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Poteri derogatori ai sindaci per gli interventi nelle scuole

20 Mar 2014
20 Marzo 2014

DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 22 gennaio 2014 

Definizione di poteri derogatori ai sindaci e ai presidenti delle province interessati che operano in qualità di commissari governativi per l'attuazione delle misure urgenti in materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni scolastiche statali (14A02228) (GU n. 64 del 18-3-2014)

DPCM 22 gennaio 2014

La variante generale che reitera il vincolo espropriativo non richiede la comunicazione di avvio del procedimento

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

Nella sentenza del TAR Veneto  n. 298/2014 il Collegio afferma che, se la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio avviene con una variante generale al P.R.G. avente un contenuto generale, e dunque con uno strumento di pianificazione, tale circostanza esenta il Comune dal comunicare ai soggetti interessati l’avvio del procedimento per la sua adozione: “L’art. 11, I comma, lett. a) del DPR 327 del 2001 stabilisce che al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento “nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica”.

La norma positivizza l’orientamento giurisprudenziale che riconosceva l’applicazione delle garanzie partecipative esclusivamente ai casi di variante limitata e ad oggetto specifico, di variante, cioè, che riguarda un'area limitata del territorio e si propone la realizzazione di una singola opera pubblica.

Il riconoscimento normativo delle garanzie partecipative è la conseguenza di quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la limitatezza territoriale dell'intervento urbanistico e degli scopi perseguiti impone l'obbligo di una motivazione specifica.

Mentre, invero, il piano regolatore e la variante generale trovano sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano stesso e che sono indicati nella relazione ad esso allegata, in caso di variante parziale il Comune è obbligato ad effettuare una ponderazione comparativa in ordine alla destinazione di zona delle singole aree. La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento urbanistico. Spesso, inoltre, quando viene inserito nello strumento urbanistico un vincolo preordinato all'espropriazione che ha per oggetto una singola opera si anticipano scelte discrezionali che sono di regola proprie della pianificazione particolareggiata. Poiché ciò dispensa l'Amministrazione dal dover motivare nella fase attuativa ed in particolare nella dichiarazione di pubblica utilità le scelte discrezionali già effettuate, la giurisprudenza afferma che l'onere della motivazione, ed il contraddittorio, devono risalire al momento in cui tali scelte sono fatte, cioè al momento dell’adozione della variante specifica.

Orbene, nel caso di specie la variante approvata dal Comune, pur non avendo carattere generale, riguarda tuttavia (non già un’unica opera da realizzare sul terreno della ricorrente, ma) una serie di opere, con la conseguenza che non è una variante ad oggetto specifico per la quale si doveva adempiere all’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento previsto dal richiamato art. 11, I comma del DPR n. 327/2001.

Né il contraddittorio nella scelta pianificatrice sarebbe necessario ai sensi dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990, poiché, secondo pacifica giurisprudenza, le esigenze di contraddittorio trovano ampio soddisfacimento, in sede di procedimento pianificatorio, negli istituti dell'adozione e pubblicazione dello strumento e delle osservazioni su di esso formulabili dagli interessati (cfr., da ultimo, CdS, IV, 22.11.2013 n. 5547): l’art. 11, V comma del citato DPR n. 327 stabilisce, infatti, che “restano in vigore le disposizioni vigenti che regolano le modalità di partecipazione del proprietario dell'area e di altri interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli strumenti urbanistici””.

TAR Veneto n. 298 del 2014

Il silenzio assenso sul condono non si forma se l’area è vincolata e il vincolo vale anche per le opere antecedenti alla sua istituzione

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

Lo ribadisce la sentenza del TAR Veneto n. 277 del 2014.

