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Seminario su VAS e pianificazione urbanistica

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Il  prossimo seminario organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti - che avrà come oggetto “Le valutazioni ambientali nell'ambito della pianificazione urbanistica” e vedrà come relatori gli avvocati Paolo Piva e Alessandro Veronese - si svolgerà sabato 22 febbraio prossimo, dalle ore 10 alle ore 13, presso il Tribunale di Padova, Aula d’udienza della Corte d’Assise (“Falcone e Borsellino”), e consentirà il riconoscimento di tre crediti formativi per gli avvocati.

L'ingresso è libero e non è richiesta la preventiva iscrizione.

Appunto sugli interventi edilizi a favore dei disabili

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014
Alla luce della L. R. Veneto n. 14/2009 (c.d. primo Piano Casa), come modificata sia dalla L. R. Veneto n. 13/2011 (c.d. secondo Piano Casa) e sia dalla L. R. Veneto n. 32/2013 (c.d. terzo Piano Casa), la normativa di riferimento per usufruire delle agevolazioni concernenti l’aumento di volume delle abitazioni delle persone disabili sono rappresentati dagli artt. 11, 11-bis e 12 della L. R. Veneto n. 14/2009 i quali prevedono che: “Art. 11 - Interventi a favore dei soggetti disabili.

1. La realizzazione degli interventi di cui alla presente legge funzionali alla fruibilità di edifici adibiti ad abitazione di soggetti riconosciuti invalidi dalla competente commissione, ai sensi dell’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, dà diritto alla riduzione delle somme dovute a titolo di costo di costruzione in relazione all’intervento, in misura del 100 per cento, sulla base dei criteri definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 10, comma 2, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”. 

Art. 11 bis - Interventi finalizzati a garantire la fruibilità degli edifici mediante l’eliminazione di barriere architettoniche.

1. Le percentuali di cui all’ articolo 2, comma 1 e all’articolo 3 sono elevate fino ad un ulteriore 40 per cento per gli interventi da chiunque realizzati e finalizzati alla eliminazione delle barriere architettoniche di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c), della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 . 

2. La Giunta regionale, per le finalità di cui al comma 1, sentita la competente commissione consiliare, che si esprime entro sessanta giorni dalla richiesta trascorsi i quali si prescinde dal parere, integra le prescrizioni tecniche atte a garantire la fruizione degli edifici residenziali privati, degli edifici residenziali pubblici e degli edifici e spazi privati aperti al pubblico, approvate ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 , prevedendo la graduazione della volumetria assentibile in ampliamento in funzione del livello di fruibilità garantito dall’intervento. 

Art. 12 - Modifiche all’articolo 10 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”.

1. omissis

2. Al comma 3 dell’articolo 10 della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 , le parole “120 metri cubi” sono sostituite dalle parole “150 metri cubi”.  

 Di conseguenza gli interventi realizzati in attuazione della suddetta normativa, sia da parte dei soggetti disabili sia da parte dei soggetti invalidi civili con una invalidità superiore al 75 %, hanno diritto:

  • alla riduzione del costo di costruzione nella misura pari al 100 %, sulla base dei criteri definiti dalla D.G.R.V. n. 508 del 02.03.2010;
  • all’incremento volumetrico fino a 150 m.c.;
  • ad un ulteriore incremento volumetrico del 40 % se vi è la rimozione delle barriere architettoniche.

 dott. Matteo Acquasaliente

Il regolamento edilizio può prevedere una superficie minima per gli alloggi di nuova costruzione?

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 747 del 2014, che giunge a conclusioni opposte a quelle alle quali era arrivata la sentenza del TAR Veneto n. 1117 del 2012, che è stata conseguentemente riformata.

Il Comune di Colle Santa Lucia ha negato il permesso di costruire richiesto dalla una società  per la realizzazione di tre fabbricati residenziali, comprendenti ciascuno sei unità abitative, di dimensioni variabili da 56,36 mq a 59,41 mq. Il diniego è stato motivato con riferimento all’art. 3.3.1 del regolamento edilizio comunale, che, per le nuove unità abitative nelle costruzioni residenziali, stabilisce in 80 mq le dimensioni minime di superficie di pavimento, al netto delle murature e degli spazi accessori.

