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Ancora sul concetto di “bosco”

08 Apr 2013
8 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza del 29 marzo 2013 n. 1851, si sofferma sulla definizione di bosco.

Nello specifico la sentenza ritiene che un terreno coperto da 268 piante, prevalentemente di pino domestico, messe a dimora negli anni ’80, non possa qualificarsi come bosco né alla stregua dell’art. 14 della l. r. Campania 7.05.1996 n. 11, né ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. 18.05.2001 n. 227 (c.d. T.U. forestale) né ai sensi dell’art. 142 del D. Lgs. 22.01.2004 n. 42 (c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio): “Si tratta dunque di verificare, alla luce degli espletati accertamenti in fatto, se qui si era in presenza di un vero e proprio “bosco”.

Premesso che si tratta di una nozione di ordine sostanziale, per la cui operatività in concreto non è necessario un previo atto amministrativo di ricognizione e perimetrazione, va rilevato che la nozione di “bosco” richiamata ai fini della tutela paesaggistica dall’art. 142 è in principio normativa, perché fa espresso rinvio alla “definizione di bosco” dell’art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227 (Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), che (comma 2) demanda alle regioni di stabilire la definizione stessa e che (comma 6) nelle more, “ove non diversamente già definito dalle regioni stesse”, prevede cosa si debba considerare per “bosco”.

L’art. 14, comma 1, della ricordata legge regionale campana n. 11 del 1996, che non appare in contrasto con questa successiva legge statale e che comunque va, anche per esigenze di omogeneità nazionale, a questa rapportata, considera “boschi” “i terreni sui quali esista o venga comunque a costituirsi, per via naturale o artificiale, un popolamento di specie legnose forestali arboree od arbustive a densità piena, a qualsiasi stadio di sviluppo si trovino, dalle quali si possono trarre, come principale utilità, prodotti comunemente ritenuti forestali, anche se non legnosi, nonché benefici di natura ambientale riferibili particolarmente alla protezione del suolo ed al miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività plurime di tipo zootecnico”.

Nella fattispecie in esame il terreno era coperto da un insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico, messe a dimora a filari paralleli negli anni ’80 del secolo scorso.

A giudizio del Collegio, questo insieme non corrisponde alla nozione di “bosco”: né alla luce della detta disposizione regionale, né alla luce della nozione generale stabilita dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 227 del 2001, né alla luce, comunque, del comune significato proprio della parola.

Poiché qui si verte di tutela del paesaggio, è essenziale considerare che il rinvio alla definizione normativa, che è propria del distinto ordinamento del settore forestale, è sottoposto all’insuperabile limite di ragionevolezza e di proporzionalità rispetto alla finalità propria di questa tutela (diversamente, l’apparato autorizzatorio e sanzionatorio del paesaggio verrebbe incongruamente traslato ad apparato autorizzatorio e sanzionatorio dell’interesse forestale: così in particolare dicasi per gli interventi di distruzione o di “modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione” ai sensi dell’art. 146). Come altri vincoli “morfologici” del medesimo art. 142 d.lgs. n. 42 del 2004, questo vincolo per categoria legale muove dalla considerazione che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” (art. 131) (cfr. Cons. Stato, VI, 12 novembre 1990, n. 951). Per questa ragione ne sono esclusi gli insiemi arborati che non costituiscono elementi propri e tendenzialmente stabili della forma del territorio, quand’anche di imboschimento artificiale; ma che rispetto ad essa costituiscono inserti artefatti o naturalmente precari.

Al tempo stesso, va considerato che “foreste e boschi” sono a questi propositi evidentemente altro da “i giardini e i parchi […] che si distinguono per la loro non comune bellezza” e non tutelati come beni culturali individui, di cui parla il precedente e contestuale art. 136, comma 1, lett. b), a proposito dei beni paesaggistici che possono essere vincolati in via amministrativa (non vi sarebbe ragione di un vincolo in via amministrativa se già vi fosse il vincolo ex lege).

Perciò, in coerenza con queste distinzioni, per riconoscere ai fini dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio la presenza di un bosco occorre un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione forestale arborea” e – tendenzialmente almeno – da arbusti, sottobosco ed erbe. Questa copertura, per rispondere ai detti caratteri, deve costituire un sistema vivente complesso (non perciò caratterizzato da una monocoltura artificiale), di apparenza non artefatta (come ad es. se a filari). Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola, ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto di “densità piena”, dove la “pienezza” della massa boschiva sta non solo a significare il livello di copertura del suolo, ma anche ad evocare la naturale capacità di rigenerazione o rinnovazione. Il bosco è un complesso organismo vivente, nel quale le nuove risorse sono in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di esaurimento. Non è quindi sufficiente la presenza di piante, quand’anche numerose, ma non strutturate fino a sviluppare un ecosistema in grado di autorigenerarsi”.