Scrive il TAR: "Va esclusa preliminarmente la fondatezza dei primi due motivi di ricorso, in quanto conformemente al costante orientamento della giurisprudenza la determinazione del silenzio assenso sul condono per decorso dei ventiquattro mesi dalla data dell’istanza, non è sempre invocabile, bensì solo quando le opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della legge n. 47/1985, sia paesaggistico ambientale, e nella fattispecie l’opera abusiva da sanare ricade in una zona sottoposta a vincolo ambientalistico di cui alla legge n. 1497/1939.  Né può assumere rilevanza la circostanza evidenziata in ricorso per cui trattasi di opere antecedenti l’apposizione del vincolo, in quanto – come più volte sottolineato dalla giurisprudenza - deve ribadirsi l'obbligatorietà dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47  del 1985. (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 30 giugno 2010, n. 417; T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 14 giugno 2010, n. 14166; T.A.R. Puglia Bari, sez. III, 03 dicembre 2008, n. 2765). Ciò in quanto, anche se l'articolo 32 citato non precisa in quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della concessione in sanatoria. Peraltro risulta dirimente sul punto la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 22 luglio 1999, la quale ha enunciato il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32, l. 28 febbraio 1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.” Pertanto, la necessità dell'acquisizione del parere di cui all'articolo 32 esclude che, nella fattispecie oggetto di giudizio, possa conseguentemente ritenersi formato il silenzio-assenso sull'istanza di condono, atteso il parere sfavorevole espresso dalla competente Commissione". 

sentenza TAR Veneto 277 del 2014

Dire che le opere per ubicazione, materiali e tipologia sono in contrasto con l’ambiente tutelato non è una motivazione legittima per negare un condono

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

La sentenza del TAR Veneto n. 277 del 2014 contiene anche un esempio di motivazione illegittima di un diniego di condono edilizio.

Scrive il TAR: "Fondato è invece il motivo con il quale viene dedotta l’illegittimità del provvedimento impugnato sotto il profilo della carenza di motivazione. In proposito, deve osservarsi, innanzitutto, che la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2006, n. 1750; sez. IV, 22 febbraio 2001 n. 938, sez. V, 25 settembre 2000 n. 5069). Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile. Ebbene, nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune di Venezia (Ufficio edilizia privata) ha comunicato al ricorrente che, in esito alla sua domanda di sanatoria edilizia, presentata ai sensi della legge n. 47/1985, la stessa veniva in parte respinta a seguito del parere della Commissione Edilizia Integrata, contraria al mantenimento in opera dei manufatti individuati con le lettere “B” e “C” <<in quanto per ubicazione, materiali e tipologia sono in contrasto con l’ambiente tutelato>>.  Tale motivazione non appare, all’evidenza, idonea a sorreggere in modo puntuale il diniego della domanda di sanatoria. Infatti, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere (cfr. Cons. Stato, VI, 8 maggio 2008, n.2111). Nel caso in esame le ragioni del diniego appaiono, invece, contenute nell’espressione “per ubicazione, materiali e tipologia sono in contrasto con l’ambiente tutelato”, che per il solo riferimento generico alla tipologia della costruzione e alla scelta dei materiali utilizzati nella edificazione, non appare di certo sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie. In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione apodittica che non appare soddisfare - come evidenziato dal ricorrente in occasione della memoria finale - i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo cui il manufatto in questione mal si inserirebbe nel contesto ambientale per i materiali  utilizzati e la tipologia costruttiva, atteso che nulla viene specificato nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse ambientale tutelato. Sulla scorta delle predette argomentazioni il ricorso deve, pertanto, essere accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato".

Dario Meneguzzo (avvocato)

L’art. 4 della legge regionale n. 55 del 2012 legittima l’esclusione della VAS? La Corte Costituzionale non risponde e dichiara inammissibile la questione

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2014.

Dice la Corte: "3.– L’art. 4 della legge regionale n. 55 del 2012 – che, secondo la prospettazione, legittimerebbe l’esclusione dalla valutazione ambientale strategica (VAS) delle varianti allo strumento urbanistico generale connesse ad interventi di edilizia produttiva – viene censurato nella sua interezza per contrasto con la «vigente normativa nazionale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema», in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, attesa la “coerenza” del suo contenuto con quanto previsto dall’art. 40 della legge della Regione Veneto 6 aprile 2012, n. 13 (Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2012), oggetto di impugnativa innanzi a questa Corte, la quale, con la sentenza n. 58 del 2013, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale.