La società ha impugnato l’atto di diniego nonché la disposizione del regolamento edilizio, proponendo ricorso che il T.A.R. per il Veneto, sez. II, ha accolto con sentenza 6 agosto 2012, n. 1117. Secondo il Tribunale regionale, la norma impugnata esorbiterebbe dall’ambito suo proprio (che sarebbe quello di assicurare che gli alloggi rispettino i requisiti minimi di carattere igienico-sanitario ovvero rispondano a determinate caratteristiche tecnico-costruttive ovvero ancora assicurino determinate condizioni di sicurezza e vivibilità), per essere invece destinata ad arginare il fenomeno delle c.d. “seconde case”, con illegittima compressione del diritto di edificare degli operatori del settore.

Il Comune ha interposto appello contro la sentenza, contestando la tesi di fondo fatta propria dal T.A.R., e sostenendo che, anche alla luce del quadro legislativo della Regione Veneto, nella materia controversa all’Ente sarebbe consentito intervenire con regolamento edilizio.

Secondo la società vincitrice in primo grado e appellata davanti al Consiglio di Stato, le dimensioni prescritte dal regolamento edilizio (oggetto in passato, sul punto, di numerose, successive modiche) eccederebbero di gran lunga quelle previste dalle norme igienico-sanitarie per appartamenti destinati a stabile residenza (56 mq per alloggi abitati da quattro persone) e sarebbero molto superiori alla dimensione media dei bilocali idonei a incontrare oggi domanda sul mercato. Gli obiettivi sociali del Comune, semmai, andrebbero perseguiti con strumenti diversi (edilizia popolare o convenzionata; c.d. housing sociale; ricorso a politiche fiscali di incentivo o disincentivo);

nessuna norma di fonte primaria (in particolare: non l’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia; d’ora in poi: t.u.) attribuirebbe al Comune poteri come quello contestato in questa sede, né la disposizione regolamentare potrebbe avere – come invece sostiene l’Amministrazione – carattere pianificatorio, dovendo invece limitarsi a disciplinare le modalità costruttive del manufatto;

come interpretata dal Comune, la norma pregiudicherebbe gravemente la libera iniziativa economica e sarebbe smentita da una lettura operata alla luce delle disposizioni costituzionali (artt. 3, 41 e 47), delle regole di concorrenza dell’Unione europea, della più recente normativa di liberalizzazione (in particolare: l’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27). L’interpretazione comunale, ove ritenuta attendibile, dovrebbe condurre a sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme primarie attributive del potere;

in ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per contrasto con le disposizioni ministeriali (decreto ministeriale 5 luglio 1975), manifesta irragionevolezza e illogicità, carenza di motivazione (sarebbe inammissibile, perché postuma, quella recata dalla delibera consiliare n. 15 del 2012).

Il Consiglio di Stato ha accolto l'appello, ritenendo legittima la previsione del regolamento edilizio comunale: "3. Nel merito della questione, si controverte attorno all’ambito del regolamento edilizio comunale, in relazione alla contestata possibilità che questo possa disporre anche circa la superficie minima degli alloggi.

A norma dell’art. 4, comma 1, t.u. - che viene dunque in gioco -, “il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”.

Come è ben noto alle parti, il tema specifico è stato oggetto di una recentissima decisione della Sezione (6 maggio 2013, n. 2433) la quale, dopo avere ricostruito il quadro complessivo della normativa di settore, ha ritenuto che al regolamento edilizio dei comuni debba essere demandata la specificazione delle regole fondamentali dell'edificazione sotto i profili tecnici, estetici, funzionali, igienico-sanitari e - soprattutto, per quello che qui interessa - "di vivibilità" in senso ampio degli abitati.

L'amplissima latitudine della disposizione da sola giustificherebbe il potere regolamentare del Comune di intervenire sulla struttura minima degli alloggi.

