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La modifica dell’ATI dopo l’aggiudicazione determina l’annullamento dell’aggiudicazione

22 Nov 2013
22 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 13 novembre 2013 n. 1253, si occupa della modifica di un’ATI avvenuta dopo l’aggiudicazione: nello specifico, dato che una delle imprese dell’ATI aveva rinunciato alla propria partecipazione, il Collegio dichiara l’annullamento dell’aggiudicazione per violazione dell’art. 37, c. 9, 10, 18 e 19 D. Lgs. 163/2006 secondo cui: “9. E' vietata l'associazione in partecipazione. Salvo quanto disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta.  10. L'inosservanza dei divieti di cui al precedente comma comporta l'annullamento dell'aggiudicazione o la nullità del contratto, nonché l'esclusione dei concorrenti riuniti in raggruppamento o consorzio ordinario di concorrenti, concomitanti o successivi alle procedure di affidamento relative al medesimo appalto” (..) “18. In caso di fallimento del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dall'appalto. 19. In caso di fallimento di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.

A tal proposito si legge che: “considerato che la tesi sostanzialista, confortata da taluni arresti giurisprudenziali (cfr. CdS, VI, 16.2.2010 n. 842; V. 10.9.2010 n. 6546; IV, 6.7.2010 n. 4332) che ammette, dopo l'aggiudicazione, il recesso o l'estromissione di una o più imprese raggruppate ove quelle rimanenti siano in possesso dei necessari requisiti di qualificazione (e ciò in quanto il divieto posto dall’art. 37, IX comma del DLgs n. 163 del 2006 riguarderebbe solo l'aggiunta o la sostituzione di componenti, non anche il venir meno, senza sostituzione, di alcuni di essi: questa tesi trae giustificazione e fondamento dalla considerazione che lo scopo perseguito dalla norma in questione sarebbe quello di consentire alla stazione appaltante di verificare il possesso dei requisiti idoneativi dei concorrenti e, correlativamente, di impedire modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, suscettibili di vanificare l'anzidetta verifica preliminare, fermo restando che la modifica della compagine soggettiva in senso riduttivo non deve avvenire per eludere la disciplina di gara, per evitare cioè la sanzione di esclusione dalla procedura concorsuale per difetto dei requisiti a carico del componente rinunciatario. A tal riguardo deve osservarsi che Ap 4.5.2012 n. 8, richiamata dall’ASL resistente, si è occupata marginalmente di tale questione ove, pur affermando di condividere l’orientamento estensivo, ha rilevato che nel caso in esame “la sostituzione dell’impresa esecutrice avrebbe sanato ex post il difetto di un requisito di partecipazione, in violazione della par condicio, e pertanto era inammissibile”) si scontra inevitabilmente, ed apertamente, con la prescrizione contenuta nell’art. 12, I comma delle preleggi al codice civile che, nel determinare i criteri di interpretazione della legge, stabilisce la prevalenza e la precedenza del criterio letterale: orbene, il chiaro disposto dell’art. 37, IX comma cit. - che prevede che “salvo quanto disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta” - preclude inequivocabilmente interpretazioni volte a consentire ipotesi di modificazione diverse da quelle indicate, e ciò risulta ulteriormente confermato dalla circostanza che il medesimo legislatore ha provveduto espressamente ad individuare le eccezioni al regime del divieto, eccezioni che trovano esclusiva giustificazione nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione della stessa (CdS, V, 20.4.2012 n. 2328). Diversamente opinando, infatti, si svolgerebbe “una operazione non già di interpretazione normativa, bensì di (non consentita) integrazione della norma, di per sé compiutamente disciplinante il caso considerato. Tale operazione non già di interpretazione ma di (non consentita) integrazione normativa, risulta vieppiù non condivisibile, laddove si rileva che la stessa non si limita ad escludere contra legem le modificazioni per riduzione dei partecipanti dal divieto, ma distingue i casi di riduzione per esigenze organizzative, da ritenersi ammessi, dai casi di riduzione dei partecipanti per così dire “elusivi” di cause di esclusione, da ritenere vietati, in tal modo affidando – in modo estemporaneo ed in assenza di previsione normativa, anzi in presenza di esplicito divieto – all’amministrazione, e successivamente al giudice, una analisi delle ragioni del recesso dell’impresa dal raggruppamento” (così CdS, IV, 14.12.2012 n. 6446);

