dicembre 2012, a sanatoria dell’abuso oggetto dell’ordine di demolizione impugnato in primo grado.

Non è stato contestato dal Comune di Perugia che sia effettivamente decorso il termine di 30 giorni dalla presentazione della predetta s.c.i.a senza che sia stato adottato (e comunicato) alcun provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività proprio ai sensi dell’art. 21, comma 12, della citata L.R. n. 1 del 2004: a ciò consegue che sussiste un titolo abilitativo, sia pur in sanatoria, dell’attività edilizia, originariamente abusiva.

Sotto tale profilo deve rilevarsi che la presentazione della s.c.i.a. (e la conseguente avvenuta formazione del titolo abilitativo in sanatoria) costituisce in realtà ammissione dell’abuso edilizio commesso, avendo quella segnalazione certificata carattere e natura confessoria, diretta a provare la verità di fatti attestati e a produrre, con l’inutile decorso del tempo per l’emanazione di provvedimenti inibitori, effetti direttamente stabiliti dalla legge, indipendentemente da una eventuale diversa volontà delle parti (Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2086 per un’ipotesi analoga in tema di condono edilizio ex lege 28 febbraio 1985, n. 47)”.

Ciò determina una sopravvenuta carenza d’interesse da parte dell’Amministrazione a coltivare il ricorso perché: “Ciò posto, essendo stato sanato l’abuso che aveva legittimato l’emanazione dell’ordine di demolizione oggetto di controversia, deve essere dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’originario ricorso proposto in primo grado, essendo venute meno nelle more del giudizio le condizioni dell’azione che, com’è noto, devono persistere per tutto il giudizio”.

Alla luce di ciò si evince che, se per il Permesso di costruire in sanatoria vige la regola del silenzio-rigetto o silenzio-diniego, ex art. 36, c. 3 del D.P.R. n. 380/2001, laddove l’Amministrazione non si pronunci entro sessanta giorni dalla richiesta (per il permesso), nella S.C.I.A. in sanatoria, al contrario, vige il principio del silenzio-assenso (nei 30 giorni). Ovviamente ritengo che sia sempre fatto salvo, in ambedue le ipotesi, il potere di autotutela dell’Amministrazione. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1534 del 2014

Decreto Ministeriale 22 maggio 2014 “Linee Guida su criteri e modalità applicative per la valutazione del valore di rimborso degli impianti di distribuzione del gas naturale”

27 Mag 2014
27 Maggio 2014

Sul sito del MISE (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/dgsaie/ambiti/norme.asp) è stata pubblicata la seguente informativa:

 "...Approvazione del documento “Linee Guida su criteri e modalità applicative per la valutazione del valore di rimborso degli impianti di distribuzione del gas naturale” del 7 aprile 2014.

Con Decreto Ministeriale 22 maggio 2014 è stato approvato il documento MISE Linee guida su criteri e modalità applicative per la valutazione del valore di rimborso degli impianti di distribuzione del gas naturale del 7 aprile 2014 ai sensi dell'articolo 4, comma 6, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 e dell’articolo 1, comma 16, del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni in legge 21 febbraio 2014, n. 9.

Tabella Excel Foglio riassuntivo calcolo valore di rimborso..."

Dalle linee guida si evince che:

 "...In conformità con l’articolo 15, comma 5, del DLgs. 164/2000 e s.m.i. e con l’articolo 5, commi 2 e 4, del regolamento criteri di gara, le specifiche metodologie previste nei singoli contratti di concessione vigenti e stipulati precedentemente all’11 febbraio 2012 prevalgono su quanto contenuto nelle presenti Linee Guida, con le limitazioni previste nell’articolo 5 del regolamento criteri di gara e nel capitolo 2 del presente documento.

 Le Linee Guida si applicano ai seguenti casi:

 a. casi di cui all’articolo 5, comma 3, del regolamento criteri di gara, cioè i casi in cui è prevista alla scadenza naturale della concessione la devoluzione onerosa di una porzione di impianto al gestore entrante, la cessazione del servizio è anticipata rispetto alla scadenza naturale (inclusi i casi in cui non è previsto un termine di scadenza) e per cui:

i. i documenti contrattuali, stipulati prima dell’11 febbraio 2012, non prevedano alcuna previsione metodologica o la prevedano solo per alcuni aspetti del calcolo del valore di rimborso; in questo ultimo caso le Linee guida si applicano per gli aspetti metodologici non previsti o per l’applicazione operativa degli aspetti metodologici generali;

ii. gli atti integrativi, stipulati successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 164/2000 (21 giugno 2000), presentino solo un valore, anche se indicizzato, senza specificare la metodologia dettagliata applicata;

iii. i documenti contrattuali, per la valutazione del valore di rimborso, facciano riferimento generico all’articolo 24, comma 4, del regio decreto 2578/1925 o indichino genericamente che la valutazione debba essere effettuata a prezzi di mercato, senza fornire la metodologia dettagliata. A tale categoria appartengono i casi in cui un accordo successivo al 20 giugno 2000 ha sostituito gli atti precedenti in cui era definita la scadenza naturale e gli atti di concessione vigenti, stipulati prima dell’11 febbraio 2012, prevedono una metodologia riconducibile ai criteri di cui all’articolo 24, comma 4, del regio decreto 2578/1925;