4. Si tratta di conclusioni che ovviamente la Savim contesta sia in termini generali sia con riguardo alle particolarità del caso concreto, che presenterebbe significativi elementi di difformità da quello allora deciso (memoria del 7 gennaio 2014). La norma esaminata dalla sentenza, infatti, non si riferirebbe a tutti gli edifici, consentendo invece una diversificazione, e imporrebbe superfici minime (45 mq e 60 mq) inferiori a quella prescritta dal Comune di Santa Lucia.

Come appare dall’incipit della sentenza citata, il regolamento comunale vagliato in quella sede recava la prescrizione “per cui la superficie minima dei 45 mq doveva essere limitata al 25 % del totale degli alloggi di ogni nuovo fabbricato, mentre per il 75 % la superficie minima avrebbe comunque dovuto essere portata a 60 mq”.

Come nel caso presente, si trattava di una regolamentazione a carattere generale, concernente l’intero territorio comunale. Quanto alla differenziazione nell’ambito del patrimonio edilizio, questa nella specie non manca (per il riattamento dei volumi esistenti è previsto il limite minimo di 56 mq, al fine di orientare la domanda turistica verso il recupero degli immobili già edificati). La diversità delle superfici consentite è questione di fatto, frutto di una scelta politica del Comune, che neppure richiederebbe una specifica motivazione per il carattere generale dell’atto e che comunque, in concreto, non appare palesemente irragionevole, in relazione alle finalità che l’Ente ha inteso via via perseguire attraverso le successive modifiche alla propria normativa (e cioè “orientare un processo corretto di trasformazione urbanistica del territorio comunale, relativamente alla metratura minima delle unità abitative” - cfr. la relazione illustrativa alla variante del 2006, che ha portato a 80 mq la superficie minima - nel solco della dichiarata esigenza di “assicurare la realizzazione di appartamenti con spazi idonei alla residenza di carattere stabile”, poiché nel territorio comunale sarebbero “già più che sufficientemente presenti unità abitative di piccole dimensioni, adatte alla sola residenza stagionale” - cfr. la delibera di approvazione della variante del 2005, che aveva previsto il limite in 70 mq).

Non vi sono dunque ragioni perché il Collegio si debba discostare dal precedente richiamato.

5. D’altronde, gli ulteriori argomenti (per così dire, di sistema) proposti dalla società appellata non sono convincenti:

non vi sono elementi perché un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4 t.u. debba condurre a conclusioni diverse: gli artt. 3 e 47 Cost. non sono evocati a proposito, l’art. 41 Cost. pone all’iniziativa economica privata il limite dell’utilità sociale, che nella fattispecie il Comune intende tutelare; per le stesse ragioni, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in via subordinata dalla parte, è infondata;

la normativa dell’Unione europea, peraltro richiamata solo genericamente, tutela non l’iniziativa imprenditoriale in sé, ma la libertà di concorrenza, che qui non viene in questione;

l’art. 1 del decreto legge n. 1 del 2012, a parte la mancanza dei necessari decreti attuativi, ha il medesimo obiettivo di promuovere la concorrenza e fa comunque anch’esso salvo – come peraltro non potrebbe non fare – il limite dell’utilità sociale.

6. In definitiva, l’art. 4 t.u. legittima il Comune a stabilire la superficie di minima degli alloggi di nuova costruzione, poiché la “vivibilità” cui esso si riferisce va intesa – come detto – in senso ampio, comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente, nella sua sfera di competenza, ritenga rilevanti per il normale vivere civile dei propri cittadini, anche in termini di tutela del territorio e della qualità della vita. E questa “vivibilità” può legittimamente essere ricercata imponendo caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto, la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste inevitabilmente comportano.

7. Si osservi infine, per completezza, che la disciplina così disposta non ha nulla a vedere con quella oggetto del decreto ministeriale 5 luglio 1975, i limiti recati dal quale (anche per le superfici: art. 2) attengono solo ai “requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione” e sono dunque estranei alla fattispecie. L’art. 4, comma 1, t.u., d’altronde, distingue nettamente le normative igienico-sanitarie da quelle di vivibilità degli immobili.