che, dunque, una volta che un raggruppamento abbia partecipato ad una gara e ne abbia ottenuto l’aggiudicazione, non è possibile alcuna modifica della composizione dichiarata in sede di domanda di partecipazione (l’<impegno presentato in sede di offerta> di cui al IX comma dell’art. 37): con la conseguenza che nel caso di componente rinunciatario l’Amministrazione deve procedere ai sensi dell’art. 37, X comma annullando l’aggiudicazione o dichiarando la nullità del contratto, fermo ogni ulteriore profilo di (eventuale) responsabilità dell’impresa nei confronti della stazione appaltante;

 che, pertanto, per le suesposte argomentazioni il ricorso – va precisato, peraltro, che nel caso di specie non vi è stata (solo) una modifica soggettiva della costituenda ATI successivamente all’aggiudicazione provvisoria, ma la mancata costituzione dell’ATI stessa da parte delle due imprese aggiudicatarie, che in tal senso si erano formalmente impegnate (cfr. l’istanza di partecipazione: doc. 21 della ricorrente) – è fondato e va accolto”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1253 del 2013

Il parere espresso dalla Soprintendenza dopo il termine di 45 giorni di cui all’art. 146 del D.lgs. 42/04 è nullo e privo di effetti: cosa deve fare allora il Comune

22 Nov 2013
22 Novembre 2013

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR Veneto n.  1295 del 2013.

Scrive il TAR: "Premesso che – ai sensi dell’allora vigente regime transitorio di cui all’art. 159 D.lgs. 42/04 – è stata rilasciata (per silentium) l’autorizzazione paesaggistica in ordine al progetto di PUA, nel quale era stata prevista la realizzazione di cinque edifici da destinare a residenza; che per l’effetto le ricorrenti hanno già eseguito le opere di urbanizzazione, debitamente collaudate; che con i provvedimenti ora impugnati, vigente il regime ordinario ex art. 146 D.lgs. 42/04, è stata respinta con provvedimento del 28 giugno 2013 della Soprintendenza la richiesta di autorizzazione paesaggistica relativamente all’istanza di rilascio dei titoli edilizi per la costruzione di tre dei suddetti edifici e che, per effetto del suddetto parere sfavorevole, il Comune ha provveduto al mero invio di una comunicazione nella  quale ha dato atto del parere, peraltro tardivamente emesso dalla Soprintendenza, senza tuttavia pronunciarsi sull’istanza degli interessati; visti i motivi di ricorso e ritenuta, in via del tutto assorbente ogni ulteriore considerazione, la sussistenza della denunciata violazione delle disposizioni introdotte con l’art. 146 del D.lgs. 42/04; che invero il procedimento non risulta rispettoso della tempistica dettata dai commi 8 e 9 dell’art. 146, in quanto il parere della Soprintendenza, formulato in termini negativi, anche tenendo conto della tesi più favorevole e quindi conteggiando il tempo concesso ai richiedenti per controdedurre al preavviso di diniego loro inviato, risulta comunque espresso quanto risultava ormai superato il termine perentorio di 45 giorni, così come previsto dal comma 8, per l’espressione del richiesto parere; che tale circostanza rende quindi nullo e privo di ogni effetto il parere successivamente reso, in alcun modo in grado di condizionare l’azione dell’amministrazione procedente; che, al contempo, scatta l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, così come previsto in termini generali una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento degli atti da parte della Soprintendenza (avvenuto il 5 aprile 2013), indipendentemente dalla manifestazione del parere; ciò detto e ribadita l’inesistenza del parere tardivamente emesso, in quanto manifestato da un autorità che, per inosservanza del termine perentorio dettato dalla legge, non poteva più esercitare il relativo potere attribuitole, sussisteva l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, stante il chiaro disposto di cui alla seconda parte del comma 9, che testualmente recita: “In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”: illegittima è quindi la mera comunicazione del parere negativo, senza concludere il procedimento, da parte dell’amministrazione comunale; di conseguenza, in accoglimento del presente ricorso annullati gli atti impugnati e ritenuta in particolare l’illegittimità dell’inerzia manifestata dall’amministrazione comunale, si dispone che il Comune provveda in ordine alla richiesta dei ricorrenti, così concludendo il procedimento, tenuto conto delle considerazioni già espresse in occasione della presentazione della proposta di autorizzazione paesaggistica e tenendo conto altresì delle considerazioni già svolte in occasione dell’approvazione del PUA".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1295 del 2013