b. casi in cui gli atti di concessione ancora in vigore prevedano alla scadenza naturale la devoluzione gratuita al Comune dell’intero impianto o di una sua porzione, ma in cui la cessazione effettiva del servizio è anticipata per disposizioni di legge; in particolare nei due seguenti sottocasi:

i. gli atti di concessione prevedono l’applicazione del regio decreto n.2578/1925 in caso di cessazione anticipata del servizio (caso in cui si applica il secondo periodo dell’articolo 5, comma 14, lettera a, del regolamento criteri di gara);

ii. gli atti di concessioni non riportano alcuna modalità di calcolo in caso di cessazione anticipata del contratto rispetto alla scadenza naturale (caso in cui si applica l’articolo 5, comma 14, lettera b, del regolamento criteri di gara);

c. casi di cui all’articolo 5, comma 1, del regolamento criteri di gara, cioè i casi di cessazione del servizio alla scadenza naturale o successivamente, per cui gli atti di concessione ancora in vigore prevedano esplicitamente, come modalità di calcolo del rimborso alla scadenza naturale dell’affidamento, l’applicazione dei criteri di cui all’articolo 24, comma 4, del regio decreto n.2578/1925.

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Ai sensi dell’articolo 5, comma 4, del regolamento criteri di gara, nei casi in cui gli atti di concessione vigenti, stipulati prima dell’11 febbraio 2012, riportano previsioni solo su aspetti particolari per il calcolo del valore di rimborso (ad esempio, prezziario da utilizzare, vite utili per il calcolo del degrado, o altri dettagli metodologici) le Linee Guida si applicano per gli elementi non definiti in tali atti.

Inoltre, ai sensi dell’articolo 1, comma 16, del DL 145/2013 in tutti i casi si applica la detrazione dei contributi privati e, pertanto, si applicano in tutti i casi le modalità previste nel paragrafo 17.1 e nel paragrafo 3 dell’Allegato 2, limitatamente al trattamento dei contributi privati.

Nei casi non previsti sopra, qualora i documenti contrattuali facciano riferimento all’applicazione di un prezzario regionale, di una provincia autonoma o della CCIAA provinciale, senza specificarne le modalità applicative, valgono comunque le previsioni contenute nelle Linee Guida per l’utilizzo del prezzario. In particolare, in tale caso si applica quanto previsto nel capitolo 7, per le spese generali e l’utile di impresa, e quanto previsto nei paragrafi 8.2.3.3 e 8.3.2.2 e nell’allegato 1, per la priorità nella scelta della voce, contenuta nel prezzario di riferimento, da utilizzare per una determinata lavorazione relativa a scavi, rinterri e ripristini, per la scelta dei materiali di rinterro e rinfianco tubazioni e per la identificazione di voci di prezzo non idonee a rappresentare la lavorazione per la realizzazione di reti di distribuzione del gas. Anche per quanto riguarda la fornitura e installazione di componenti specifici della distribuzione del gas, inclusa la fornitura e la posa delle tubazioni interrate, valgono, nel suddetto caso, le previsioni contenute nelle Linee guida e non le voci di prezzo del prezzario, in quanto, come evidenziato al capitolo 4, la maggior parte dei prezzari non forniscono voci di costo adeguate alla realizzazione di condotte di notevoli estensioni, quali le reti di distribuzione del gas naturale.

Le Linee Guida non si applicano a valutazioni del valore di rimborso a regime, a cui si applica la metodologia della regolazione tariffaria, ai sensi dell’articolo 14, comma 8, del DLgs. 164/00, come modificato dall’articolo 24, comma 1, del DLgs 93/2011.

La Parte II, riguardante la valutazione del valore di ricostruzione a nuovo dei cespiti, non si applica agli impianti con prima metanizzazione dopo l’anno 2000, che sono stati realizzati con l’ausilio di finanziamenti pubblici e per cui le condizioni di posa e di accessibilità non si siano modificate. Per tali casi, ai sensi dell’articolo 5, comma 6, ultimo periodo, del regolamento criteri di gara, il valore di ricostruzione a nuovo è determinato utilizzando direttamente i costi effettivamente sostenuti, aggiornati con il deflatore degli investimenti fissi lordi. In questo ultimo caso è comunque applicabile la Parte III delle Linee Guida per il trattamento del degrado dei cespiti e del trattamento dei contributi pubblici e privati. 

geom. Daniele Iselle

 

S.O.S. tecnico: la confusione fiscale in materia di cessione di aree al comune

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa richiesta dell'arch.  Emanuela Volta, che sottoponiamo ai lettori:

Buongiorno, mi permetto di inviare un riferimento a complemento di un tema che avevate già trattato qualche giorno fa, cioè lo Studio del Notariato sul trattamento fiscale dopo il D.Lgs. n. 23/2011 della cessione “gratuita” di aree e di opere di urbanizzazione al Comune.