8. Né si dica - come sostiene l’appellata (memoria del 12 dicembre 2013) - che la disposizione controversa, semmai, avrebbe dovuto essere adottata con gli strumenti urbanistici e non con il regolamento edilizio.

In realtà, una così netta e radicale distinzione tra regolamento edilizio e N.T.A. al P.R.G. sembra piuttosto artificiosa, quando invece sia l’uno (di natura normativo-regolamentare) che le altre (di carattere programmatorio-pianificatorio) recano prescrizioni destinate a integrarsi reciprocamente. E se il P.R.G. è lo strumento cui compete la disciplina differenziata del territorio, la disposizione concernente le superfici minime ammissibili delle singole unità, riguardando l'intero territorio comunale, ha carattere generale, per cui esattamente il Comune ha ritenuto di provvedere alla sua introduzione attraverso il regolamento edilizio.

9. La disposizione regolamentare impugnata, pertanto, deve dirsi legittima, come di conseguenza legittimo è il diniego opposto dal Comune alla domanda di rilascio del permesso di costruire formulata dalla Savim, che peraltro del presupposto di quel diniego era perfettamente a conoscenza al momento della domanda stessa.

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS n. 747 del 2014

Il TAR Veneto sugli immobili ante 1967

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 435 del 2014 (pubblicata su questo sito in data 6 febbraio 2014), aveva spiegato che anche gli immobili anteriori al 1967 possono in alcuni casi risultare abusivi.

Della questione si occupa anche la sentenza del TAR Veneto n. 121 del 2014.

Scrive il TAR: "4. Con il secondo motivo il ricorrente oppone la violazione dell’art. 31 della L. n. 1150/1942, in quanto le opere in questione erano state realizzate in epoca anteriore al 1967 e, pertanto, le stesse non necessitavano di alcun titolo edificatorio, atteso che l'art. 31 della legge n. 1150/1942, nella sua formulazione originaria, prescriveva l'obbligo della licenza edilizia solo nell'ambito dei centri abitati e ove esistesse il piano regolatore comunale. In ogni caso, secondo il ricorrente, la legge dell’epoca del compimento dell’abuso ipotizzava il pagamento di una mera sanzione pecuniaria.

4.1. Le tesi proposte sono destituite di fondamento, dal momento che anche ammettendo che la costruzione sia stata realizzata prima del 1967, era in vigore il Regolamento Edilizio del Comune di Venezia del 1929, che già da allora (come rilevato dall’amministrazione nel corso del procedimento), prescriveva la preventiva autorizzazione del Podestà per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale.
4.1.2. Né può fondatamente sostenersi che tale regolamento fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante.

4.2. Inoltre, non va dimenticato che le opere abusive in questione (bilancione da pesca, capanno attrezzi e pontile) insistono su suolo appartenente al demanio marittimo, e che, nel periodo ante 1967 in cui secondo il ricorrente sarebbero state realizzate le opere in questione, la necessità di un ulteriore titolo abilitativo era prevista dal Codice della Navigazione (del 1942) dove, all'art. 55, si prevedeva che “l'esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione del capo del compartimento”. Anche di tale autorizzazione dell’autorità marittima competente non v’è traccia alcuna nella documentazione depositata. Né tale titolo può ritenersi insito nelle varie concessioni lagunari di volta in volta rilasciate dal Magistrato delle Acque, le quali attribuiscono ai vari titolari succedutisi solo un titolo di disponibilità temporanea delle
opere in questione, senza interferire sul diverso piano della regolarità urbanistico-edilizia delle stesse (cfr. T.A.R. Veneto: 11 dicembre 2013 n.
1395; 28 novembre 2013 n. 1333)".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 121 del 2014

Perchè in materia di abusi edilizi si applicano le norme in vigore al momento del provvedimento repressivo

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

Lo spiega la sentenza del TAR Veneto n. 121 del 2014.