Seminario Università di Verona: “Pianificazione urbanistica e localizzazione delle attività economiche al tempo della crisi”

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Segnaliamo che venerdì 6 dicembre 2013, alle ore 15 si svolgerà presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell'Università di Verona  il secondo incontro del seminario di studi urbanistici "Governo delle attività economiche e del territorio al tempo della crisi".

L?incontro ha per tema : "Pianificazione urbanistica e localizzazione delle attività economiche al tempo della crisi: politiche legislative statali, regionali e strumenti urbanistici".

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta l'iscrizione tramite e-mail al seguente indirizzo

euroverona@gmail.com

                     EVR_SEMINARIO 6 DICEMBRE 2013

La natura degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 31.10.2013 n. 5255, chiarisce la natura dell’obbligazione avente ad oggetto il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione: “Ai fini dell'esatta qualificazione degli oneri di costruzione e di urbanizzazione le opere realizzate in virtù della concessione edilizia originaria e di quella in variante devono essere considerate nella loro globalità, sicché, anche se nel caso di specie nel relativo provvedimento era citata la sola concessione in variante, esso non poteva non aver tenuto conto del risultato complessivo dell'intervento costruttivo.

E’ quindi irrilevante la circostanza che nel provvedimento impugnato fosse formalmente richiamata solo la concessione in variante, essendo evidente che la somma richiesta, per la sua entità, era relativa al complesso di quanto autorizzato con la prima concessione e poi modificato a seguito di variante.

Aggiungasi che l'esistenza o la misura degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione costituiscono una obbligazione direttamente stabilita dalla legge; come tale, la determinazione dell'”an” e del “quantum” del contributo concessorio ha natura di mero accertamento dell'obbligazione contributiva e viene effettuato dalla pubblica amministrazione (P.A.) in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritative. Ne consegue che la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.

Tanto conforta la tesi del primo Giudice secondo cui l’aspetto formale del mancato richiamo alla precedente concessione del 28.9.1991 contenuto nella determinazione dirigenziale impugnata, che indicava solo la concessione edilizia del 21.4.1994, di variante alla suddetta, era inidoneo a comportarne l’annullamento per vizi attinenti alla tutela degli interessi legittimi, non essendo stato, peraltro, dimostrato dalla parte appellante che le somme richieste non fossero pertinenti con le opere concretamente realizzate”.

 Per quanto riguarda il legittimo affidamento del privato dinanzi all’inerzia-silenzio della P.A. nel riscuotere le somme de quibus: “Osserva la Sezione in generale che le situazioni consolidate possono essere tutelate quando sulla loro legittimità l'interessato abbia fatto in buona fede affidamento, ma la sussistenza di esso deve escludersi a priori allorché esse siano, come nel caso di specie, dovute ad inerzia dell’Amministrazione nel richiedere il pagamento di somme dovute in base a disposizioni di cui anche l’interessato sia a conoscenza; in siffatto contesto è chiaro che ciò su cui l'interessato fa affidamento non è la legittimità della situazione venutasi a creare, bensì l'inerzia dell'Amministrazione nell'adozione di atti comunque dovuti.

La convinzione che il passare del tempo riduca o limiti, sino ad annullare, il dovere dell'Amministrazione di esercitare prerogative cui è tenuta per legge non può trovare fondamento nei principi generali dell'affidamento né in quelli di efficacia e buon andamento dell'Amministrazione, necessitando invece di una apposita previsione normativa che, agendo sulla patologia dell'inerzia, la sanzioni con l'estinzione o con il mutamento del potere amministrativo esercitabile.