Ci troviamo in questo momento, e in particolare dal gennaio 2014, a fare i conti con delle nuove regole che generano incertezze ai comuni, a noi professionisti e anche ai privati che decidono di affrontare la strada della cessione di aree al comune sottoforma di perequazione.

Negli ultimi mesi siamo stati costretti, come urbanisti e pianificatori che utilizzano gli accordi all'interno degli strumenti di pianificazione, a confrontarci con tematiche fiscali di recente modifica.

In alcuni accordi il plusvalore calcolato come "beneficio pubblico" fondativo degli accordi pubblico/privato, è stato tradotto in cessione di aree di diversa natura (standard, edificabili per interventi pubblici, fasce di terreno per allargamenti stradali, aree da destinare a piste ciclabili o a viabilità....
E qui ci addentriamo in una selva oscura:
quanto si paga di tassa di registro? E' cessione onerosa? Chi paga? Il privato o l'Ente Territoriale?
Su quale valore dell'area si calcola l'imposta? Il valore ante trasformazione? Il valore delle aree edificabili ai fini imu utilizzato dai comuni per il calcolo delle perequazioni? Il valore dell'area trasformata, quindi il valore di mercato? Il famoso 9% del valore cambia tantissimo, e diventa discriminante tra fare e non fare l'accordo! Abbiamo consultato avvocati, notai, e da ultime le Agenzie delle Entrate. Non una, ma tre. Mi soffermo solo sulle risposte di queste ultime: ovviamente si tratta di tre risposte completamente diverse.
Ci è stata citata lo Studio del Notariato, ma anche una circolare dell'Agenzia delle Entrate, che mi pare di non aver visto nominata sul sito. Ve la indico, magari qualcuno che legge può dare qualche informazione/interpretazione di utilità per tutti quelli che si trovano ad affrontare questo tema.
Pensavo di dover/poter pensare alle strategie di pianificazione, e perché no? a quelle dell'urbanistica creativa che ci costringe oggi a vivere di giurisprudenza...invece facciamo pure i fiscalisti.
La circolare ha come oggetto "Modifiche alla tassazione applicabile, ai fini dell’imposta di
registro, ipotecaria e catastale, agli atti di trasferimento o di costituzione a titolo oneroso di diritti reali immobiliari - Articolo
10 del D.lgs.14 marzo 2011, n. 23", ed è la numero 2/E del 21 febbraio 2014. Grazie per l'attenzione, chissà che si riesca a illuminare "la diritta via smarrita".

CIR2E+DEL+21+02+14+(2

TAR Veneto:come si interpreta la norma del PTRC in materia di salvaguardia dell’Architettura del 900

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 704 del 2014. 

Scrive il TAR: "....Preliminarmente ritiene il Collegio che sia fondata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso formulata dalla difesa della Regione.

In particolare, la disciplina normativa delle “Architetture del Novecento”, fra le quali viene elencata la “Manifattura Tabacchi”, è contenuta nell’art. 62 delle n.t.a. del PTRC, il cui comma 3, per quanto qui interessa, stabilisce che: “I Comuni in sede di redazione dei propri strumenti di pianificazione provvedono ad implementare l’elenco (degli edifici e sistemi del Novecento) mediante un tavolo di concertazione a regia regionale nonché ad attivare specifiche e differenziate politiche locali di salvaguardia, valorizzazione e recupero, che valorizzino gli elementi architettonici, gli apparati decorativi e i caratteri insediativi”. Mentre al successivo comma 4 si adotta una misura di salvaguardia del seguente tenore: “fino all’adeguamento degli strumenti di pianificazione comunale per gli edifici e sistemi di cui al comma 1, fatti salvi quelli già disciplinati con finalità di salvaguardia dalla vigente pianificazione comunale, è vietata la demolizione e l’alterazione significativa dei valori architettonici, costruttivi e tipologici”.

Ciò premesso, la difesa della Regione ha correttamente osservato che tale ultima norma (comma 4), diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non pregiudica, di per sé, la realizzazione dei progetti di recupero e valorizzazione già previsti dagli strumenti di pianificazione comunale, in quanto tali progetti siano finalizzati alla tutela e alla salvaguardia degli edifici rientranti nelle “Architetture del Novecento”.

Ed infatti, ha evidenziato la resistente, l’individuazione, da parte della Regione, in sede di variante al PTRC, degli edifici e/o sistemi di edifici rientranti nelle “Architetture del Novecento”, è diretta ad identificare manufatti rilevanti per la ricchezza di relazioni che instaurano con i loro contesti, per il rapporto con il territorio, potendo comprendere sia fabbricati sottoposti a vincolo monumentale o urbanistico, da tutelare, recuperare e conservare, sia fabbricati privi di valore storico-architettonico e quindi da considerare anche ai fini di una possibile demolizione in funzione della salvaguardia, valorizzazione e riconversione dell’intero complesso individuato.

Di qui, in ragione della mancanza di una lesione attuale degli interessi della ricorrente, la dedotta inammissibilità del ricorso per difetto d’interesse.