Scrive il TAR: "4.3. Ne consegue che, trattandosi di opere edilizie abusive ed avendo la violazione delle norme edilizie natura di illecito permanente, l’amministrazione, nell’esercitare il potere repressivo, è tenuta ad applicare la disciplina in vigore al momento dell’adozione del provvedimento. Essendo peraltro pacifico che, in ragione della natura, non propriamente sanzionatoria bensì ripristinatoria della legalità oggettiva violata dall’abuso, del provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, il principio dell’irretroattività delle sanzioni amministrative previsto dalla L. n. 689/1981 non sia applicabile alle misure repressive degli abusi edilizi".

avv. Dario Meneguzzo

Legittimato passivo all’ordine di demolizione di un immobile abusivo è l’utilizzatore anche se non proprietario

20 Feb 2014
20 Febbraio 2014

La sentenza del TAR Veneto n. 121 del 2014 si occupa anche della questione del soggetto destinatario dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo.

Scrive il TAR: "5. Con il terzo, il quinto ed il sesto motivo di gravame il ricorrente contesta sotto vari profili il provvedimento poiché rivolto, non nei confronti dell’originario costruttore delle opere, bensì dell’attuale titolare, privo di legittimazione passiva in quanto non responsabile dell’abuso. Tale argomento è privo di fondamento giuridico. Infatti, costituisce acquisizione giurisprudenziale consolidata che l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti eseguiti in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, costituisca condizione sufficiente per individuare il  destinatario dell’ordine di ripristino. In casi analoghi, la giurisprudenza (T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, 20 marzo 2003, n. 259; C. Si, 18  novembre 1998, n. 662) ha, infatti, chiarito come sia sufficiente ad individuare il legittimato passivo dell’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente realizzato sul demanio, o nella relativa fascia di rispetto, la qualità di utilizzatore dell’immobile medesimo, senza necessità di accertare non solo chi ha realizzato l’abuso, ma nemmeno il proprietario dell’area o del manufatto. Detto orientamento è condiviso da questa sezione (si vedano tra le ultime la già citata n. 1333/2013 e la n. 222/2013 aventi ad oggetto casi analoghi), atteso che la disponibilità dell’immobile consente all’interessato di porre fine alla situazione antigiuridica. Pertanto, nel caso di specie, legittimamente, in applicazione del disposto di cui all’art. 35 D.P.R. 380/01, è stata imposta al ricorrente la demolizione delle opere abusive in oggetto, eseguite su area demaniale".

Il Comune ha l’obbligo di rispondere alla richiesta di inibire o di annullare una DIA – SCIA

19 Feb 2014
19 Febbraio 2014

La sentenza del TAR Veneto n. 233 del 2014 contiene importanti precisazioni in materia di DIA o SCIA.

Nel caso in esame, il ricorrente aveva diffidato il Comune a intervenire in autotutela contro una DIA/SCIA ritenuta illegittima, ma il Comune di Vicenza aveva omesso di rispondere. Allora l'interessato ha proposto un ricorso al TAR ex art. 31 c.p.a. avverso il silenzio, ricorso che è stato in parte accolto.  

Scrive il TAR: "In via preliminare, occorre ricordare che, per effetto dell'art. 19, ultimo comma, della L. n. 241 del 1990, in caso di presentazione di una DIA o di una SCIA (segnalazione certificata di inizio attività), reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall'attività edilizia possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia di quest'ultima, esperire "esclusivamente", l'azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 31 del c.p.a.

Questa Sezione ha già affermato che la disposizione di cui al citato art. 19 vieta sostanzialmente l'impugnazione diretta della DIA o della SCIA - non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti - ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all'art. 31 c.p.a. (cfr. Sez. II: 05 marzo 2012, n. 298; 15 febbraio 2013, n. 230).

Nel caso di specie, le parti istanti, proprietarie di unità immobiliari site nelle immediate adiacenze dell'edificio oggetto dell'intervento edilizio, hanno presentato al Comune di Vicenza rituale diffida in data 20.06.2013 (cfr. il doc. 13 del resistente), volta a sollecitare l'azione repressiva del Comune stesso, a fronte di presunte illegittimità della DIA del 22.10.2012.