Per completezza espositiva si sottolinea che, nella Regione Veneto, la definizione di bosco è dettata dall’art. 14 della l. r. 13.08.1978 n. 52 (Legge forestale regionale), il quale prevede una definizione di area boscata conforme al c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio: “1. Agli effetti della presente legge si considerano a bosco tutti quei terreni che sono coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo.

2. Sono parimenti da considerarsi bosco i castagneti da frutto.

3. I terreni, privi temporaneamente della vegetazione forestale, per cause naturali o per intervento dell’uomo, conservano la classificazione a bosco.

4. Non sono considerate bosco le colture legnose specializzate.

5. Per coltura legnosa specializzata si intende l'impianto di origine artificiale, effettuato anche ai sensi della regolamentazione comunitaria, reversibile a fine ciclo colturale ed eseguito su terreni precedentemente non boscati.

6. Le colture legnose specializzate devono essere gestite secondo le indicazioni fornite dal servizio forestale regionale competente per territorio, fatta eccezione per quelle esistenti su terreno escluso da vincolo idrogeologico.

7. Sono parimenti esclusi i parchi cittadini ed i filari di piante.

8. Non si considerano a bosco i terreni in cui il grado di copertura arborea non supera il trenta per cento della relativa superficie e in cui non vi è in atto rinnovazione forestale e le macchie boscate, realizzate in base al Reg. CE n. 1257/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti, ed in base ai relativi regolamenti precedenti.

8 bis. I boschi, come definiti al presente articolo, devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri.

8 ter. Sono assimilate a bosco le radure e tutte le altre superfici d'estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco.

8 quater. Le disposizioni di cui ai commi 8, 8 bis e 8 ter non si applicano nelle aree naturali protette e nei siti della rete Natura 2000 di cui alla Direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, qualora i rispettivi piani di gestione o gli strumenti di pianificazione forestale di cui all’articolo 23, individuino valori parametrici di maggiore tutela.

8 quinquies. La definizione di bosco di cui al presente articolo si applica anche ai fini dell’applicazione dell’articolo 142, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS 1851 del 2013

L’evidenza pubblica richiesta dal diritto comunitario non implica che spetti solo al Comune l’esecuzione delle opere di urbanizzazione

08 Apr 2013
8 Aprile 2013

 Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013 (già pubblicata nei giorni scorsi), sottolinea che l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, quando è richiesta l’evidenza pubblica, non è riservata al Comune, ma può anche essere convenzionalmente attribuita al lottizzante, il quale sarà allora tenuto a esperire le procedure di evidenza pubblica.

Chiarito che: una convenzione urbanistica ben può contemplare la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo; e la circostanza per cui la realizzazione di tali opere gravi economicamente sull’operatore privato che è parte della convenzione non determina la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime, non sottacendosi, altresì, che nella specie la convenzione vincola Kolbe a fornire determinate infrastrutture, senza contemplare di per sé un puntuale obbligo a direttamente realizzarle”, i Giudici di Palazzo Spada rigettano la tesi di parte ricorrente secondo cui non si può imporre a carico del soggetto titolare del permesso di costruire l’obbligo di realizzare e/o di cedere opere diverse ed ulteriori rispetto a quelle necessarie all’urbanizzazione dell’area interessata dall’intervento edilizio assentito, “anche se nella sua prospettazione l’attuale appellante avesse inteso far valere la nullità o l’annullabilità del proprio obbligo a realizzare le opere di urbanizzazione dedotto nella convenzione, alludendo ad un preteso obbligo di fonte comunitaria - derivante ad oggi dal combinato disposto degli artt. 1 e 8 della direttiva 2004/18/CE - di affidare mediante evidenza pubblica (e, quindi, non mediante convenzione conclusa con il lottizzante privato) la realizzazione delle opere di urbanizzazione: disciplina, questa, recepita comunque nel nostro ordinamento, in epoca successiva ai fatti di causa, mediante l’art. 32, lett. g) del D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163”.