3.1.– La questione, nei termini in cui è stata prospettata, è inammissibile. La norma censurata (sotto la rubrica «Interventi di edilizia produttiva in variante allo strumento urbanistico generale») prevede quanto segue: «Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, qualora il progetto relativo agli impianti produttivi non risulti conforme allo strumento urbanistico generale si applica, l’articolo 8 del D.P.R. 160/2010, integrato dalle disposizioni del presente articolo.» (comma 1); «Ai fini di cui al comma 1 il responsabile SUAP, entro 30 giorni dalla richiesta da parte dell’interessato, convoca in seduta pubblica la conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14- quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 “Nuove norme sul procedimento amministrativo” e successive modificazioni, e alle altre normative di settore.» (comma 2); «Alla conferenza di servizi sono invitate tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento e deve essere acquisito il consenso dell’ente competente alla approvazione della variante allo strumento urbanistico generale ai sensi
della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni. In caso di variante al piano di assetto del territorio intercomunale (PATI), fermo restando quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 6, in sede di conferenza di servizi va, altresì, acquisito il parere non vincolante dei comuni ricompresi nel PATI medesimo.» (comma 3); «La conferenza di servizi, nell’ambito dei procedimenti autorizzatori, qualora necessario, valuta la sostenibilità ambientale degli interventi, tenendo conto dell’esigenza di razionalizzare i procedimenti ed evitare duplicazioni nelle valutazioni.» (comma 4); «La determinazione della conferenza di servizi relativa alla variazione dello strumento urbanistico generale e tutti i documenti allegati, comprensivi del progetto completo in ogni suo elemento, sono depositati presso la segreteria del comune per dieci giorni. Dell’avvenuto deposito è dato avviso sull’albo pretorio e nel sito internet del comune, il quale può attuare ogni altra forma di divulgazione ritenuta opportuna; entro i successivi venti giorni chiunque può presentare osservazioni.» (comma 5); «Entro trenta giorni dalla scadenza del termine per proporre osservazioni, il consiglio comunale  delibera sulla variante, decidendo anche sulle osservazioni presentate. La determinazione favorevole del consiglio comunale di approvazione della variante viene trasmessa al responsabile SUAP ai fini della conclusione del procedimento. In caso di variante al PATI, l’approvazione è effettuata dal comune sul cui territorio ricade l’intervento, fermo restando quanto previsto dal comma 3.» (comma 6); «La variante decade ad ogni effetto ove i lavori non vengano iniziati entro sedici mesi dalla sua pubblicazione, salvo eventuale proroga, concessa con provvedimento motivato del consiglio comunale per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del richiedente l’intervento. La proroga per l’inizio dei lavori non può essere superiore a dodici mesi e la relativa richiesta deve essere presentata prima della scadenza del termine per l’inizio dei lavori.» (comma 7). Orbene – anche a prescindere dalla considerazione che il ricorrente richiede l’esame di un contenuto normativo ampiamente articolato, teso a regolamentare le procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive (SUAP), del quale, peraltro, neppure viene individuata, la specifica disposizione da cui deriverebbe il lamentato vulnus all’assetto delle competenze – la questione risulta caratterizzata da una insanabile genericità, giacché la difesa dello Stato si limita a dedurre esclusivamente che la norma impugnata, nella sua interezza, «nel contrastare la vigente normativa nazionale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, viola l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione». Così argomentando, la parte ricorrente, oltre ad omettere di esplicitare doverosamente le ragioni della asserita violazione del parametro evocato, neppure lo identifica compiutamente, trascurando, non solo di indicare lo specifico principio desumibile dalla normativa statale in materia di ambiente, ma finanche di citare la stessa normativa ambientale applicabile (in tesi) alla fattispecie (sentenza n. 312 del 2013). Ciò tanto più in quanto – se può anche essere agevole desumere che detta normativa ambientale sia quella contenuta nel decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) – risulta del tutto omessa la identificazione, nell’ampio e variegato contesto applicativo delle norme poste a regolare le procedure per la VAS (dettate dagli artt. da 4 a 18), della particolare disciplina che (ove applicabile alla fattispecie) sarebbe atta a garantire il necessario «livello adeguato e non riducibile di tutela» (sentenza n. 225 del 2009) negli interventi di edilizia produttiva in variante allo strumento urbanistico generale, oggetto appunto della norma regionale impugnata. Ne consegue l’inammissibilità della questione".

sentenza Corte Costituzionale n. 49 del 2014

Un caso nel quale il TAR dispone la verificazione in sede cautelare in materia di esproprio

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

Segnaliamo una ordinanza del TAR Veneto, perché in fase cautelare in materia di esproprio, in presenza di un contrasto tra i documenti presentati dalle parti, il Tar investe il dirigente regionale per il territorio per un procedimento di verificazione.