Nel caso di specie l’inerzia dell’Amministrazione nel richiedere il pagamento degli oneri di cui trattasi poteva comportare il venir meno del potere di esercitare il diritto alla riscossione del credito, come condivisibilmente ritenuto dal primo Giudice, solo a seguito del decorrere della prescrizione.

L'affidamento del privato non potrebbe quindi derivare dalla mera inerzia dell'Ente pubblico nell’adottare atti dovuti, ma solo da un suo eventuale comportamento positivo tale da configurare una qualche responsabilità da contatto.

E’ peraltro incondivisibile la tesi dell’appellante che il comportamento del Comune avesse comportato l’insorgere in capo ad essa della ragionevole convinzione che il diritto non sarebbe stato in futuro esercitato, sicché la successiva pretesa di far valere il diritto sarebbe paralizzata dall’”exceptio doli”.

Va osservato in proposito che la convinzione che il diritto in questione non sarebbe stato esercitato dal Comune nei termini di prescrizione innanzi tutto non poteva insorgere in maniera sufficientemente plausibile perché la parte che si sarebbe avvantaggiata da un tale comportamento non poteva non sapere che, essendo la pretesa del pagamento di detti crediti atto dovuto, tanto avrebbe comportato violazione di legge e responsabilità contabile; su tale ipotesi non poteva fondarsi quindi ragionevole affidamento della attuale appellante nel valutare il prezzo da richiedere per la vendita dei beni interessati.

Quanto alla "exceptio doli specialis seu preteriti", essa indica il dolo commesso al tempo della conclusione dell’atto, ed è diretta a far valere (in via di azione o eccezione) l’esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio, al fine di ottenerne l’annullamento, ovvero a denunziare la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, la quale assume rilievo, a titolo di dolo incidente, nel caso in cui l’attività ingannatrice abbia influito su modalità del negozio che la parte non avrebbe accettato, se non fosse stata fuorviata dal raggiro. Detta eccezione non comporta l’invalidità del contratto, ma la responsabilità del contraente in mala fede per i danni arrecati dal suo comportamento illecito, i quali vanno commisurati al minor vantaggio e al maggior aggravio economico subiti dalla parte che ne è rimasta vittima.

Al riguardo deve ritenersi innanzi tutto che l’istituto è applicabile in materia negoziale e non nel caso di specie in cui la pretesa della Amministrazione costituiva atto non meramente sinallagmatico, ma dovuto per legge.

In secondo luogo deve escludersi che la parte appellante abbia sufficientemente dimostrato la dedotta mala fede del Comune, che avrebbe dovuto concretizzarsi nella predisposizione di un finto esonero dal pagamento degli oneri di cui trattasi, al surrettizio fine di indurre imprenditori a realizzare strutture nella zona commerciale, per poi, una volta realizzate le strutture, incamerare le somme invece dovute”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 5255 del 2013

La natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 14 novembre 2013 n. 1282, chiarisce la natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza asserendo che: “L’orientamento della Cassazione è consolidato nel ribadire che la natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza deve essere accertata in sede giudiziale, in concreto, indipendentemente dall'esito delle procedure amministrative eventualmente esperite e facendo ricorso ai criteri indicati dal d.p.c.m. 16 febbraio 1990 (cfr. Cass. Civ. sez. un., 27 gennaio 2012, n. 1151 e 30 dicembre 2011, n. 30176).

L’accertamento, vertendo su diritti soggettivi, compete in via principale al giudice ordinario, e in via incidentale al giudice amministrativo, in forza del generale principio di cui all’art. 8 c.p.a., secondo cui il giudice amministrativo conosce senza efficacia di giudicato di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale.

