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Cosa sono i codici etici

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5375 del 2013 si occupa anche dei codici etici: "I codici etici sono documenti ufficiali dell’ente che contengono l’insieme dei diritti, dei doveri e delle responsabilità dell’ente nei confronti dei “portatori d’interesse”: i c.d. stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, pubblica amministrazione, azionisti, mercato finanziario, ecc.). Tali codici mirano a raccomandare, promuovere o vietare determinati comportamenti, anche non previsti a livello normativo, prevedendo sanzioni proporzionate in caso di violazioni.

Trattandosi di documenti voluti ed approvati dal massimo vertice dell’ente imprenditoriale, essi sono vincolanti per tutti i soggetti inseriti organizzazione aziendale.

Come notano Sinergie e Cpl Condoria, i codici etici rilevano ai fini dell’esonero dell’impresa da responsabilità penale ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001.

Tuttavia non è corretto circoscrivere la rilevanza di tali documenti allo stretto ambito penale.

E’ infatti certamente possibile che una violazione del codice etico non integri gli estremi di un reato. Qui, allora, si coglie l’utilità del codice, la quale consiste nel regolamentare e rendere vincolanti comportamenti altrimenti non coercibili, attribuendo dunque all’ente il potere di reagire alle infrazioni commesse, mediante l’applicazione di sanzioni disciplinari o contrattuali. Il tutto conformemente alla natura di atto di autonomia privata del codice etico, il quale vincola i dipendenti in virtù dei doveri inerenti la subordinazione propria del rapporto lavorativo ed i terzi che, a vario titolo, entrano in contatto con l’impresa, mediante richiamo al codice aziendale, legittimando conseguentemente l’attivazione dei conseguenti rimedi contrattuali in caso di violazione”.

dott. Matteo Acquasaliente

Nota sulla improcedibilità o sulla nullità dell’appello nel processo amministrativo

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

 Segnaliamo questo passaggio della sentenza del Consiglio di Stato n. 5375 del 2013 per quanto concerne l’improcedibilità o la nullità dell’appello: “2.1.1 Per la procura alle liti, è agevole constatare l’infondatezza dell’eccezione ponendo a mente il disposto dell’art. 24 cod. proc. amm., secondo cui la procura rilasciata “per agire e contraddire davanti al giudice si intende conferita anche per proporre motivi aggiunti”. Questa norma ha, come è noto, carattere generale, ed è innanzitutto valevole per il giudizio di primo grado, nel quale i motivi aggiunti possono anche comportare l’ampliamento dell’oggetto della controversia (si tratta dei c.d. motivi “nuovi”), essendo precipuamente finalizzata a dissipare i dubbi sorti in passato sulla proponibilità degli stessi anche in assenza di procura alle liti distinta rispetto a quella contenuta nel ricorso introduttivo. A fortiori dunque la stessa è applicabile ai motivi aggiunti proposti avverso la sentenza successivamente all’appello nei confronti del dispositivo, visto che quest’ultimo deve contenere un’espressa “riserva” dei primi (art. 119, comma 6, cod. proc. amm., richiamato per il c.d. “rito appalti” dal comma 11 dell’art. 120 del medesimo codice del processo).

2.1.2 Quanto all’esposizione dei fatti occorre innanzitutto osservare che è certamente indubbio che l’appello avverso il dispositivo della sentenza di primo grado ha carattere esclusivamente cautelare, ciò emergendo in modo inconfutabile dalla lettura delle disposizioni processuali da ultimo richiamate. La conseguenza che da queste ultime la costante giurisprudenza di questa Sezione ha tratto è che tale mezzo diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse una volta esaurita la fase cautelare ed a seguito della rituale proposizione di motivi aggiunti avverso la sentenza (da ultimo: sentenza 15 luglio 2013, n. 3843; in precedenza, sotto il vigore dell'art. 23-bis, comma 7, l. n. 1034/1971: sentenze 21 ottobre 2003, n. 6523 e 23 gennaio 2000, n. 327).

Se tuttavia questa è la conseguenza, è indubbio che il sopravvenuto difetto di interesse, se rende improcedibile l’appello, non ne comporta certo la nullità, rendendolo tamquam non esset, con l’effetto di travolgere anche l’esposizione dei fatti in esso contenuta.