Con tale atto esse hanno, tra l’altro, evidenziato come il progettato intervento di ampliamento ai sensi della legge regionale sul Piano Casa non sia ammissibile, stante il contrasto con l’art. 9, comma 1, lettere c) ed e), relativo all’inapplicabilità dei benefici previsti dalla legge agli edifici oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici ed agli edifici abusivi, e come pertanto sia mendace l’attestazione del progettista di conformità del progetto alle norme urbanistiche.

Dall’esame della documentazione in atti è possibile verificare come nessuna istruttoria sia stata posta in essere dal Comune a seguito della presentazione della diffida del 20 giugno 2013 che ha originato il presente ricorso; essendo stata solo svolta un’ istruttoria in relazione ad una precedente denunzia (cui poi si è innestata quella di abuso edilizio del 10 giugno 2013), senza peraltro, anche in tal caso, che si sia giunti nei termini alla conclusione del procedimento.

Ciò premesso, non appare dubitabile che il Comune di Vicenza debba - previo avviso di avvio di procedimento agli interessati e previa confutazione, ove ne sussistano i presupposti, delle ragioni dagli stessi sostenute - concludere con un provvedimento espresso il procedimento conseguente alla diffida presentata dai ricorrenti in data 20 giugno 2013 (la quale ricomprende anche la denuncia di abuso edilizio del 10 giugno 2013), e ciò sulla base dell'art. 2 della L. n. 241 del 1990 che, appunto, impone alle Pubbliche Amministrazioni il dovere di concludere un procedimento conseguente obbligatoriamente ad un’istanza di parte mediante un provvedimento espresso".

Il TAR evidenzia poi che la richiesta di attivare l'autotutela avverso una DIA/SCIA  è un caso diverso da tutti gli altri casi di richiesta di intervenire in autotutela, nei quali, invece, non c'è l'obbligo di rispondere: "Va peraltro considerato che, pur se la richiesta di attivazione dell’autotutela di norma non comporta un obbligo di provvedere in capo alla P.A., lo strumento di tutela giudiziale di cui all'ultimo comma dell'art. 19 della L. n. 241 del 1990 ed all'art. 31 del c.p.a., ha carattere di esclusività - come già sopra ricordato - sicché la mancata conclusione del procedimento avviato a seguito della diffida dei ricorrenti finirebbe di fatto per privare gli interessati di ogni tutela davanti al giudice, con palese violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24, 111 e 113 della Costituzione".

Il ricorrente aveva anche chiesto che il TAR dichiarasse fondata la sua pretesa di ottenere dal Comune l'annullamento, ma il TAR ha ritenuto di non potere spingersi fino a questo punto: "3. Con riguardo, invece, alla domanda di accertamento della fondatezza della pretesa dei ricorrenti ad un intervento repressivo del Comune (in ragione delle asserite false attestazioni del progettista) o all’annullamento in autotutela della DIA, se ne deve ritenere l’inammissibilità.

Infatti, l'art. 31, comma 3, c.p.a., prevede che nel giudizio sul silenzio della P.A., il giudice possa accertare la fondatezza della pretesa, qualora " (....)non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione".

Nel caso di specie, il Comune di Vicenza (a prescindere dalla discrezionalità insita in un eventuale provvedimento di annullamento in autotutela, tenuto conto che nel caso di specie gli interessi dei destinatari debbono ricevere adeguata considerazione, accanto all’interesse pubblico, essendo stata ultimata la costruzione del nuovo edificio) dovrà, innanzitutto, come sopra accennato, effettuare l'attività di verifica delle falsità progettuali denunciate e della legittimità delle iniziative edilizie di cui alla DIA del 22 ottobre 2012, sicché non pare ammissibile che il Collegio possa in qualche modo sostituirsi alla Pubblica Amministrazione, nel compimento di un'istruttoria alla stessa esclusivamente riservata".

sentenza TAR Veneto n. 233 del 2014

Chi può proporre ricorso in una A.T.I.?