Il ricorso nasce dalla decisione dell'ente espropriante di estendere l'originaria area di esproprio. 

E' un'operazione che richiede la preventiva apposizione del vincolo espropriativo tutte le volte in cui le nuove particelle siano esterne alla fascia di rispetto (art. 12 comma 2 DPR 327/2001 : "Le varianti derivanti dalle prescrizioni della conferenza di servizi, dell'accordo di programma o di altro atto di cui all'articolo 10, nonché le successive varianti in corso d'opera, qualora queste ultime non comportino variazioni di tracciato al di fuori delle zone di rispetto previste ai sensi del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 753, nonché ai sensi del decreto ministeriale 1 aprile 1968, sono approvate dall'autorità espropriante ai fini della dichiarazione di pubblica utilità e non richiedono nuova apposizione del vincolo preordinato all'esproprio").
Qualora invece si trovino all'interno della suddetta fascia, dovrà comunque procedersi al
l'estensione dell'originaria dichiarazione di pubblica utilità, mediante la riedizione della procedura di cui all'art. 16 Dpr. 327/2001.
Nel caso in esame, alla luce delle discrepanze emerse tra i documenti prodotti dalle parti in atti di causa in ordine all'esatta consistenza della variante, al suo posizionamento ed alla posizione della fascia di rispetto, il Collegio ha sospeso la procedura espropriativa ed al contempo disposto la verificazione ai sensi dell'art. 66 cpa, all'uopo incaricando il massimo dirigente regionale in materia di territorio.

ordinanza tar Veneto 171 del 2014

Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle strutture turistico – ricettive in aria aperta (campeggi, villagi turistici, ecc.) con capacita’ ricettiva superiore a 400 persone‏

19 Mar 2014
19 Marzo 2014

MINISTERO DELL'INTERNO DECRETO 28 febbraio 2014 Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l'esercizio delle strutture turistico - ricettive in aria aperta (campeggi, villagi turistici, ecc.) con capacita' ricettiva superiore a 400 persone. (14A01954) 

Appunti critici dell’urbanista Fernando Lucato sul seminario “La Perequazione: problematiche di diritto civile, amministrativo, costituzionale e tributario”

18 Mar 2014
18 Marzo 2014

Durante il seminario del 14 marzo 2014 a Vicenza, l'avv. Dario Meneguzzo ha esposto la (non nuova) tesi secondo la quale la perequazione (nella forma del contributo imposto) sarebbe illegittima, per violazione del'articolo 23 della Costituzione.