 Infatti i Giudici sottolineano che: “Per il vero la disciplina di fonte comunitaria alla quale parrebbe alludere Kolbe si identifica nella nozione di “appalto pubblico di lavori” così come definito dall’art. 1, lett. a), della precedente direttiva 93/37/CEE, per certo vigente all’epoca dei fatti di causa ed inteso dalla giurisprudenza comunitaria come comprensivo anche delle opere di urbanizzazione (cfr. Corte di Giustizia CE, Sez. VI, 12 luglio 2001 n. 399, Ordine Architetti delle Province di Milano e Lodi e altro c. Comune di Milano).

La stessa giurisprudenza comunitaria, tuttavia, ha espressamente precisato al riguardo che l’osservanza dell’obbligo comunitario non implica una soluzione organizzativa all’interno dell’ordinamento italiano tale da vincolare l’Amministrazione comunale ad applicare le procedure di aggiudicazione della direttiva, essendo a ciò tenuto – ove ne ricorrano i presupposti – lo stesso lottizzante privato (cfr., in tal senso, la testé riferita sentenza della Corte di Giustizia CE, nonché la disciplina ora contenuta nell’anzidetto art. 32, lett. g. del D.L.vo 163 del 2006).

In conseguenza di ciò, pertanto, la disciplina di fonte comunitaria invocata da Kolbe non può assurgere a presupposto per invocare la nullità o l’annullabilità della Convenzione da essa conclusa con il Comune, essendo semmai obbligo della stessa Kolbe curare i dovuti adempimenti dell’evidenza pubblica nella scelta del soggetto realizzatore delle opere di urbanizzazione, anche perché – del resto – correttamente lo stesso giudice di primo grado ha “chiarito che Kolbe non è un appaltatore” e che alla stessa, semmai, “era stato chiesto di conseguire un risultato, cioè la realizzazione di un’opera di urbanizzazione, individuando altresì l’esborso economico corrispondente, il quale costituisce il limite dell’onere economico che si può far gravare sulla stessa. Questo però non significa, com’è intuibile, che l’obbligata potesse pretendere di realizzare direttamente l’opera e di trarne addirittura un utile d’impresa, sovrapponendo la qualità di committente e quella di esecutore, e giungendo poi a richiedere la risoluzione del rapporto ove l’utile non fosse conseguibile” (cfr. pag. 24, rispettivamente al § 4.2.3. e al § 4.2.2.)”.

Naturalmente il lottizzante non sarà tenuto a esperire procedure di evidenza pubblica nei casi nei quali nemmeno l’ente pubblico lo sarebbe.

dott. Matteo Acquasaliente

La localizzazione delle farmacie continua a necessitare della pianta organica?

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 3 aprile 2013 n. 1858, affronta numerose questioni concernenti il trasferimento delle sedi farmaceutiche.

Nel post del 18.07.2012 si era sottolineato che il D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. decreto Cresci Italia), convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012 n. 27, aveva eliminato l’obbligo dei Comuni di adottare una pianta organica per la localizzazione delle sedi farmaceutiche, avendo i medesimi solo l’onere di identificarne le zone.

 Nella sentenza de qua, chiarito che le piante organiche prevedono (o meglio dovrebbero prevedere) in modo specifico e dettagliato le sede di ciascuna farmacia atteso che: “Com’è noto, la generalità, se non la totalità, delle piante organiche descrive invece in modo minuzioso e preciso i confini di ciascuna sede farmaceutica, rispettando il principio (non espressamente enunciato dalla legge, ma desumibile dal contesto e recepito da giurisprudenza più che consolidata) che la distribuzione del territorio comunale fra le sedi non deve lasciare spazi vuoti né sovrapposizioni. Questa cura nel delimitare le sedi farmaceutiche è coerente con la funzione che questo atto assume nel sistema: infatti, com’è noto, il territorio assegnato alla farmacia attribuisce al suo titolare la facoltà (sia pure non incondizionata) di scegliere all’interno di quel perimetro l’ubicazione dell’esercizio e gli attribuisce, altresì, un diritto di esclusiva, ossia il divieto agli altri farmacisti di insediarvisi”, i Giudici di Palazzo Spada evidenziano che, mutatis mutandi, i Comuni possono continuare a pianificare la localizzazione della farmacie tramite la pianta organica o altri strumenti equivalenti: “8. Sin qui, la questione è stata esaminata con riferimento alla disciplina vigente anteriormente alle modifiche all’ordinamento farmaceutico, apportate dal decreto legge n. 1/2012, modificato dalla legge di conversione n. 27/2012.