19 Feb 2014
19 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 17 febbraio 2014 n. 226, dichiara che sia la mandante sia la mandataria di un’A.T.I. hanno la legittimazione attiva d impugnare gli atti della gara e/o a proporre ricorso anche in assenza di un mandato espresso in tal senso: “7.2. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio, alla singola impresa in associazione – sia essa mandante o mandataria e sia che il raggruppamento sia stato già costituito al momento dell’offerta o debba costituirsi all’esito dell’aggiudicazione – deve essere riconosciuta la legittimazione ad agire in giudizio (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 8 febbraio 2013 n. 714; Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 2012, n. 3314; Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 208, n. 4931).

7.3. Il raggruppamento temporaneo di imprese non istituzionalizza, infatti, un soggetto diverso dalle singole imprese che aggregano le proprie potenzialità economiche, con capacità di rappresentanza degli interessi del gruppo a mezzo di organi all’uopo costituiti. La singola impresa è, quindi, titolare in corso di gara di una posizione di interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, che può tutelare anche in caso di inerzia delle altre imprese associate a proporre congiunta impugnativa.

7.4. Il gravame proposto dalla singola impresa o, come nel caso di specie, da due sole imprese in associazione non è, inoltre, sfornito di interesse al ricorso.

La presentazione dell’offerta da parte del raggruppamento da costituire reca invero l’impegno reciproco delle imprese in associazione, in caso di aggiudicazione della gara, a conferire mandato ad una di esse, qualificata come capogruppo, alla stipula del contratto. In caso di esito favorevole dell’impugnativa, l’assolvimento di un tale obbligo è esigibile nei confronti delle altre imprese associate, e, in caso di inadempimento, l’impresa che aveva prestato il consenso alla costituzione dell’a.t.i. è esposta a possibili pretese risarcitorie.

7.5. Deve pertanto affermarsi la legittimazione delle singole imprese odierne ricorrenti a proporre ricorso avverso la disposta esclusione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 226 del 2014

Quando un “errore grave” incide sulla partecipazione ad una gara pubblica?

19 Feb 2014
19 Febbraio 2014

Nella medesima sentenza n. 226/2014, il T.A.R. Veneto si occupa anche dell’art. 38, c. 1, lett. f) del D. Lgs. n. 163/2006 secondo cui: “1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: (...) f) che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante” affermando che: “8.4. È ben vero, come già affermato da questa stessa Sezione con sentenze n. 703 del 2012 e n. 96 del 2013, che il disposto di cui all’art. 38, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui non consente l’affidamento di appalti pubblici a coloro che «hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante», consente l’esclusione per difetto del requisito soggettivo in parola, pur in mancanza di un accertamento giurisdizionale dei fatti ritenuti rilevanti per la formulazione del giudizio negativo in ordine all’attività professionale svolta dalla concorrente medesima.

8.5. Del pari, è altrettanto vero che con le pronunce citate si è affermato che il comportamento oggetto di valutazione, in tale specifica ipotesi, non deve afferire necessariamente ad un precedente rapporto contrattuale intrattenuto con la «stessa stazione appaltante», ben potendo essere acquisito aliunde, ed accertato dall’Amministrazione, appunto, «con qualsiasi mezzo di prova». Sicché l’«errore grave» a tal fine rilevante può dunque venire in considerazione in relazione a tutta l’attività professionale dell’impresa precedentemente svolta, in quanto elemento sintomatico della perdita dei requisiti di capacità e affidabilità professionale a fornire determinate prestazioni, dirette al soddisfacimento degli interessi di rilevanza pubblica di volta in volta perseguiti dalla stazione appaltante”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 226 del 2014

Il T.A.R. Veneto mette la parola fine sulla tematica degli oneri specifici?