Ed invero le osservazioni della difesa regionale appena riportate, e la valutazione, anticipata da questo Collegio nell’ordinanza cautelare, per cui le previsioni del piano relative alle “Architetture del 900” abbiano caratteri di generalità ed astrattezza, trovano conferma in alcuni passaggi della relazione illustrativa di cui all’allegato B della delibera n. 427 del 10 aprile 2013.

Infatti, da tale relazione ne emerge che lo scopo della variante, con riferimento alle “Architetture del 900”, è quella d’individuare solo delle linee generali per la salvaguardia e la valorizzazione di alcuni manufatti del Novecento, manufatti fino ad ora sprovvisti di alcuna tutela specifica, sebbene dotati di un certo valore storico e architettonico che si vuole ora riconoscere. In particolare, in tale relazione si sottolinea più volte che l’obiettivo del progetto non è quello di tutelare singoli elementi di pregio architettonico e urbanistico, ma di mirare “al riconoscimento del ruolo da essi rivestito nel conferire qualità e identità al territorio veneto contemporaneo”. Quindi tali manufatti e sistemi di edifici sono tutelati non tanto per il loro pregio intrinseco, quanto “per la ricchezza di relazioni che instaurano con i loro contesti”, ed in quanto, nel loro complesso o nell’interrelazione con il territorio, generano “veri e propri nuovi paesaggi”.

Ancora si evidenzia nella relazione illustrativa che “l’insieme delle schedature realizzate costituisce non un punto di arrivo ma piuttosto un punto di partenza. Questa prima selezione di manufatti andrà infatti integrata dagli enti locali territoriali, che potranno fare ulteriori segnalazioni e proporre politiche articolate mirate alla salvaguardia e valorizzazione”. Inoltre, anche la pianificazione paesaggistica regionale d’Ambito “sarà l’occasione per una definizione maggiormente dettagliata dei progetti individuati”.

D’altro canto, si è detto, come nel comma 3 dell’art. 62 delle n.t.a. del PTRC, si rimetta ai Comuni il compito di “attivare specifiche e differenziate politiche locali di salvaguardia, valorizzazione e recupero di tali manufatti”.

Pertanto, applicando tali concetti e tali previsioni normative alla fattispecie in esame, ne deriva che:

a) il complesso industriale della “Manifattura Tabacchi” non è oggetto, da parte della delibera impugnata, di una diretta e specifica disciplina delle forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione, rientrando, invece, nell’ambito di un progetto, non ancora definito, di tutela del patrimonio novecentesco, al quale sono chiamati a partecipare, sin dalla fase formativa, anche i Comuni; ed essendo, poi, la modulazione delle concrete politiche di salvaguardia e valorizzazione e la definizione di progetti maggiormente dettagliati, rimessa alla discrezionalità di quest’ultimi o dei Piani Paesaggistici d’Ambito;

b) in ogni caso, oggetto di tale tutela non sono individualmente i singoli edifici che compongono la “Manifattura Tabacchi”, ed i magazzini di stoccaggio in particolare, ma questa genericamente nel suo insieme, per la sua capacità di conferire “qualità e identità al territorio veneto contemporaneo”, e di interagire con il contesto urbano di riferimento, generando un “nuovo paesaggio”.

Coerentemente con tale assetto normativo e progettuale, la misura di salvaguardia di cui al comma 4 dell’art. 62 delle n.t.a. della delibera impugnata, a differenza delle tipiche misure di salvaguardia urbanistiche, vieta la demolizione e l’alterazione significativa degli edifici e dei sistemi di edifici identificati “fino all’adeguamento degli strumenti di pianificazione comunale”.

Ciò vuol dire che tale misura di salvaguardia, anziché imporre al Comune l’obbligo di soprassedere al rilascio di permessi di costruire in contrasto con il piano paesaggistico e fino all’approvazione del medesimo, rimanda sin da subito all’amministrazione locale, sia la definizione di una disciplina di dettaglio, con ampia discrezionalità circa la modulazione del grado e dell’intensità della tutela degli edifici e dei sistemi di edifici, sia la successiva attività di valutazione in ordine alla concreta compatibilità di ciascun progetto edilizio con gli obiettivi di valorizzazione del patrimonio novecentesco interessato.

Pertanto, nel caso di specie, allo stato, nulla esclude che il Comune, sulla base della successiva evoluzione procedimentale della fase attuativa della delibera regionale e nell’esercizio della propria residua discrezionalità, possa alla fine giungere a ritenere - in sintonia con gli interessi della ricorrente - compatibile, con gli obiettivi di conservazione e di valorizzazione del complesso industriale della “Manifattura Tabacchi”, anche la demolizione dei magazzini di stoccaggio, se considerati, quest’ultimi, di per sé stessi privi di valore storico-architettonico ed ininfluenti sul valore identitario del complesso industriale.

Ne deriva che la delibera della giunta regionale in oggetto, al momento, non è di ostacolo alla realizzazione delle previsioni del P.I. e del progetto presentato dalla ricorrente, e non essendo quindi attualmente lesiva, potrà essere eventualmente impugnata, quale atto presupposto, solo in esito all’applicazione che di essa ne faccia il Comune nella fase attuativa.