Sempre in tema si è inoltre chiarito che non è di ostacolo al riconoscimento della natura privatistica dell'ente la circostanza che non siano state portate a compimento le procedure previste dalla L. n. 207 del 2001, nonché dalle leggi regionali, per la trasformazione dell'IPAB in persona giuridica privata: ciò in quanto spetta pur sempre al giudice il compito di vagliare la ricorrenza dei requisiti fissati dalla disciplina di settore per accertare la natura della istituzione, non fosse altro perché, come affermato dalle citate decisioni della Corte costituzionale e dalla richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, l'atto della Regione ha valore meramente ricognitivo ed a tale compito può attendere anche il giudice (Cass. Civ. sez. un., 16 maggio 2008 n. 12377 e 6 maggio 2009 n. 10365).

Gli effetti della delibera di depubblicizzazione, adottata dalla Regione, così come normativamente predeterminati, conseguono infatti direttamente all'accertamento di una situazione esistente, senza che sul loro contenuto possa incidere la volontà dell'Autorità regionale; ciò significa che la delibera predetta va qualificata come atto di accertamento rispetto ad una posizione che va verificata nei suoi elementi obiettivi. Essa quindi non è attributiva di uno status, ma si limita ad accertarlo, previa verifica dell'effettiva (e preesistente) natura dell'ente interessato e con le conseguenze che la legge ricollega a tale accertamento (T.A.R. Milano sez. III, 13 aprile 1999, n. 1180)”.

 Dato che nel caso di specie l’istituzione non rientrava nella categoria degli enti privatistici “promossi ed amministrati da privati”, configurata dall’art. 1 comma 5 del DPCM 16.02.1990, il Collegio giunge a ritenere che: “L’atto impugnato consiste in una modifica della dotazione organica, sicchè alla specie vanno applicati i principi secondo cui l’atto di riorganizzazione è censurabile per soli motivi di illogicità, restando riservate all’amministrazione le scelte di macro organizzazione – il Collegio sul punto dissente dall’equiparazione alla disciplina delle aziende sanitarie, ipotizzata dalla resistente, conducente alla giurisdizione ordinaria-”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1282 del 2013

Un altro esempio di motivazione fatta male in materia di vincolo paesaggistico

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

E' diffusa tra gli addetti ai lavori l'esperienza dei provvedimenti fatti decisamente male in materia di vincolo paesaggistico.

La sentenza del TAR Veneto n.  1299 del 2013 ne annulla uno: "1. Preliminarmente, è da ritenersi fondato il ricorso principale proposto avverso l’autorizzazione paesaggistica del 15 settembre 2011 ed il parere della Commissione Edilizia Integrata del 20 luglio 2011 in essa  riportato, dei quali si chiede l’annullamento nella parte in cui autorizzano “il solo recupero fisico dell’immobile e non la destinazione richiesta”. Ed infatti, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, l’amministrazione comunale, nel rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in esame, autorizzando “il solo recupero fisico dell’immobile e non la destinazione richiesta” in considerazione del fatto che “la documentazione prodotta non dimostra la destinazione residenziale esercitata in forma continuativa”, ha operato una valutazione, oltre che poco comprensibile (non avendo l’istante richiesto un mutamento di destinazione d’uso), anche nettamente avulsa dai profili di compatibilità paesaggistica che la stessa è tenuta ad esaminare, e ciò considerata l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica rispetto al titolo edilizio; il che si traduce nei vizi denunciati di difetto di motivazione e sviamento dalla causa tipica".

Ma è poi proprio così tanto difficile spiegarsi a questo mondo? Oppure non si riesce a spiegarsi per esempio quando non si avrebbe alcun motivo per dire di no, ma si vuole dire lo stesso di no a tutti i costi?