Ma, ad avviso del Collegio, le nuove disposizioni non cambiano realmente il quadro, per quanto qui interessa.

E’ vero, infatti, che sono state soppresse le disposizioni che prevedevano la formazione e la revisione periodica delle piante organiche comunali, a cura di un’autorità sovracomunale (da ultimo, la Regione o la Provincia, a seconda delle norme regionali).

Tuttavia rimane invariato l’impianto generale della disciplina, a partire dal "numero chiuso" delle farmacie, pur se i criteri per la determinazione di tale numero sono alquanto modificati. Peraltro, il "numero chiuso" implica logicamente che la distribuzione degli esercizi sul territorio sia pianificata autoritativamente. E in effetti, il nuovo testo dell’art. 2 della legge n. 475/1968, come modificato dal d.l. n. 1/2012, dispone: «Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate».

Non si parla più di "sedi" ma di "zone"; ma questo mutamento non è rilevante, perché la giurisprudenza aveva già da tempo avvertito che quando la normativa previgente usava il termine "sede" si doveva intendere "zona", perché questo era il significato che si desumeva dal contesto. Peraltro usa il termine "zona" anche l'art. 1, comma settimo (originariamente comma quarto) della legge n. 475/1968, del seguente tenore: «Ogni nuovo esercizio di farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona». A sua volta il regolamento approvato con d.P.R. n. 1275/1971, art. 13, secondo comma, dispone: «Il locale indicato per il trasferimento della farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona».

E’ vero che la nuova formulazione dell’art. 2 sembra riferirsi esplicitamente solo all’assegnazione delle "zone" alle farmacie di nuova istituzione, tacendo delle altre; ma stanti il contesto e la finalità dichiarata dalla legge, è ovvio che anche le farmacie preesistenti conservano il rapporto con le "sedi", ossia "zone", originariamente loro assegnate; e questo appunto dispone esplicitamente l’art. 13 del regolamento, che del resto esprime una implicazione naturale del sistema.

Ed è nella logica delle cose che questo potere-dovere di pianificazione territoriale non si eserciti una tantum ma possa (e se del caso debba) essere nuovamente esercitato per apportare gli opportuni aggiornamenti, e che ciò venga fatto nel quadro di una visione complessiva del territorio comunale.

In conclusione, benché la legge non preveda più, espressamente, un atto tipico denominato "pianta organica", resta affidata alla competenza del Comune la formazione di uno strumento pianificatorio che sostanzialmente, per finalità, contenuti, criteri ispiratori, ed effetti corrisponde alla vecchia pianta organica e che niente vieta di chiamare con lo stesso nome”.

Nella medesima sentenza, inoltre, il Consiglio di Stato si pone il problema dell’applicabilità del silenzio assenso, ex art. 20 della l. 241/1990, alla richiesta di trasferimento di una sede farmaceutica, sfuggendo però dalla risoluzione del quesito: “10. 1. Per vero, l’art. 20 della legge n. 241/1990, che concerne il silenzio-assenso, espressamente esclude dalla sua applicazione (e dunque dall’istituto del silenzio-assenso) fra l’altro, la materia della tutela della salute. Ora, la distribuzione territoriale degli esercizi farmaceutici, e il relativo sistema di pianificazione, rientrano in questa materia, come si ricava anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 295/2009, che per questa ragione ha escluso che con legge regionale si possa modificare il rapporto numerico, fissato con legge dello stato, tra popolazione e sedi farmaceutiche (neppure ove la legge regionale abbia l’effetto di incrementare il servizio – come nella fattispecie esaminata allora dalla Corte).

Peraltro la tabella C del D.P.R. n. 300 del 26 aprile 1992, recante il Regolamento concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come integrata dall’allegato 1 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 407, include (al n. 52), fra le attività sottoposte alla disciplina dell'art. 20 della legge n. 241/1990, con indicazione del termine di 60 gg. entro cui le relative domande si considerano accolte, i trasferimenti di titolarità, le nuove aperture ed i trasferimenti dell’ubicazione delle farmacie.

Si potrebbe dunque discutere se la disposizione regolamentare, in quanto esplicita ed inequivoca, prevalga sulla indicazione contraria che emerge dalla fonte di livello superiore; o se invece essa debba essere disapplicata proprio in quanto contrastante con la norma primaria.

Tuttavia il Collegio ritiene di potersi esimere da questo problema perché, come si mostrerà appresso, dato e non concesso che in questa materia si applichi l’istituto del silenzio-assenso, in concreto la fattispecie non si può ritenere realizzata”.