In conclusione, il ricorso deve essere giudicato inammissibile per difetto d’interesse...".

geom. Daniele Iselle

sentenza TAR Veneto n. 704 del 2014

Il vincolo cimiteriale prevale sul PRG comunale

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 12 maggio 2014 n. 2405, si occupa del vincolo cimiteriale di fonte statale affermando che esso prevale sugli strumenti urbanistici e sulle cartografie comunali che non lo prevedono e/o che lo disciplinano in maniera difforme: “deve rammentarsi che il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 -come modificato dapprima dall’art. 4 della legge 30 marzo 2001, n. 130 e quindi dall’art. 28, comma 1, lettera a), della legge 1° agosto 2002, n. 166- ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale, secondo giurisprudenza granitica (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5571, 20 luglio 2011, n. 4403, 16 marzo 2011, n. 1645, 27 ottobre 2009, n. 6547, 8 ottobre 2007, n. 5210; Sez. V, 14 settembre 2010, n. 6671, 8 settembre 2008, n. 4526).

Ne consegue che il rilevato contrasto con previsioni di P.R.G., secondo i rilievi cartografici più o meno certi o opinabili invocati dalla società appellante, non può implicare l'illegittimità del progetto di ampliamento cimiteriale, quando non sia contestato che il suolo appartenente alla società appellante ricada nella fascia assoggettata al vincolo cimiteriale, di tal che, e in ogni caso, risulti affatto prevalente il vincolo legale, e si ponga non già esigenza di una variante urbanistica ma, semmai, di adeguamento delle previsioni grafiche se e in quanto erronee, confuse, contrastanti con il sovraordinato limite legale”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2405 del 2014

All’interno di un comune se il privato invia una istanza a un organo incompetente questi deve girarla a quello competente?

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

La risposta a tale interrogativo sembra essere positiva solamente se si estendono in via generale i principi desumibili sia dall’art. 6, c. 2 del D.P.R. n. 18472006 (dettato in materia di accesso ai documenti amministrativi) secondo cui: “La richiesta formale presentata ad amministrazione diversa da quella nei cui confronti va esercitato il diritto di accesso è dalla stessa immediatamente trasmessa a quella competente. Di tale trasmissione è data comunicazione all'interessato” sia dall’art. 2, c. 3 del D.P.R. n. 1199/1971 (dettato in materia di ricorso gerarchico) il quale prevede che: “I ricorsi rivolti, nel termine prescritto, a organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione, non sono soggetti a dichiarazione di irricevibilità e i ricorsi stessi sono trasmessi d'ufficio all'organo competente”.

Sul punto, però, non c’è una risposta certa poiché manca una chiara disposizione legislativa.

Tale principio, tuttavia, sembra essere stato già accolto dall’Amministrazione tributaria. In realtà, in questo caso, c’è una norma specifica che prevede ciò: l’art.5 del D.M. n. 37/1997 stabilisce infatti che: “Le eventuali richieste di annullamento o di rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento avanzate dai contribuenti sono indirizzate agli uffici di cui all'articolo 1; in caso di invio di richiesta ad ufficio incompetente, questo è tenuto a trasmetterla all'ufficio competente, dandone comunicazione al contribuente”.

Alla luce di ciò la giurisprudenza tributaria è giunta ad affermare che vi è un obbligo - almeno per questi enti - di trasmettere le istanza dei privati all’organo competente: “Non osta, del resto, a tale conclusione, la necessità del controllo sulla correttezza del rimborso (su cui nel caso di specie non si fa nessuna questione), tenuto conto del dovere di cooperazione esistente tra gli uffici e dell'obbligo dell'Ufficio finanziario, che riceva atti ritenuti appartenenti alla competenza di altro Ufficio, di inoltrarli a quello reputato competente, in considerazione del principio, da ultimo affermato da Cass. n. 6627 del 2013, secondo cui, per effetto delle norme sul procedimento amministrativo, di cui alla L. n. 241 del 1990, e del principio di buona fede ed affidamento del contribuente di cui alla citata L. n. 212 del 2000, art. 10, "in difetto di trasmissione dell'istanza... all'organo ritenuto competente o di comunicazione al contribuente da parte dell'Ufficio e nell'inerzia dell'Amministrazione finanziaria, il contribuente non ha ragione di dubitare della piena formazione del silenzio-rifiuto e, pertanto, ricorre l'ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. g)" con la possibilità di impugnare il diniego davanti al giudice tributario” (Cass. civ., sez. trib., 19.12.2013, n. 28398), nonché “la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che la presentazione dell'istanza ad ufficio diverso, e quindi territorialmente incompetente, osti alla formazione del provvedimento negativo, anche nella forma del silenzio - rifiuto, e conseguentemente determini l'inammissibilità del ricorso presentato alla commissione tributaria per difetto di provvedimento impugnabile; improponibilità rilevabile d'ufficio dal giudice anche in sede di gravame, salvo che si sia già fermato sul punto un giudicato interno (v. ex plurimis Cass. N. 13194 del 16/07/2004; n. 23701 del 15/11/2007; n. 9095 del 2002; Sezioni Un. N. 11217 del 1997). Ritiene però il Collegio che simile drastica conclusione, che viene a penalizzare un errore meramente formale del contribuente, debba essere rivisitata alla luce dei principi di cooperazione, collaborazione e buona fede che, in base alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, devono improntare i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente.