Non bisogna dimenticare che le forme del processo ed i requisiti contenutistici degli atti processuali sono dettati in vista del raggiungimento di uno scopo (art. 156, comma 2, cod. proc. civ.). Ora, lo scopo tipico dell’esposizione dei fatti è quello di far comprendere alle parti ed al giudice adito i termini della controversia, così da consentire alle prime l’articolazione compiuta delle proprie difese ed al secondo di esercitare con cognizione di causa i propri poteri decisori. Ebbene, una volta introdotti i fatti attraverso l’appello contro il dispositivo, il suddetto scopo è definitivamente raggiunto, anche se non vi è più luogo ad esaminare i motivi in esso contenuti. L’improcedibilità infatti concerne solo questi ultimi, come si evince anche dall’art. 35, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., in cui si precisa che tale statuizione va emessa quando nel corso del giudizio sopravviene “il difetto di interesse delle parti alla decisione”, e cioè all’esame nel merito dei motivi di impugnazione. E’ vero poi che si usa dichiarare l’improcedibilità dell’intero atto, ma si tratta evidentemente di una sineddoche, giacché solo i motivi di impugnativa costituiscono la causa petendi sulla quale la decisione deve essere resa.

Come accennato sopra, diverso sarebbe stato il discorso se l’appello fosse stato dichiarato nullo, poiché con tale rilievo si accerterebbe l’assoluta improduttività di effetti dello stesso e dunque anche dell’esposizione dei fatti in esso contenuta. Ma tale nullità discende da un vizio intrinseco all’atto, ed in particolare, come si evince anche dall’art. 44, comma 1, lett. b) cod. proc. amm., dall’ “incertezza assoluta (…) sull’oggetto della domanda”, in ipotesi determinata dall’oscura o carente esposizione dei fatti di causa, tale appunto da impedire alle parti ed al giudice di comprendere i termini della controversia. Rispetto a tale vizio è cosa ben diversa la dichiarazione di improcedibilità, la quale consegue ad un elemento esterno all’atto, vale a dire l’interesse alla pronuncia nel merito, del tutto inidoneo ad inficiare il contenuto dell’atto medesimo.

Ed alla luce di quest’ultima considerazione si rende manifesto l’eccessivo formalismo della tesi qui in esame, poiché il suo accoglimento condurrebbe ad una pronuncia in rito ancorché nessuna concreta lesione al diritto di difesa sia stato arrecato, come del resto si evince dalle compiute difese articolate dalla stessa nel presente giudizio d’appello”.

dott. Matteo Acquasaliente

Allevamenti intensivi, odori ed ordinanze del Sindaco

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 4687 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Con riferimento alle previsioni dell’art. 216, cit., l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri” (di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”; detti interventi hanno concretizzato “le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”; mentre la sanzione comminata in forza della mancata realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la loro esecuzione ed efficienza”.

 Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999, vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che anch’esse debbano essere contenute entro limiti di tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo dell’Amministrazione locale.

 E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva. L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15 febbraio 2001, n. 766); inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V, 14 settembre 2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V, 19 aprile 2005, n. 1794).

 Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit., riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato, V, 24 marzo 2006, n. 1533).

sentenza CDS 4687 del 2013

Un esempio di motivazione fatta male in materia ambientale

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1266 del 2013 è interessante perchè contiene un esempio di motivazione fatta male in un provvedimento in materia ambientale.

In verità capita spesso di leggere dinieghi in materia ambientale che sono vuoti di contenuto e che potrebbero sintezzarsi con "no, perchè no", al di là del numero di parole usate per (non) motivare.