Infine, con riferimento all’ubicazione concreta della farmacia, il Collegio afferma che: “Il trasferimento di ubicazione di una farmacia, all’interno della zona di pertinenza è soggetto ad autorizzazione dell’autorità competente (in Sardegna la A.S.L.) la quale deve verificare, fra l’altro che «il locale indicato per il trasferimento della farmacia [sia] situato in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona» (art. 13 del regolamento approvato con d.P.R. n. 1275/1971, che riproduce una formula della legge n. 475/1968).

Come osservato dalla giurisprudenza e in particolare anche da questa Sezione (sent. n. 6810/2011) questa disposizione implica un potere discrezionale che viene a limitare la libertà del farmacista di scegliere l’ubicazione del suo esercizio all’interno della zona a lui assegnata; tale potere va interpretato in senso ragionevolmente restrittivo, in quanto ordinariamente si può presumere che il titolare si orienti spontaneamente dove è maggiore la domanda ed è prevedibilmente più elevato l’afflusso degli avventori, e quindi verso il luogo che, di fatto, è il più idoneo a soddisfare le esigenze degli abitanti della zona.

Tuttavia, il diniego dell’autorizzazione può essere anche giustificato: ad esempio, nel caso in cui il titolare si orienti verso un’ubicazione che rispetto alla zona di competenza è del tutto eccentrica e marginale, e come tale non risponde alle esigenze della relativa popolazione, ma piuttosto è funzionale ad una utenza esterna (questo era appunto il caso deciso con la sentenza n. 6810/2011, con la quale è stato giudicato legittimo il diniego dell’autorizzazione)”.

Ovviamente quanto esposto supra vale solamente per il trasferimento di una sede farmaceutica, non per il trasferimento di un dispensario (farmaceutico) stagionale: “4. La presente decisione si riferisce essenzialmente alla questione del trasferimento della farmacia di titolarità.

L’altra questione del trasferimento (in senso inverso) del dispensario diverrà attuale solo nel momento (allo stato futuro e incerto) in cui la località Abbiadori venga a risultare dotata di un esercizio farmaceutico in titolarità. Peraltro, i suoi termini saranno alquanto diversi, in quanto la disciplina dei dispensari stagionali (legge 221/1968 e s.m.) appare differente, sul punto, rispetto a quella delle farmacie in titolarità: a queste ultime, come si è detto, è assegnata una "zona" relativamente estesa, all’interno della quale il titolare ha la facoltà (sia pure non incondizionata) di spostarsi; mentre un dispensario stagionale è istituito in una località determinata fissata nel provvedimento che lo istituisce, e cessa nel momento in cui vengono meno le condizioni che ne avevano giustificato l’apertura, salvo il potere dell’autorità competente di istituirne altrove in considerazione delle esigenze delle rispettive località”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1858 del 2013

Anche le piazze sono opere di urbanizzazione primaria

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

L’art. 16, c. 7 e 7 bis, del DPR 380 del 2001, confermando quanto previsto dall’art. 4 della l. 847/1964, definisce le opere di urbanizzazione primaria: “7. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi ai seguenti interventi: strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato.

7-bis. Tra gli interventi di urbanizzazione primaria di cui al comma 7 rientrano i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni”.

Chiarito ciò, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013, ritiene che: “rientrano tra le opere di urbanizzazione primaria le strade residenziali, gli spazi di sosta o di parcheggio e quelli di verde attrezzato.

Secondo il medesimo giudice le piazze che – come, per l’appunto, nel caso di specie - partecipano delle stesse funzioni, separatamente o cumulativamente, non possono che essere incluse nello stesso novero delle opere di urbanizzazione primaria: notazione, questa, che anche il Collegio condivide, rimarcando, altresì, che le convenzioni urbanistiche assolvono allo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 6 novembre 2009 n. 6947)”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il ricorso incidentale ex art. 42 c.p.a.

05 Apr 2013
5 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013, si occupa dell’art. 42 c.p.a., secondo cui: “1. Le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale. Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni decorrente dalla ricevuta notificazione del ricorso principale. Per i soggetti intervenuti il termine decorre dall'effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale.

2. Il ricorso incidentale, notificato ai sensi dell'articolo 41 alle controparti personalmente o, se costituite, ai sensi dell'articolo 170 del codice di procedura civile, ha i contenuti di cui all'articolo 40 ed è depositato nei termini e secondo le modalità previste dall'articolo 45.