Sulla scorta di simili principi questa sezione ha già riconosciuto che l'istanza di rimborso presentata ad un ufficio dell'amministrazione finanziaria, ancorchè incompetente funzionalmente o territorialmente a provvedere sulla medesima, è, atto idoneo ad impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38, (Cass. 6 maggio 2005, n. 9407; Cass. N. 14212 del 28 luglio 2004). Ha però soggiunto che tale istanza - rivolta ad organo incompetente - non sarebbe invece idonea a determinare la formazione di un provvedimento di diniego nella forma del silenzio - rifiuto, e renderebbe conseguentemente inammissibile il ricorso al giudice tributario; quindi il contribuente dovrebbe, entro il termine prescrizionale di cui all'art. 2967 c.c., rinnovare l'istanza rivolgendola all'organo competente. Il Collegio ritiene che la coerenza del sistema imponga un ulteriore passo avanti e dunque di riconoscere che l'ufficio non competente che riceva un'istanza di rimborso è tenuto a trasmettere l'istanza all'ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa amministrazione (cfr. anche la L. 18 marzo 1968, n. 249, art. 5), restando configurabile, in difetto, un silenzio - rifiuto del rimborso medesimo, impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie (Cass. 8 agosto 1988 n. 4878), e ciò sia perchè la domanda di rimborso non è rivolta ad un organo estraneo all'amministrazione finanziaria, sia perchè, in tema di rimborso, l'ordinamento impone una dovuta costante collaborazione organi (arg. D.P.R. n. 602 cit., ex art. 38, comma 3). La soluzione accolta appare, infine, conforme al principio più volte affermato da questa Corte e secondo cui le leggi devono essere interpretate alla luce delle esigenze di celerità processuale e di sollecita definizione dei diritti delle parti di cui all'art. 11 Cost., (cfr. le sentenze delle Sezioni Unite n. 24883 del 9 ottobre 2008 e n. 4109 del 22 febbraio 2007); appare infatti inutilmente defatigatorio imporre ad |un contribuente, il cui diritto non è venuto meno, di presentare una seconda istanza ed instaurare un secondo giudizio, senza che ciò risponda ad alcuna esigenza sostanziale, dal momento che l'amministrazione ha resistendo nel primo giudizio, manifestato la inequivocabile decisione di non procedere al rimborso” ed ancora che: “Al riguardo rileva che la giurisprudenza tributaria ha sancito l'applicazione ai casi di istanza e/o notifiche presentata ad organi diversi della stesa Amministrazione dei principi ex art 5 della l. 18 marzo 1968 n. 249 che prevedono la trasmissione d'ufficio dell'atto all'organo competente (C.T.C., sez XXVII, sent. n. 2693 del 5 aprile 1992 e sez. IV, sent. n. 4390 del 8 luglio 1992 - sez. XXIII sent. n. 3475 del 9 maggio 1990 e sez. XXV, sent. n. 5747 del 15 luglio 1987). L'equivalenza di un'istanza e/o della notifica di un atto indirizzato ad Ufficio Finanziario anziché ad un altro (e nel caso specifico alla Direzione Compartimentale - ufficio superiore) non solo è stata riconosciuta dalla magistratura tributaria (C.T.C., Sez. VII, sent. 3 gennaio 1992, n. 22; Sez. XXVII, sent. 5 aprile 1991, n. 2691; sez. XII, sent. 4 aprile 1989, n. 2451), ma anche dal Ministero delle Finanze che, con circolare 23 dicembre 1980, n. 38/15/5516, ha autorizzato gli Uffici periferici a trasmettersi le istanze e/o gli atti erroneamente notificati” (Comm. Trib. Reg. Bari, sez. XV, 26.04.2004, n. 7).

Secondo voi queste conclusioni possono valere anche per le altre Pubbliche Amministrazioni? Io riterrei di sì.

dott. Matteo Acquasaliente

Cass. civ. sez. trib. n. 28398 del 2014

Il confronto concorrenziale si applica anche alle concessioni di servizi

26 Mag 2014
26 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 14 maggio 2014 n. 633, si occupa della concessione dei servizi ex art. 30 del D. Lgs. n. 163/2006 ribadendo che i principi comunitari di non discriminazione, parità di trattamento, pubblicità e trasparenza impongono alle Amministrazione di utilizzare delle procedure concorsuali anche per la scelta del concessionario. Solamente in presenza di specifiche ed motivate esigenze, infatti, la Pubblica Amministrazione può eccezionalmente derogare al confronto concorrenziale: “1.- Ai sensi della richiamata norma, infatti, nelle gare indette per la concessione di servizi la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato 25 marzo 1957 e dei principi generali relativi ai contratti pubblici (e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità), previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

Le concessioni amministrative sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici proprio per il fatto che, dal punto di vista della tutela della concorrenza, esse hanno la stessa incidenza sul mercato degli appalti, visto che il concessionario ricava un’utilità sfruttando economicamente servizi o beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata. E poiché i principi comunitari ostano a normative o prassi amministrative che, attraverso un’assegnazione non competitiva delle concessioni, siano idonee a provocare un’alterazione delle ordinarie dinamiche di mercato, l’art. 30 del DLgs n. 163/2006 impone che l’affidamento delle concessioni (di servizi) sia preceduto da un confronto concorrenziale fra i possibili aspiranti.