Scrive il TAR: "1.1 E’ necessario preliminarmente evidenziare come il Comune di Venezia, nel recepire il parere negativo della Commissione per la Salvaguardia, abbia fondato il provvedimento di diniego sulla base della sola considerazione che l’intervento costituirebbe “Eccessivo stravolgimento edilizio ed impatto ambientale”.
1.2 E’ del tutto evidente che la motivazione sopra citata non consente di ripercorrere le reali ragioni di incompatibilità con l’ambiente circostante e, ciò, peraltro considerando che, nel caso ora sottoposto all’esame di questo Collegio, si sia in presenza della chiusura di un terrazzino mediante la realizzazione di una struttura in vetro. Dalle fotografie allegate è possibile condividere le argomentazioni di parte ricorrente e ritenere che la struttura di cui si tratta sia del tutto conforme alle strutture esistenti, senza che, in relazione alle stesse, sussista alcuna discontinuità.
1.3 Si consideri altresì come, sempre dal contenuto del provvedimento impugnato, non sia possibile evincere in relazione a quali aspetti, e a quali circostanze, detto giudizio di incompatibilità sia stato pronunciato; se riferito ad esempio ai materiali o a qualche elemento della struttura o, ancora, alla stessa opera nel suo complesso.
1.4 Detta assenza di elementi risulta stridente se rapportata alla terminologia usata dalla Commissione di Salvaguardia e, ciò, nella parte in cui ha sancito che la costruzione della veranda abbia determinato uno stravolgimento edilizio ed un impatto ambientale, in quanto tale definito “eccessivo”.
2. Sul punto è possibile applicare quanto disposto da un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda TAR Campania, Salerno sez. I 20 Giugno 2012 n. 1236) nella parte in cui ha sancito che, in caso di vincolo sopravvenuto - circostanza quest’ultima pacificamente riconosciuta dalle parti in causa -, “l’accertamento della Soprintendenza deve essere concreto e approfondito e nelle motivazioni dell’atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell’intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati (nel caso di specie la sostanziale valutazione di automatica non sanabilità del manufatto perché contrastante con le prescrizioni del vincolo priva addirittura della descrizione delle concrete caratteristiche dell’edificio, non soddisfa certamente i requisiti motivazionali necessari per il diniego di sanatoria di fabbricati edificati prima dell’apposizione del vincolo essendo per contro richiesta una motivazione più puntuale nella quale si dia conto della reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali ricadono e delle ragioni di incompatibilità dell’opera con il contesto ambientale vincolato)”.
2.1 Analogo orientamento era vigente nel momento in cui il provvedimento impugnato veniva emanato e, ciò, considerando come si fosse già previsto (si veda T.A.R. Sardegna, 15-03-1995, n. 348) che “Poichè la l. 28 febbraio 1985 n. 47 e la l. reg. Sardegna 11 ottobre 1985 n. 23, nel prevedere la sanatoria delle opere abusive realizzate entro il 1 ottobre 1983, hanno anche introdotto una serie di limitazioni alla stessa al fine di non consentire che l'edificazione in determinate aree contrastasse con rilevanti o prevalenti interessi pubblici, l'amministrazione comunale che intenda rigettare una domanda di sanatoria ha l'obbligo di indicare in motivazione la norma o il principio che rende insanabile l'opera abusiva, vertendo in materia di stretta interpretazione, in quanto i casi di esclusione dalla sanatoria sono stati previsti in maniera espressa e tassativa al fine di rendere quanto più possibile esteso il ricorso alla sanatoria e quanto più chiara l'individuazione di assoluta in edificabilità”.