L'urbanista Fernando Lucato risponde   sul punto e volentieri pubblichiamo il suo intervento: "Prima Dario, con qualche ironia, mi ha additato alla vasta platea come “inventore” di procedure sostanzialmente illegali, mettendo in guardia i comuni ad attuarle; poi Roberto ha elencato, in rigoroso ordine alfabetico, qualche luogo del delitto che incidentalmente (dato il pochissimo tempo a disposizione) coincideva con piani dei quali ero stato progettista. Ne è risultata una rappresentazione divertente ma, temo, da un lato non sufficientemente articolata per accennare, almeno, alle diverse problematiche coinvolte; dall’altro ingiustamente riduttiva sul mio ruolo professionale. Per quanto mi riguarda, il percorso di sperimentazione e ricerca sulla “perequazione” ha preso avvio nei primi anni ’90 cercando di formalizzare (con il decisivo contributo dello studio legale Dal Prà di Padova) nel PRG di Altavilla vic.na, quella che fino ad allora era una prassi della concertazione (c.fr. Urbanistica Dossier n. 76- Esperienze venete di perequazione urbanistica- 2005). Un’importante aggiornamento è stato introdotto nella variante al PRG di Montecchio Maggiore, nei primi anni 2000, con la formalizzazione dell’atto unilaterale d’obbligo preventivo (in questo caso con il decisivo apporto dello studio Domenichelli di Padova). Poi ha preso avvio la stagione dei PAT e dei PI generati dalla riforma urbanistica del Veneto, con l’esplosione di procedure, comportamenti e contenuti di piano i più diversi. Si tratta, dunque, di un percorso pluridecennale che si è evoluto all’interno di un quadro normativo in continua trasformazione e tuttora incompleto, transitato dall’urbanistica al governo del territorio, dalla stagione dell’espansione a quella della crisi, costantemente confrontato con le più interessanti esperienze in ambito non soltanto regionale nella consapevolezza delle criticità ma anche dei punti di forza. Tra questi segnalo la ricerca costante nella costruzione di un quadro coerente per il rigore dei contenuti e delle procedure adottate, trasparente e verificabile: caratteristiche, queste, che invece sono spesso  mancate nelle moltissime (brutte) copie generate dal “copia incolla” nei confronti delle quali mi sono talora inutilmente battuto. Per questo mi ha infastidito l’essere stato confuso tra i tanti volenterosi copisti, perché nella mia attività non ho mai fatto un uso approssimativo di termini quali: tornaconto, edilizia di speculazione e di necessità…; e negli elaborati da me prodotti non si troverà mai il passaggio disinvolto dal contributo integrativo misurato sulla plusvalenza del Piano, al prelievo di quota parte del costo di costruzione che rappresenta, invece, un’evidente contraddizione; come non si troverà l’applicazione estemporanea di contributi in relazione alle diverse modalità attuative di piano… Insomma un crescendo di approssimazione, confusione e contraddizioni determinate dall’esigenza di far cassa dei comuni, dall’incompletezza del quadro normativo e, talora, dall’impreparazione tecnico/professionale che si rispecchia anche nella forma e nei contenuti dei piani (come ben denunciato da F. Oliva) e dei quali non mi sento, francamente, il principale responsabile. Se non viene colta nella sua interezza la complessità del processo di Piano all’interno del quale si colloca anche lo strumento perequativo, si rischia di sbagliare obiettivo: non è affatto secondario che la possibilità di monetizzare la plusvalenza sia soltanto una delle modalità previste dal “mio modello perequativo”; il superamento del baratto risponde, infatti, all’esigenza della trasparenza e dell’equità nel concorso alla costruzione della città pubblica (vogliamo confrontarci sugli “abusi” possibili invece dalla spalmatura delle potenzialità edificatorie in ambiti improbabili?). Siete veramente convinti che la recente sentenza del C.di S. su Oderzo, metta in crisi il modello perequativo (oltretutto non quello dei valori ma, piuttosto il modello “Micelli” per ambiti non contigui) o, piuttosto, non si soffermi sul significato degli spazi pubblici (standard) ribadendone il carattere di “rapporto” tra potenzialità edificatoria e corrispondente dotazione pubblica (istruttivo sul tema, andarsi a rileggere la puntuale relazione illustrativa del PRG di Bassano della fine anni ’60, di Mancuso e De Luca). Se è così , finalmente, diventa urgente approfondire, ad esempio, il significato dell’atto di indirizzo di cui all’ art.50lett_h della LR 11/2004 in relazione al dimensionamento dei piani e alla “flessibilità” nella monetizzazione degli standard: temi tutt’altro che nuovi nel quadro legislativo nazionale ma che potrebbero risultare dirompenti per le successive “interpretazioni” regionali e conseguenti contradditorie applicazioni. In conclusione, cari Dario e Roberto, il seminario sulla perequazione mi è parsa un’occasione persa per far chiarezza sul tema: poco tempo, punto di vista parziale, nessun confronto. L’urbanistica è troppo importante per farla fare agli avvocati. La prossima volta con le gambe sotto il tavolo? 

dott. urbanista Fernando Lucato"

Dopo la sentenza del Consiglio di Stato su Oderzo, molte norme perequative dei PAT andranno riscritte?

18 Mar 2014
18 Marzo 2014

Ciao Dario, volevo confermarti, in sintesi, il mio pensiero sull'importanza della recente sentenza del Consiglio di Stato n. 616 del 10 febbraio 2014, emessa sul caso del Comune di Oderzo (sentenza di cui hai già dato notizia su questo sito il 13 febbraio, sotto l’icastico titolo “Il Consiglio di Stato stronca senza perifrasi la perequazione alla veneta con opere fuori ambito”).

Dopo le due pronunce del Consiglio di Stato del 2010 sui PRG di Padova e di Roma (le n. 216 e 4545), che hanno “salvato” quelle due discipline perequative, la sentenza su Oderzo mi sembra un ulteriore passaggio giurisprudenziale di carattere quasi “pretorio” sulla perequazione, a sostituire cioè una legislazione statale mancante sul punto (sto parlando, naturalmente, della perequazione intesa come “ritorno” al Comune – in denaro o opere - di parte del beneficio conseguito dal privato grazie a una scelta pianificatoria).