Ciò stante, dunque, è pacifico che la scelta del concessionario debba essere conseguente ad una procedura competitiva e concorrenziale (ispirata ai principi dettati dal Trattato istitutivo dell'Unione Europea), e non a caso l'art. 2, I comma del codice dei contratti prevede che l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza e che l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nello stesso codice.

In tale quadro normativo, per effetto del quale anche la disciplina delle procedure per l'affidamento di concessioni di servizi deve essere conforme ai principi che regolamentano in tutta l'Unione Europea l'assegnazione di commesse pubbliche, si inseriscono con portata indubitabilmente applicativa ad ogni figura di affidamento – lo si annota per completezza - le disposizioni recate dagli artt. 41 e 42 del codice dei contratti, alla stregua delle quali, ancorchè non costituiscano per la stazione appaltante un vincolo diretto, le determinazioni in materia di requisiti soggettivi di partecipazione alle gare non devono essere illogiche, arbitrarie, inutili o superflue e devono essere rispettose del "principio di proporzionalità", il quale esige che ogni requisito individuato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti. Pertanto, il concreto esercizio del potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal pubblico incanto e deve rispettare i principi del codice dei contratti, con la conseguenza che nella scelta dei requisiti di partecipazione il ricordato principio di non discriminazione impone che la stazione appaltante deve ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per l'esercizio dell'attività economica e l'intero impianto delle prescrizioni di gara non deve costituire, dunque, una violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione e trasparenza di cui al citato art. 2, I comma del codice.

2.- È ben vero che ai sensi dell’art. 57, II comma, lett. b) le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara qualora “per ragioni di natura tecnica…..il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato”: ma è altresì vero che di ciò esse devono dar conto con adeguata motivazione nella determina a contrarre e, altresì, individuano, se possibile, “gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. Gli operatori economici selezionati vengono contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta”.

Trattasi, infatti, di procedura che, derogando all'ordinario obbligo dell'Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale, riveste carattere di eccezionalità e richiede un particolare rigore nella individuazione ed apprezzamento dei presupposti che possono legittimarne il ricorso (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 13 gennaio 2005 n. 84), di cui, peraltro, deve essere data adeguata motivazione nella deliberazione o determinazione a contrarre (art. 57, I comma), in modo da "scongiurare ogni possibilità che l'amministrazione utilizzi situazioni genericamente affermate, come un "commodus discessus" dall'obbligo di esperire una pubblica procedura di selezione che è la sola con carattere di oggettività e trasparenza. In tali ambiti, l'obbligo motivazionale non deve atteggiarsi a mera estrinsecazione di un apparato preconfezionato al solo scopo di giustificare le scelte discrezionalmente operate dall'Amministrazione, ma deve oggettivamente offrire l'indicazione dei pertinenti presupposti legittimanti; e, con essi, della presenza di un nesso di necessaria implicazione causale, tale da imporre il ricorso all'affidamento diretto" (cfr. T.A.R. Lazio Roma, I, 18 febbraio 2009, n. 1656).

3.- Precisato, dunque, che la procedura di evidenza pubblica costituisce un indispensabile presidio a garanzia del corretto dispiegarsi della libertà di concorrenza e della trasparenza dell'operato delle Amministrazioni, elementari e indefettibili canoni di legalità (positivizzati, peraltro, nell’art. 57 del codice) impongono alla Pubblica Amministrazione - quando sussistano i presupposti per ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato, i servizi di cui ha bisogno per il suo funzionamento - di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità della propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire l'incarico.

Orbene, nel caso di specie non soltanto l’Amministrazione ha omesso qualsiasi motivazione in merito alla pretermissione della procedura concorsuale, ma nemmeno appaiono sussistenti i presupposti previsti dalla norma per il ricorso alla trattativa privata, giacchè l’aggiudicataria non agisce in regime di monopolio e, comunque, non presenta caratteristiche esclusive con riferimento all’esercizio dell’attività oggetto della concessione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 633 del 2014

Distanze e art. 2-bis del DPR 380/2001: la posizione della Corte Costituzionale sul riparto di competenza tra Stato e Regioni

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza della Corte Costituzionale n.  134 del 2014 del 19 maggio 2014: "...3.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

La disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 6 del 2013, n. 114 del 2012, n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Deve però essere precisato che «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, [sicché] la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Dunque, se, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella competenza legislativa statale esclusiva, alle Regioni è comunque consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale, anche se unicamente a condizione che tale deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.

Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005). Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza – statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» –, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».

In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013).

Tale principio è stato sostanzialmente recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

La norma regionale impugnata dev’essere, dunque, scrutinata alla luce dei suesposti princìpi. Essa s’inserisce in un elenco di varianti ai piani vigenti alla data di entrata in vigore della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013, che, nel quadro di una normativa transitoria applicabile nelle aree industriali lucane, è previsto siano adottate e approvate dal consiglio di amministrazione del Consorzio territorialmente competente, in deroga alla normale procedura regolata dai commi precedenti dello stesso art. 29, «anche su istanza degli operatori economici insediati o che intendano insediarsi nell’area, […] previo espletamento delle procedure di partecipazione per osservazione di cui all’art. 9, comma 2, della legge regionale 11 agosto 1999, n. 23».

Le varianti di cui alla disposizione regionale denunciata attengono, dunque, a strumenti urbanistici mirati (come i piani di area di sviluppo industriale), i quali producono, a norma dell’art. 51, sesto comma, del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno), «gli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150». Tanto determina, per i Comuni ricadenti nell’ambito del piano, l’obbligo di adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici [art. 6 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica)].

Conseguentemente, ricorre nella specie quella finalizzazione urbanistica dell’intervento regionale, intesa alla costruzione di un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, che costituisce l’estrinsecazione della relativa competenza legislativa regionale.

Peraltro, venendo in rilievo una competenza concorrente riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, non v’è dubbio che debbano essere comunque osservati i principi della legislazione statale quali «si ricavano dall’art. 873 cod. civ. e dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 230 del 2005).

Quindi, seppure il regime delle distanze ha la sua prima collocazione nel codice civile, la stessa disciplina ivi contenuta è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968, costituente un corpo unico con la regolazione codicistica.

Per tali ragioni d’ordine sistematico, l’esplicito richiamo al codice civile contenuto nell’art. 29, comma 6, lettera g), della legge reg. Basilicata n. 7 del 2013 deve essere inteso come riferito all’intera disciplina civilistica di cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e fondamentale.

Così interpretata, la disposizione regionale censurata risulta pienamente rispettosa della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica dei rapporti interprivati, appunto perché essa impone il rispetto del codice civile e di tutte le disposizioni integrative dettate in tema di distanze nell’ambito dell’ordinamento civile, comprese quelle di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968. ..."

Alla luce di tale orientamento, come va interpretato l'art. 9, comma 8 bis. della L.R. Veneta 14/2009, aggiunto dal comma 13, art. 10, legge regionale 29 novembre 2013, n. 32?

 "... Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2 bis del DPR n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente...

geom. Daniele Iselle

sentenza Corte Costituzionale 134 del 2014

Anche una pavimentazione in calcestruzzo può non essere sanabile dal punto di vista paesaggistico ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004

23 Mag 2014
23 Maggio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "7. Per quanto attiene il ricorso presentato con motivi aggiunti avverso il diniego di permesso in sanatoria va rilevato che a parere dei ricorrenti la Soprintendenza, nell’imporre la rimozione della pavimentazione in calcestruzzo, avrebbe espresso una motivazione contraddittoria rispetto al precedente parere del 02 febbraio 2011.

7.1 Dette eccezioni non possono essere condivise. Dalla lettura del parere sopra ricordato emerge come la Soprintendenza abbia ritenuto che la pavimentazione in calcestruzzo, proprio in considerazione della estensione della stessa (pari a 852,46 mq), determinasse una modifica strutturale dell’area non riconducibile alla nozione di “interventi di edilizia minore” che come è noto consentono l’autorizzazione postuma in sanatoria ai sensi del comma 4° dell’art. 167 del D. Lgs. 42/2004.

7.2 Come correttamente insegna un costante orientamento giurisprudenziale devono intendersi sanabili solo quegli interventi che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, ovvero siano consistiti nell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica ovvero, ancora, abbiano avuto ad oggetto lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 26-01-2012, n. 24).

7.3 Si è affermato altresì (si veda per tutti T.A.R. Campania Salerno Sez. I, 16-02-2012, n. 247), che “la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria in coerenza con la ratio della introduzione di tale divieto induce a ritenere che esulano dalla eccezione prevista dall'art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali)
gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici e di nuovi volumi ….”

7.4 Deve, inoltre, ritenersi inesistente la presunta contraddittorietà tra i pareri del 02/02/2011 e dell’08/10/2012 e, ciò, considerando come la conservazione del pavimento è stata ritenuta ammissibile solo nei tratti coincidenti con semplici marciapiedi esterni di limitata larghezza. Ne consegue come la motivazione della Soprintendenza, non solo deve ritenersi espressione di un potere di merito, ma nel contempo esprima  una motivazione strettamente correlata al caso concreto, nell’ambito del quale si è sancita l’incompatibilità di cui ora si controverte. Il ricorso proposto con i primi motivi aggiunti è, pertanto, infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

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