3. Le altre parti possono presentare memorie e produrre documenti nei termini e secondo le modalità previsti dall'articolo 46.

4. La cognizione del ricorso incidentale è attribuita al giudice competente per quello principale, salvo che la domanda introdotta con il ricorso incidentale sia devoluta alla competenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, ovvero alla competenza funzionale di un tribunale amministrativo regionale, ai sensi dell'articolo 14; in tal caso la competenza a conoscere dell'intero giudizio spetta al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, ovvero al tribunale amministrativo regionale avente competenza funzionale ai sensi dell'articolo 14.

5. Nelle controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi le domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in giudizio sono proposte nei termini e con le modalità di cui al presente articolo”.

 Definito il c.d. principio di concentrazione delle impugnazioni secondo cui: “tutti coloro che sono resi notificatari di un ricorso principale sono tenuti a proporre ogni eventuale propria impugnazione nell’ambito dello stesso processo e in forma incidentale, indipendentemente dalla natura dell’interesse da essi fatto valere e nel rispetto dei termini decadenziali al riguardo previsti (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2010 n. 808)”, il Massimo Consesso conferma la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. II, 25.01.2012 n. 33 - oggetto del presente gravame - , laddove asserisce che: “a prescindere da ogni altra considerazione, l’art. 42 afferma che le parti resistenti e i controinteressati “possono” proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale, ma non che siano obbligati a farlo: in altri termini, in un’interpretazione costituzionalmente orientata a garantire massimamente la tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive, nulla preclude che – salve diverse decadenze – i contenuti del ricorso incidentale siano introdotti con un autonomo ricorso principale, salva la riunione dei giudizi, come avvenuto in specie”, aggiungendo che: “Anche al di là della corretta notazione formale per cui l’art. 42, comma 1, prima e seconda parte, cod. proc. amm. dispone nel senso che “le parti resistenti e i controinteressati possono” (e, quindi, non “devono”) “proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale …nel termine di sessanta giorni decorrente dalla ricevuta notificazione del ricorso principale”.

dott. Matteo Acquasaliente

La razionalizzazione amministrativa opera anche attraverso il divieto per i comuni di istituire fondazioni

04 Apr 2013
4 Aprile 2013

La Corte conti – sez. contr. Veneto – con il  parere 19 marzo 2013 n. 75 ha risposto al quesito volto a conoscere se è ammissibile – in relazione ai disposti degli artt. 9, co. 6, D.L. 6 luglio 2012 n. 95, convertito in L. 7 agosto 2012 n. 135 e 114, co. 5-bis, D. Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 e s.m.i. -, la trasformazione di una Istituzione comunale, che gestisce una casa di riposo, in una Fondazione controllata dall’ente locale stesso.

Nel parere, la Sezione, richiama quanto disposto dal citato art. 9 del d.l. 95/2012. “Tale norma, infatti, nell’ambito di una politica generale di revisione della spesa pubblica, prevede una serie di misure volte alla razionalizzazione amministrativa anche attraverso il divieto di istituzione e la soppressione di enti, agenzie ed organismi. In particolare, il comma 6, introduce il divieto per gli enti locali di “istituire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’articolo 118, della Costituzione”. Si tratta di un divieto di portata generale che comprende tutti gli organismi strumentali dell’ente locale, nell’ambito dei quali vanno ricomprese anche le fondazioni” (Tale divieto va letto nell’ambito del favor,manifestato da legislatore in più occasioni, nei confronti di una reinternalizzazione dei servizi e di un generale smaltimento degli apparati pubblici, latamente intesi).

“In ordine, poi, alle considerazioni svolte dal Comune richiedente sulla esclusione della riconducibilità del servizio di gestione di una casa di riposo comunale nell’ambito delle c.d “funzioni fondamentali” dei Comuni, indicate dall’art. 14, comma 27, lett. g), del d.l. 78/2010, così come riformulato dall’art. 19, comma 1, del citato d.l. 95/2012 (che riferisce tali funzioni anche alla progettazione e gestione dei servizi sociali ed erogazioni delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’art. 118, comma 4, Cost.), trattandosi, in realtà, di un servizio socio-sanitario di competenza della Regione, la Sezione chiarisce innanzitutto che il termine generico “casa di riposo” non identifica una sola tipologia di struttura, ma un universo parcellizzato e diversificato a seconda dei servizi offerti (solo alcuni dei quali sono anche “socio-sanitari”), dove agiscono diverse attori, pubblici e privati: Stato, regioni, enti locali, privati e c.d. “terzo settore”.”