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1266 del 2013

Impianti di distribuzione di carburanti lungo le strade di tipo B

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 5344 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Nel merito della vicenda, la controversia riguarda, in sostanza, le prescrizioni tecniche da osservarsi per consentire lo spostamento di un impianto di distribuzione di carburanti lungo la strada statale Domiziana. Per riassumere in estrema sintesi la normativa di settore, viene in gioco, anzitutto, l’art. 2 del codice, che detta la definizione e la classificazione delle strade. Ai sensi del comma 8 dello stesso art. 2, la classificazione delle strade statale spetta all’Autorità governativa (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti). Peraltro, nelle more della  classificazione (ex art. 13, comma 5, del codice), “le disposizioni relative alla sicurezza della circolazione connesse alla classificazione tecnico-funzionale delle strade di cui  all'articolo 2, comma 2, del codice, si applicano alle strade esistenti che hanno caratteristiche corrispondenti a quelle individuate dall' articolo 2, comma 3, del codice per ciascuna classe di strada“ (art. 2, comma 8, del regolamento). A questo proposito l’A.N.A.S., con la circolare n. 3 del 2008, ha dettato le norme tecniche per la redazione dei piani delle localizzazioni delle aree di servizio sulle autostrade e i raccordi autostradali in gestione diretta, cioè a dire su strade di tipo A; prescrizioni che in un secondo momento – con la circolare n. 27740 del 2009 – ha esteso alle strade di tipo B. Il T.A.R. ha ritenuto illegittima tale estensione per violazione dell’art. 61, comma 1, del regolamento. Tale disposizione si limiterebbe a prevedere quali caratteristiche tecniche debbano essere rispettate in caso di realizzazione di aree di servizio destinate non soltanto al rifornimento, ma anche al ristoro degli utenti. Non effettuando, però, alcun tipo di equiparazione fra i due tipi di strade per i rimanenti profili, non potrebbe costituire il presupposto normativo per estendere alle strade di tipo B la disciplina dettata per le strade di tipo A. Non qui sta tuttavia – ad avviso del Collegio – il nocciolo della questione. Infatti, l’ordinanza dell’A.N.A.S. n. 112 del 2010 non ha proceduto a una classificazione del tratto di strada statale controverso (cosa che certo non avrebbe potuto fare), ma, in attuazione della norma transitoria ora richiamata (art. 2, comma 8, del regolamento) ha reso applicabili nel tratto medesimo le disposizioni volte a garantire la sicurezza della circolazione nelle strade di tipo B. Le tesi che tale ordinanza sarebbe illegittima, perché non si limiterebbe ad avere un carattere concretamente provvedimentale e non sarebbe stata adottata dagli organi centrali dell’Azienda, sono apodittiche, non trovano fondamento nella normativa vigente e dunque non possono essere accolte. Ma allora, per dare soluzione alla controversia, già sarebbe sufficiente fare riferimento all’art. 2 del codice; il quale, alla descrizione delle caratteristiche strutturali proprie delle diverse categorie di strade, aggiunge delle disposizioni prescrittive, stabilendo, per la strada extraurbana principale – B, che questa “deve essere attrezzata con apposite aree di servizio, che comprendano spazi per la sosta, con accessi dotati di corsie di decelerazione e di accelerazione” (comma 3, sub B), ultimo periodo). La normativa di dettaglio svolge questi principi. Le aree di servizio sono pertinenze stradali di servizio (art. 24, comma 4, del codice). A loro volta, “gli impianti di distribuzione di carburante sono da considerare parte delle aree di servizio” (art. 61, comma 1, primo periodo, del regolamento). In quanto pertinenze di servizio, le aree di servizio – poiché assoggettate alla disciplina tipica delle strade di tipo (A e) B – “devono essere ubicate su apposite aree, comprendenti lo spazio idoneo per i veicoli in movimento ed in sosta, e provviste di accessi separati con corsie di decelerazione ed accelerazione per l'entrata e l'uscita dei veicoli“ (art. 60, comma 2, del regolamento). Sulla scorta di tali premesse, appare corretta la tesi – che inoltre meglio tutela l’interesse generale a garantire la sicurezza della circolazione – secondo cui sulle strade di tipo B, e di conseguenza pure sulle strade a quelle equiparate quoad effectum (quale quella in questione), gli impianti di distribuzione di carburante devono essere sistemati in apposite aree di servizio, per accedere o abbandonare le quali occorre osservare determinate prescrizioni tecniche (corsie di decelerazione e di accelerazione). Sussiste, in definitiva, quell’esigenza di adeguamento del progetto che l’A.N.A.S. ha inteso far valere con la nota impugnata. Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è fondato e va pertanto accolto, con annullamento della sentenza impugnata e conferma del provvedimento oggetto del ricorso di primo grado".

sentenza CDS 5344 del 2013

Oneri per la sicurezza ed appalti di servizi

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 13 novembre 2013 n. 1255, torna ad occuparsi di oneri specifici con riguardo alla categoria degli appalti di servizi elencati nell’allegato II B del D. Lgs. 163/2006.

Chiarito che l’art. 20 del D. Lgs. 163/2006 prevede che: “1. L'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B è disciplinata esclusivamente dall'articolo 68 (specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati).

2. Gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice”, il T.A.R. giunge a ritenere che, contrariamente a quanto affermato come “regola generale” nella sentenza n. 1248/2013 commentata nel post del 15.11.2013, la mancata indicazione degli oneri specifici per la categoria di appalti di servizi de quibus, non determina l’esclusione della gara: “considerato che l’art. 20, I comma del DLgs n. 163/2006 stabilisce che “l’aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell’allegato II B è disciplinata esclusivamente dall’art. 68 (specifiche tecniche), dall’art. 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall’art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati)”: norma, questa, da integrarsi con il successivo art. 27 il quale dispone che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”;

che, pertanto, all’appalto in esame, ricadente nell’allegato II B al DLgs n. 163/2006, non sono applicabili gli artt. 86, comma 3-bis e 87, comma 4 del codice dei contratti, non esprimendo, le norme in questione, principi generali nè qualificandosi come norme di principio (CdS, V, 6.8.2012 n. 4510);

che nemmeno è applicabile il disposto dell’art. 26, VI comma del DLgs n. 81/2008 che, ribadendo pedissequamente il contenuto dell’art. 86, comma 3 bis del DLgs n. 163/2006, afferma che “gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente….al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”: si tratta, com’è evidente, di una norma di carattere generale riguardante gli appalti, che recede di fronte alla norma eccezionale di cui al citato art. 20, I comma;

che, peraltro, la circostanza che nel caso di specie non era richiesta l’indicazione degli oneri di sicurezza aziendale è ulteriormente avvalorata dalla formulazione del modulo prestampato per l’offerta economica che pretendeva esclusivamente l’indicazione del prezzo unitario senza richiedere, invece, la specificazione dei costi di sicurezza;

che l’infondatezza della seconda censura è conseguente alle considerazioni innanzi espresse: non dovendosi, infatti, precisare in sede di offerta gli importi relativi agli oneri di sicurezza da rischio specifico (in quanto, appunto, le relative norme che ne prevedono l’indicazione erano, nella fattispecie, inapplicabili), l’Amministrazione, richiedendo successivamente l’indicazione dei costi di sicurezza, non ha violato l’art. 46, comma 1-bis del codice contratti, nè in tal guisa ha esercitato il potere di “soccorso istruttorio”;

che, dunque, il ricorso è infondato e va respinto, le spese potendo compensarsi in ragione della particolarità delle questioni trattate”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1255 del 2013

Spending review e strutture ospedaliere private accreditate

19 Nov 2013
19 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza del 13 novembre 2013 n. 1258, si occupa delle strutture ospedaliere private accreditate, soffermandosi in particolar modo sia sulla DGRV n. 832 del 15.05.2012 riguardante l’“Assistenza ospedaliera e specialistica ambulatoriale erogata nei confronti dei cittadini residenti nel Veneto: criteri e determinazione dei volumi di attività e dei tetti di spesa degli erogatori ospedalieri privati accreditati equiparati e non equiparati al pubblico, per l'anno 2012, per la definizione degli accordi di cui all'art. 8 quinquies D. Lgs n. 502/1992. Individuazione delle funzioni a valenza provinciale e sovra provinciale ed assegnazione delle risorse economiche per lo svolgimento delle stesse” sia sulla DGRV n. 2097 del 17.12.2012 concernente il: Rideterminazione dei tetti di spesa per l'assistenza ambulatoriale degli erogatori ospedalieri privati accreditati ed ulteriori disposizioni a parziale modifica della DGR n. 832 del 15.5.2012. Rideterminazione dei tetti di spesa per l'attività di riabilitazione extraospedaliera presso Istituti e Centri, ex art. 26 della L. 833/78, accreditati, a parziale modifica della DGR n. 990 del 5.6.2012”.

Si riporta il passo della sentenza ove il Collegio ripercorre l’iter normativo che disciplina il settore de quo: “Va premesso che il legislatore con gli artt. 32, comma 8, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, 12, comma 3, del Dlgs 23 dicembre 1992, n. 502 e 39 del Dlgs. 15 dicembre 1997, n. 446, come è stato rimarcato anche dalla più recente giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 12 aprile 2012, n. 3; id. 2 maggio 2006, n. 8; Consiglio Stato, sez. V, 25 gennaio 2002, n. 418; Corte Cost. 26 maggio 2005, n.200; id. 28 luglio 1995, n. 416; id. 23 luglio 1992, n. 356), ha disposto che, in condizioni di scarsità di risorse e di necessario risanamento del bilancio, anche il sistema sanitario non può prescindere dall’esigenza di perseguire obiettivi di razionalizzazione finalizzati al raggiungimento di una situazione di equilibrio finanziario attraverso la programmazione e pianificazione autoritativa e vincolante dei limiti di spesa dei vari soggetti operanti nel sistema.