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1299 del 2013

Come funziona il termine entro il quale inibire una DIA

21 Nov 2013
21 Novembre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1299 del 2013 (allegata al post che segue).

Scrive il TAR: "2. Anche il ricorso per motivi aggiunti merita accoglimento essendo fondata la prima censura, diretta a rilevare la violazione del termine entro il quale poteva essere, legittimamente, inibita la DIA a suo tempo presentata dalla ricorrente.
3. Ed infatti, ai sensi dell'art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine perentorio di 30 giorni entro il quale l’amministrazione può esercitare il potere di controllo, la DIA acquista piena efficacia legittimante e l'Amministrazione può intervenire solo esercitando il potere di autotutela disciplinato dagli art. 21 nonies e quinquies della L. n. 241 del 1990. Restano inoltre salve, ai sensi dell'art. 21 della legge medesima n. 241, le misure sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o mendaci, nonché le attività svolte in contrasto con la normativa vigente, così come sono impregiudicate le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo previste dalla disciplina di settore.
4. Applicando detti principi al caso di specie risulta evidente l'illegittimità del provvedimento impugnato, adottato ben oltre il trentesimo giorno dalla data di presentazione della DIA. Ed infatti, una volta prodotta, in data 27 ottobre 2011, la documentazione richiesta dal Comune il 30 settembre 2011, l’amministrazione ha omesso di esercitare il potere di cui all’art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001 nei trenta giorni successivi, né è in altro modo intervenuta per sospendere il decorso di tale termine; con la conseguenza che la DIA si è definitivamente consolidata il 26 novembre 2011.
5. Si consideri, ancora, come dagli atti immediatamente successivi, di comunicazione di avvio di procedimento per “erronea rappresentazione dello stato dei luoghi” del 24 luglio 2012, di invito a produrre ulteriore documentazione del 3 luglio 2013, ed infine, dal provvedimento impugnato del 13 agosto 2013, con il quale si sancisce la sospensione della DIA fino alla completa integrazione dell’ulteriore documentazione richiesta, non è possibile desumere l'esistenza dei requisiti tipici dell'avvenuto esercizio di un potere di autotutela, il solo idoneo ad incidere sull’intervenuto consolidamento del titolo abilitativo. Né appare fondata la tesi sostenuta dall’interveniente, per cui il provvedimento inibitorio sarebbe tempestivo in quanto emesso a seguito di una “variante essenziale” alla d.i.a. originaria; ciò in quanto, in seguito alla comunicazione di avvio di procedimento per “erronea rappresentazione dello stato dei luoghi” del 24 luglio 2012, l’odierna ricorrente ha solo apportato alcune correzioni alle lievi difformità grafico-progettuali riscontrate dall’amministrazione (in particolare in ordine alle dimensioni dell’edificio e allo spessore dei muri), senza modificare la sostanza dell’intervento edilizio che resta di tipo meramente conservativo come inizialmente denunciato (non essendo previsto alcun ampliamento e nessun intervento sullo spessore dei muri), e senza, dunque, che ciò possa aver inciso sull’efficacia, già consolidata, della DIA".

avv. Dario Meneguzzo

Il terzo piano casa nel testo licenziato dalla seconda commissione consiliare

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

Pubblichiamo il terzo piano casa del Veneto nel testo licenziato dalla seconda commissione consiliare.

Si dice che verrà approvato dal consiglio regionale entro il 30 novembre 2013.

Piano Casa licenziato dalla Seconda Commissione

Cosa ci combinano in materia di distanze col terzo piano casa?

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

La Regione Veneto, col terzo piano casa quasi pronto, dopo la famigerata deroga alla distanza dai confini, vuole ora rifilarci anche la deroga alle distanze stabilite dal D.M. 1444 del 1968 (si veda il comma 8 dell'art. 9 del testo licenziato dalla seconda commissione consiliare).

Gli è che può anche farlo, in applicazione dell’articolo 2 bis del DPR 380/2001, introdotto dal decreto del fare, il quale dispone:

"Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati". 1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprieta' e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivita' collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.

Ma siamo sicuri che sia una buona idea una deroga generalizzata buttata lì a casaccio? NOn ha fatto già abbastanza danni la deroga alla distanza dai confini nei primi due piani casa?

avv. Dario Meneguzzo

L’autocertificazione vale anche per il certificato di qualità

20 Nov 2013
20 Novembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 12 novembre 2013 n. 5375, riforma la sentenza del T.A.R. Veneto n. 167/2013 commentata nel post del 11.02.2013, ove si era affermato che il certificato di qualità SA 8000/2008 non può essere sostituito da una autocertificazione.