In riferimento, quindi al divieto vediamo come lo stesso abbia “portata generale la cui ratio consiste appunto “nell’evitare, da parte degli enti locali, l’ulteriore incremento del numero di organismi strumentali in mano pubblica”. Tale assunto è confermato anche da una lettura del combinato disposto del comma 6 con il comma 1, del citato art. 9. In quest’ultimo comma, infatti, nell’ambito di una politica generale di snellimento degli apparati pubblici, viene disposto che le regione, le province ed i comuni provvedano a sopprimere, accorpare o, in ogni caso, ad assicurare la riduzione dei relativi oneri finanziari – in misura non inferiore al 20% –  di “enti, agenzie ed organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica” che esercitino, “anche in via strumentale”, funzioni fondamentali di cui all’art. 117, comma 2, lett. p) della Costituzione o funzioni ammnistrative spettanti ai comuni, province e città metropolitane ai sensi dell’art. 118 della Costituzione. Pertanto, con riferimento agli enti già istituiti, il legislatore usa la medesima formula che poi applicherà anche alla diversa ipotesi del divieto di istituire ex novo organismi di questo tipo di cui al citato comma 6. L’assunto che in siffatta formula siano comprese anche le aziende speciali trova conferma nella previsione di cui al comma 1 bis del citato art. 9, che esclude dall’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1, le aziende speciali, gli enti e le istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali, che altrimenti ricadrebbero nell’ambito applicativo dell’obbligo di razionalizzazione e snellimento di cui al comma precedente. L’eccezione puntale, prevista dal comma 1 bis, la cui portata derogatoria è limitata solo alla portata precettiva del comma 1, e quindi riferita solo agli organismi già esistenti, conferma l’interpretazione omnicomprensiva della fattispecie diversa cui si riferisce il divieto di cui al comma 6, rispetto al quale non è stata prevista nessuna deroga e che porta a ricomprendere nel suo ambito applicativo anche le aziende speciali destinate a svolgere una funzione fondamentale, come quella ipotizzata nella richiesta di parere in argomento.”

dott.sa Giada Scuccato

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Il rapporto tra la convenzione urbanistica/varianti ed il Piano Particolareggiato

04 Apr 2013
4 Aprile 2013

 Con riferimento al rapporto tra la convenzione urbanistica ed il Piano Particolareggiato, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1574/2013, smentisce le censure di parte ricorrente secondo cui, atteso che “la convenzione assume funzione strettamente accessoria rispetto al sovrastante strumento di pianificazione attuativa, per quanto attiene alla regolazione dei rapporti tra il Comune e la parte privata, con la conseguenza che la convenzione medesima non può ex se incidere sulla vigenza dello strumento anzidetto”, “le pretese del Comune trarrebbero origine da previsioni convenzionali inesistenti o comunque divenute inefficaci in quanto deputate ad attuare un Piano particolareggiato che risultava già al momento della stipula della convenzione – ossia alla data del 23 luglio 2003 – decaduto da ben quattro anni, stante l’avvenuto decorso del termine di 10 anni di vigenza decorrente dalla sua approvazione (nella specie: 1989-1999)”.

 Al contrario, nella sentenza de qua, il Collegio “non dubita della circostanza che la convenzione stipulata il 23 luglio 2003 è di per sé insuscettibile di mutare i termini di vigenza del Piano particolareggiato a suo tempo predisposto ai fini della realizzazione del centro del Comune, e conferma anche nella presente sede di giudizio la piena validità dell’assunto secondo il quale il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17 agosto 1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria”.

 Con riferimento alla possibilità per le varianti di prorogare il Piano Particolareggiato, il Collegio ritiene che: “l’approvazione di una Variante ad un Piano particolareggiato non determina di per sé la proroga dell’efficacia dell’originario strumento di pianificazione secondaria, ancorché per ampia parte modificato, potendo tale effetto riconoscersi soltanto alle Varianti che approvano una operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa rispetto a quella originariamente prevista per la stessa zona (Cass. Civ., Sez. I, 9 novembre 1983 n. 6622), nonché alle Varianti che si riferiscano all’intero programma urbanistico, implicandone una positiva valutazione di attualità e di persistente conformità all’interesse pubblico”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il rapporto tra il ricorso principale e quello incidentale

04 Apr 2013
4 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza del 18 marzo 2013 n. 1574, affronta numerose questioni di carattere processuale che verranno esaminate in una seria di post.