Le deliberazioni impugnate costituiscono espressione di tale potere programmatorio che si identifica nella fissazione del tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario per singola istituzione o per gruppi di istituzioni e nella determinazione dei preventivi annuali delle prestazioni.

Si tratta dell’esercizio di un potere connotato da ampi margini di discrezionalità, posto che deve bilanciare interessi diversi e per certi versi contrapposti, ovvero l’interesse pubblico al contenimento della spesa, il diritto degli assistiti alla fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, le aspettative degli operatori privati che si muovono secondo una legittima logica imprenditoriale e l’assicurazione della massima efficienza delle strutture pubbliche che garantiscono l'assistenza sanitaria a tutta la popolazione secondo i caratteri tipici di un sistema universalistico.

Ciò premesso, in ordine al dedotto difetto di motivazione, va osservato che la deliberazione con la quale sono stati fissati i criteri e determinati i volumi di attività e i tetti di spesa degli erogatori ospedalieri privati, non necessita di una specifica motivazione oltre quella che può ricavarsi dai criteri generali, perché, essendo un atto a contenuto generale, soggiace all’art. 3, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (mentre costituisce un atto plurimo solo per quanto attiene alla determinazione dei budget riconosciuti ai singoli operatori: cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 2 maggio 2006, n. 8; Tar Lazio, Roma, Sez. III, 5 aprile 2006, n. 2427).

Orbene, il Collegio ritiene che la deliberazione e gli atti dalla stessa richiamati (in particolare il nuovo Piano regionale socio sanitario approvato con la deliberazione della Giunta regionale n. 15/DDL del 26 luglio 2011), contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, rechino una sufficiente indicazione degli obiettivi, delle linee di indirizzo e dei criteri generali seguiti nell’impostazione della programmazione regionale, in ordine ai profili oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti.

Infatti la deliberazione sottolinea che il perseguimento degli interessi collettivi e pubblici compresenti nella materia non può restare subordinato e condizionato agli interessi privati i quali, per quanto meritevoli di tutela, risultano cedevoli; che vi è la necessità di rivedere l’offerta complessiva delle prestazioni messe a disposizione dai soggetti privati utilizzando al meglio le potenzialità delle strutture pubbliche al fine di garantire il loro massimo rendimento a fronte degli ingenti investimenti effettuati in termini finanziari ed organizzativi; che è necessario tener conto delle peculiarità che caratterizzano le singole realtà locali.

Il Piano socio sanitario regionale 2012 - 2016 (adottato con la deliberazione della Giunta regionale n. 15/DDL del 26 luglio 2011 ed in seguito divenuto la legge regionale 29 giugno 2012, n. 23), a sua volta, con riguardo all’ospedalità privata accreditata, nell’ambito del paragrafo 3.2.3, afferma che ad essa va riconosciuto un ruolo di supporto al sistema pubblico, e che l’assistenza ospedaliera privata, in quanto parte del sistema complessivo, deve considerarsi complementare all’offerta pubblica.

Pertanto il Collegio, rilevata l’esistenza di tali riferimenti nella deliberazione e negli atti programmatori da essa richiamati, ritiene che tali elementi costituiscano una sufficiente indicazione dei criteri generali adottati nell’individuazione dei tetti e dei budget”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1258 del 2013

DGRV n. 2096 del 2012

DGRV n. 832 del 2012

L’urbanistica veneta dopo il regolamento del commercio e il terzo piano casa: convegno Venetoius a Torri di Quartesolo 6 dicembre 2013

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Venetoius organizza il convegno "Evoluzione dell'urbanistica veneta", che si terrà venerdì 6 dicembre 2013 a Torri di Quartesolo, presso The Space Cinema, coordinato dal prof. Bruno Barel.

La prima parte del convegno riguarda l'incidenza del regolamento del commercio sull'urbanistica veneta, con le relazioni della Dirigente regionale dott.sa Giogia Vidotti, del prof. Luca Tamini del Politecnico di Milano, dell'avv. Guido Zago di Padova e dell'arch. Marisa Fantin, presidente dell'Ordine degli Architetti di Vicenza.