 Al contrario il Consiglio di Stato afferma che l’esclusone dalla gara dell’operatore economico per la ragione suesposta viola il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46-bis d. Lgs. 163/2006: “4.1 La censura è fondata, ancorché dedotta dalla stessa stazione appaltante che ha dato causa alla nullità prevista dalla citata disposizione del codice dei contratti pubblici, avendo predisposto la legge di gara contenente tale comminatoria.

Nel respingerla, il TAR ha ritenuto legittima la previsione del bando in contestazione “concernente il possesso dei requisiti di qualità in capo alle aziende che intendono partecipare alla gara, nei termini individuati dalla certificazione SA 8000”, specificando che la stessa, vista la rilevanza del servizio oggetto di appalto, la durata e l’importo del contratto, non sia illogica né discriminatoria, ma anzi coerente con lo stesso.

4.2 Altro era tuttavia il punto da esaminare, è cioè se la stessa sia conforme al principio di tassatività sopra detto.

Non è infatti in dubbio la legittimità di una norma impositiva del possesso di detta certificazione, bensì se la mancanza di quest’ultima debba comportare l’esclusione dell’impresa concorrente.

La contrarietà rispetto al principio ora detto sussiste, ed emerge in primo luogo dallo stesso passaggio motivazionale citato, dal quale si evince chiaramente che ciò che rileva non è la certificazione in sé ma il possesso dei requisiti idonei ad ottenerla, ed in secondo luogo dal chiaro disposto dell’art. 43 cod. contratti pubblici, che riconosce in termini generali alle imprese partecipanti a procedure di affidamento la possibilità di fornire “altre prove” relative al rispetto dei standard di qualità equivalenti a quelli oggetto di certificazioni rilasciate dai competenti organismi.

4.2.1 Sul punto è il caso di richiamare la recente pronuncia della VI Sezione di questo Consiglio di Stato 18 settembre 2013 n. 4663, la quale ha chiarito che il fondamento giustificativo del principio di tassatività delle cause di esclusione è quello di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica. I quali, consistendo nella selezione del miglior contraente privato, conducono a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le “cause amministrative” di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.

4.2.2 Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia di questa Sezione del 9 settembre 2013 n. 4471, che ha ritenuto contrastante con il suddetto principio di tassatività la clausola di lex specialis impositiva dell’obbligo di produrre in originale o copia autentica la certificazione di qualità prevista. Richiamando il disposto dell’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione ha puntualizzato nella citata pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di gara da formalismi non necessari, ammettendo quindi le imprese partecipanti a “provare l’esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione”. E ciò sull’incontestabile rilievo dell’inesistenza di un sistema di qualificazione pubblica, tanto in forza del quale si giustifica la libertà di prova riconosciuta dalla ora citata disposizione normativa.

4.3 In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi riconoscere alle imprese partecipanti a gare d’appalto di provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena altrimenti, in primo luogo, l’introduzione di una causa amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono esclusivamente poter confidare sull’effettivo possesso dei requisiti di qualità aziendale o – per venire al caso di specie – sul rispetto delle norme sulla responsabilità sociale delle imprese.

4.3.1 Né può in contrario essere invocato l’indirizzo di questa Sezione che afferma essere rimasto inalterato, anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività della cause di esclusione, il potere delle stazioni appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73 e 74 d.lgs. n. 163/2006 (sentenze 18 febbraio 2013 n. 974 e 3 luglio 2012, n. 3884).

Si tratta infatti di pronunce che si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria, contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una equivalenza con altre prove.

Va ancora osservato al riguardo che la disposizione del codice dei contratti pubblici da ultimo menzionata attiene alle “norme in materia di garanzia della qualità”, mentre nel caso di specie si controverte in ordine al rispetto di determinati standards di etica e responsabilità aziendale. Si tratta all’evidenza di requisiti connotati da un grado di verificabilità empirica certamente inferiore a quelli previsti dalla norma, per i quali la possibilità di fornire prove in via alternativa deve essere riconosciuta a fortiori”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 5375 del 2013

 

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