 Con riferimento all’appello incidentale previsto dall’art. 333 c.p.c. secondo cui: “Le parti alle quali sono state fatte le notificazioni previste negli articoli precedenti debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo”, richiamato dall’art. 96 c. 1, 2 e 3, il quale prevede che: “1. Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo.

2. Possono essere proposte impugnazioni incidentali, ai sensi degli articoli 333 e 334 del codice di procedura civile.

3. L'impugnazione incidentale di cui all'articolo 333 del codice di procedura civile può essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione”, il Consiglio di Stato rileva che: “ai sensi del combinato disposto dell’art. 96 cod. proc. amm. e dell’art. 333 cod. proc. civ., l’impugnativa proposta dal Comune di Noventa Padovana va configurata come appello incidentale autonomo avente ad oggetto capi della sentenza di primo grado che non hanno già formato oggetto dell’impugnazione principale.

E’ ben noto che, nel caso in cui avverso la sentenza resa in primo grado siano stati presentati un appello principale e un appello incidentale, può, a seconda dei casi, essere data priorità all’esame del ricorso che risulta decisivo per dirimere la lite, tenendo conto dei principi di economia processuale e di logicità (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 4 novembre 2011 n. 5866): e, poiché nella specie l’appello incidentale proposto dal Comune non è deputato a contestare la legittimazione al ricorso principale, né comunque assume una valenza “paralizzante” dello stesso, il suo esame potrà convenientemente avvenire dopo la disamina dell’appello proposto da Kolbe”.

 Nella medesima sentenza, inoltre, i Giudici di Palazzo Spada definiscono il c.d. appello incidentale autonomo od improprio in questi termini: “la peculiarità dell’appello incidentale c.d. “improprio” (ossia ben altra cosa dell’impugnazione proposta in primo grado avverso un atto amministrativo) è di non essere diretto contro il medesimo capo della sentenza aggredito con l’appello principale, configurandosi come un autonomo gravame, la cui natura incidentale discende unicamente dall'esser stato proposto dopo un precedente appello principale, con la conseguenza dell’applicazione del principio di concentrazione delle impugnazioni sancito dall’art. 333 cod. proc. civ. secondo la logica del simultaneus processus e del correlativo onere per la parte proponente di rispettare i medesimi termini di impugnazione previsti per quello principale”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza CDS 1574 del 2013

Relazioni e slides del convegno del 22 marzo 2013 sullo sportello unico

03 Apr 2013
3 Aprile 2013

Pubblichiamo i video delle prime quattro relazioni del convegno del 22 marzo 2013 sullo sportello unico, la relazione scritta  dell'avv. Matteo Nani e le slides, ricordando che chiunque volesse inviare commemti, domande e proposte al dott. Bruno Berto della regione Veneto può utilizzare anche la funzione "commenta" in fondo al presente post. Ringraziamo sentitamente i nostri relatori.

Video dott. Berto

Slides SUAP dott. Berto 22.03

Video dott. Travaglini

SUAP Venetoius 22.03.2013 Slides Travaglini

Video dott. Vego Scocco

Torri di Quartesolo - marzo 2013 Slides Vego Scocco

Video avv. Bigolaro

Sintesi Relazione avv Nani SUAP LR 55 e attività commerciali LR 50 avv. Nani

In allegato pubblichiamo, inoltre, un parere del MISE , che chiarisce alcune criticità emerse nella fase di avvio dei SUAP comunali. In particolare, viene messo in evidenzia che l'utilizzo (da parte di un utente che intende inviare una pratica SUAP) di una casella PEC in alternativa alla piattaforma informatica che il Comune ha provveduto a registrare nel Portale www.impresainungiorno.gov.it, è da ritenere valido in casi limite, vale a dire  solo quando l'adempimento che si vuole trasmettere  non è gestibile con il software stesso.

parere MISE pec

Regione del Veneto: applicazione sperimentale della nuova procedura amministrativa di VAS‏

02 Apr 2013
2 Aprile 2013

Pubblichiamo la bozza della DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA REGIONALE del Veneto (prima della pubblicazione sul BUR), avente per oggetto "Presa d’atto del parere n. 24 del 26 febbraio 2013 della Commissione regionale VAS “Applicazione sperimentale della nuova procedura amministrativa di VAS”.

VAS regione Veneto-nuova procedura 2013

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