La seconda parte del convegno si occupa del terzo piano casa del Veneto, in corso di approvazione da parte del Consiglio regionale del Veneto, con le relazioni dell'avv. Stefano Bigolaro di Padova, dell'avv. Dario Meneguzzo, del geom. Daniele Iselle del Comune di Verona e del dott. Roberto Travaglini, dirigente di Confindustria Vicenza.

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta l'iscrizione, per ragioni organizzative, tramite email all’indirizzo:

venetoius@hotmail.it

E' stato chiesto il riconoscimento dei crediti formativi all'Ordine degli Avvocati di Vicenza.

L'uscita autostradale più vicina alla sede del convegno è quella di Vicenza Est, proseguendo poi sulla tangenziale per Padova fino al centro commerciale Le Piramidi. 

Locandina convegno 6 dicembre 2013

 

A proposito si demolizione di opere abusive, pompeiane e pertinenze urbanistiche

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza del 31.10.2013 n. 5265, conferma la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. II, n. 1713/2011, concernente la demolizione e l’acquisizione al patrimonio comunale di opere abusive.

Nello specifico, con riferimento al termine di 15 giorni concesso dall’Amministrazione comunale per la demolizione dell’opera abusiva, il Collegio afferma che: “Gli istanti hanno anche lamentato il riduttivo termine di 15 giorni assegnato per la demolizione (ordinanza n. 68 del 21 giugno 2010) in luogo dei 90 giorni previsti dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché l’errata statuizione dei primi giudici a giustificazione di tale minore spazio temporale in relazione agli artt. 13 e 92, comma 4, della legge regionale Veneto n. 61 del 1985 (norma locale di dettaglio che espressamente prevede che le opere abusive vadano demolite entro un termine “non superiore” a 90 giorni e, perciò, autorizzante anche un termine inferiore).

In punto di fatto giova precisare che l’abusiva copertura con teli fissi della pompeiana in argomento è stata sanzionata già una prima volta mediante la inottemperata ordinanza n. 82 dell’11 agosto 2008 con la previsione di 90 giorni per la demolizione, che è stata sì rimossa dai proprietari ricorrenti ma subito ripristinata dagli stessi. A tanto ha fatto seguito il comunicato diniego comunale alla temporanea installazione stagionale, come materialmente riscontrato dai successivi accertamenti in esito ai quali è stata emanata la impugnata ordinanza n. 68 del 21 giugno 2010 con il giustificato termine di 15 giorni (ravvisato congruo in relazione alla vicenda anteriore e con riguardo all’entità dei lavori occorrenti per la rimozione).

Relativamente al detto termine limitato, è sufficiente osservare che si discute di un atto ripristinatorio dell’iniziale ordine violato che ha svolto la funzione di eliminare le conseguenze dell’illecito continuato, in bonam partem per un ravvedimento dei ricorrenti e al fine precipuo di sfuggire alle più pregiudizievoli sanzioni, quali l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive.

Consegue da tanto che la condotta comunale non può essere minimamente tacciata di sproporzione e gli autori dell’abuso non possono qui venire contro il fatto proprio nel gioco reiterato.

Quanto alla norma regionale, la mancata menzione da parte dell’amministrazione comunale della norma legale di riferimento può essere superata mediante i poteri propri di interpretazione spettanti al giudice adito quando è accertata l’esistenza della specifica norma attributiva della potestà limitativa e la conseguente azione pubblica si dimostra conforme a legge.

D’altro canto, tale disposizione regionale, riconducibile alla materia governo del territorio e attuativa in ambito locale della normativa recata dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non ha alterato la corrispondente disciplina statale, in quanto non ha inciso nei suoi aspetti immodificabili e nell’area delle tassative fattispecie sostanziali di sanabilità delle opere abusive o nei criteri di accesso ovvero nelle regole di repressione degli abusi, bensì è intervenuta unicamente sotto l’aspetto del relativo procedimento con la previsione di un obbligatorio e ravvicinato provvedimento di demolizione, in tale modo rendendo non fisso il termine di 90 giorni e, per l’effetto, ancorandolo alla concreta fattispecie sanzionata, a miglior tutela dell’assetto del territorio.

Orbene, nello specifico, per le ragioni innanzi precisate, il termine assegnato di 15 giorni risulta essere adeguato in relazione al complessivo andamento della vicenda di causa e, con riguardo alle diffuse e ragionevoli motivazioni contenute nell’atto censurato, anche proporzionato”.