19 Feb 2014
19 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 17 febbraio 2014 n. 228, sembra chiarire definitivamente che l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendale, sia negli appalti di lavori sia in quelli di servizi e/o forniture, determini l’automatica esclusione dell’offerente che li ha omessi a prescindere da una specifica previsione in tal senso della lex specialis: “10.1. Ed invero, il Collegio ritiene di dover confermare l’orientamento interpretativo adottato da questa Sezione con sentenza 8 agosto 2013 n. 1050 e ribadito, da ultimo, con sentenza n. 1388 del 2013 e ciò, pur tenendo in considerazione le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato in sede di riforma della citata sentenza n. 1050 del 2013 (cfr. sent. CdS, V, 9.10.2013 n. 4964). Infatti, alla luce del quadro normativo di riferimento, non appare condivisibile l’assunto secondo il quale dovrebbe escludersi «che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici siano tenute ad indicare nella propria offerta, a pena di esclusione, gli oneri di sicurezza aziendale» (così cfr. sent. CdS, V, 9.10.2013 n. 4964, §.1.).

10.2. Sul punto il Collegio osserva che è ben vero che l’art. 87, comma 4, del codice degli appalti si riferisce letteralmente solo ai servizi e alle forniture, ma non così il precedente art. 86, comma 3-bis, che dispone che “gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente….al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”. Del pari l’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008 precisa che “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.” Dal combinato disposto delle norme citate, dunque, non può trarsi alcun argomento in ordine ad una pretesa differenziazione in ordine all’onere di specificazione dei costi di sicurezza aziendali (o specifici) fra appalti di lavoro, da un lato, e appalti di servizi e forniture, dall’altro.

10.3. Né a tal fine può soccorrere la disposizione di cui all’art. 100 del d.lgs. n. 81/2008 posto che la quantificazione rimessa al piano di sicurezza e coordinamento, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 del codice dei contratti pubblici, non può invero che riferirsi ai soli oneri di sicurezza per le interferenze, e ciò sia perché detti oneri sono necessariamente individuati dall’Amministrazione, sia perché essi soggiacciono – ferma la possibilità di integrazione migliorativa - al divieto di compressione.

10.4. Al riguardo si rileva che gli oneri della sicurezza - sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture - devono essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività delle imprese, che devono essere indicati dalle stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura (Consiglio di Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421).

10.4. Ad avviso del Collegio, dunque, le imprese partecipanti ad una gara d’appalto di lavori devono necessariamente indicare nell’offerta, opportunamente scorporati onde consentire l’esatta valutazione della congruità dell’offerta stessa, anche gli importi relativi agli oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali), la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica: di tali oneri l’ordinamento prevede l’indicazione con norme immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86, comma 3-bis, del d. lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d. lgs. n. 81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di gara (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, sez. III, 18 ottobre 2013, n. 5070).

10.5. L’indicazione degli oneri aziendali costituisce pertanto un elemento essenziale dell’offerta, la cui mancanza rileva (quale specifica di esclusione) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del d. lgs. n. 163/2006 determina un’insanabile incompletezza dell’offerta medesima “in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa” (TAR Lombardia Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso, tra le più recenti, TAR Lazio Roma, sez. II ter, 7.01.2013, n. 66; TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 14.01.2013 n. 56)” ed ancora che: “10.7. Infatti, come di recente affermato dal Consiglio di Stato, «nelle valutazioni di anomalia le stazioni appaltanti devono tenere conto dei costi relativi alla sicurezza che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dell’appalto – art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006: è evidente che un inserimento di parte di detti costi nella voce “costi vari” oppure “costi generali”, deputata a raccogliere una congerie di spese del tutto disomogenee elude completamente il compito di verifica dell’ente aggiudicatore» (così Cons. St., sez. V, 19 luglio 2013, n. 3929, ).

10.8. In conclusione, deve escludersi che gli oneri della sicurezza aziendali possano essere inclusi nell’ambito delle spese generali così come essere calcolati, al momento della indizione della gara, dalla stessa stazione appaltante in misura eguale per ogni operatore economico, dal momento che la loro misura non può che essere quantificata da ciascuna impresa in relazione alla rispettiva offerta economica”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 228 del 2014

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