 Per quanto riguarda i concetti di “pompeiana” e di “precarietà”, rispettivamente si legge che: “Dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie applicative (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata.

L’aspetto tipico di essa, in sintesi, risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura impermeabile in polietilene o tegole e quant’altro che la faccia configurare come volume edilizio” e che: “la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che non implica precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (Cass. Pen., sez. III, 5 marzo 2013, n. 10235 e 21 giugno 2011, n. 34763; Cons. Stato, sez. IV, 22 dicembre 2007, n. 6615)”.

Mentre, per quanto riguarda la nozione di “pertinenza urbanistica” si legge che: “La nozione di "pertinenza urbanistica" ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: deve trattarsi, invero, di un'opera - che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato - preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non indurre un ulteriore carico urbanistico e da non avere una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede (Cass. Pen., sez. III, 24 marzo 2010, n. 24241; Cons. Stato, sez. V, 18 aprile 2001, n. 2325; sez. VI, 8 marzo 2000, n. 1174).

Nella specie, l’intervento innovativo contestato dal Comune, non semplicemente conservativo e manutentivo della pompeiana in asserita pertinenza con la villa, viene invece a realizzare una diversa connessione fisica e una mutata strumentalità funzionale, che deve ricondursi non alla nozione di servizio ma a quella di integrazione della diversa attività d’uso cui accede, in quanto tale implicante il previo rilascio del permesso di costruire finalizzato alla nuova essenza configurata dell’immobile (Cons. St., sez. IV, 25 maggio 2011, n. 3134; sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5515).

Deriva da ciò, come sostenuto dal Comune, la trasformazione urbanistica ed edilizia della pompeiana in una struttura (chiosco) permanentemente fissa e coperta a servizio della pizzeria-ristorante, necessitante, alla stregua di pacifica giurisprudenza, del permesso di costruire per le ragioni incrementative prima precisate dell’assetto del territorio”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1713 del 2011

CdS n. 5265 del 2013

La discrezionalità del Comune in materia di pianificazione territoriale

18 Nov 2013
18 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 11 novembre 2013 n. 1246, chiarisce la natura discrezionale delle scelte effettuate dall’Amministrazione comunale in materia di pianificazione urbanistico-territoriale, le quali cedono solamente di fonte al c.d affidamento qualificato ed alle linee di sviluppo contenute nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori: “È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (CdS, Ap, 22.12.1999 n. 24; IV, 20.6.2012 n. 3571; TAR Veneto, II, 6.8.2012 n. 1101) e inoltre che, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico e, tra l'altro, non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche (cfr., da ultimo, CdS, VI, 13.9.2012 n. 4867).

In tal senso, la scelta compiuta in un PRG (o in una variante) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex pluribus, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854).

Tali evenienze generatrici di affidamento "qualificato", sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In mancanza di tali eventi – è appena il caso di annotare che, ancorchè si volesse assimilare il piano di recupero con validità decennale approvato dal Comune di Paese nel 1984 alla convenzione di lottizzazione, va tuttavia osservato che il predetto piano aveva avuto, come affermato dallo stesso ricorrente, completa attuazione, eccetto l’area di sua proprietà: ma il signor Trevisan, al quale nel 1985 era stata rilasciata la concessione edilizia per realizzare l’ultimo intervento consentito dal piano di recupero, vi ha successivamente rinunciato, con la conseguenza che, a fronte di tale manifestazione di disinteresse all’edificazione, il piano di recupero doveva considerarsi completamente attuato - non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicchè non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854 cit.; IV, 4.4.2011 n. 2104);

Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria dell'area secondo la previgente destinazione.

In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso (cfr, da ultimo, CdS, VI, 13.9.2012 n. 4867 cit.)”.

 Nella medesima, inoltre, il T.A.R. specifica che: “È noto, invero, che una volta impugnata la delibera di adozione del piano regolatore, la delibera di approvazione del medesimo va impugnata esclusivamente in quanto non confermi le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa, e ciò perché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione (cfr. TAR Veneto, I, 26.11.2012 n. 1441)”.

dott. Matteo Acquasaliente

 TAR Veneto n. 1246 del 2013

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