Nel caso di Oderzo un accordo di pianificazione ex art.6 L.R. 11 aveva recepito una regola perequativa del PAT che prescriveva, in alternativa alla cessione del 50% dell'area, l'obbligo di realizzazione di opere pubbliche di pari valore tra quelle comprese nel programma triennale delle opere pubbliche.

Le censure proposte da un soggetto terzo nei confronti dell'accordo così concluso – e ora accolte dal Consiglio di Stato - riguardano il fatto che le opere da realizzare in base all’accordo fossero “slegate” rispetto all'intervento assentito.

Il Consiglio di Stato, riformando il TAR Veneto, inanella su questo punto una serie di affermazioni di grande chiarezza.

- Ricorda che gli standard devono essere prima di tutto fruibili (non contando solo la quantità, cioè il numero dei loro metri quadri).

- Ricorda che la monetizzazione degli standard non è un fatto solo patrimoniale, perché altrimenti ai Comuni sarebbe consentito conseguire ciò che è utile (cioè la realizzazione o il finanziamento di opere pubbliche) separandolo da ciò che è dannoso, e dunque scaricando su coloro che sono più prossimi all'intervento un peggioramento della loro qualità di vita.

- Ricorda che gli standard devono essere dunque “spazialmente e funzionalmente in prossimità” dell'intervento assentito; altrimenti si determinano effetti perversi, perché mentre in una determinata area del territorio comunale vi sarà (con la realizzazione dell’opera)  un miglioramento della situazione esistente, in un'altra area “avrà luogo un parallelo peggioramento della qualità di vita”.

È davvero un cambio di prospettiva, come ben coglie Ivone Cacciavillaninel suo commento alla sentenza pubblicato su LexItalia: non ci si muove più nell'ottica del “profilo del pubblico interesse di città”, che è una “mera astrazione concettuale”; ci si muove invece, “ecco la novità, dall'angolo visuale dell'utente”, cioè di chi vive in una certa zona (e che ha interessi non identici – e magari contrastanti – con chi vive in un’altra zona).

***

E dunque: la sentenza del Consiglio di Stato su Oderzo non riguarda l'imposizione perequativa, cioè l'esistenza o meno di una base normativa per fondare la perequazione e per disciplinarne il contenuto.

Non riguarda in realtà la perequazione in sé: non è privato che subisce la perequazione a lamentarsene, è un soggetto terzo che impugna un accordo che recepisce la regola perequativa.

La sentenza dà in realtà per presupposto che si possa prevedere nella pianificazione urbanistica la perequazione.

È una sentenza che riguarda gli standard: ma è così forte nelle affermazioni, che incide sulla perequazione (pur se, evidentemente, non definisce ogni cosa).

Chiarisce così che la perequazione non può servire ai Comuni per finanziare o far realizzare opere pubbliche solo perché stanno nella programmazione triennale.

È necessario che ciò che l'amministrazione richiede sia correlato all'intervento che consente. La perequazione può essere quindi la previsione dell'obbligo di cessione di parte dell’area oggetto dell'intervento o di parte di volumi da realizzare, se vi è una motivazione urbanistica che giustifichi tale cessione. Può anche essere prevista nella perequazione un'obbligazione a corrispondere somme di denaro; ma in ogni caso è necessario che si finanzino opere “in prossimità” dell'intervento.

Quello che conta è insomma che vi sia una giustificazione urbanistica specifica per la pretesa di prestazioni perequative con riferimento al singolo intervento: la perequazione serve a ottenere quello che è ritenuto necessario in correlazione con quell'intervento, e che fisicamente dev’essere in prossimità ad esso.

Già che l’imposizione perequativa debba discendere da una specifica motivazione urbanistica che individui certe opere come necessarie all’intervento è concetto che lascia ampi margini di discrezionalità.

Ma, nell’esperienza concreta, molte delle norme vigenti degli strumenti urbanistici veneti impongono la perequazione senza alcuna considerazione urbanistica connessa alle necessità del nuovo insediamento.

In conclusione: mi sembra che dopo la sentenza di Oderzo molte delle norme dei piani veneti sulla perequazione siano divenute censurabili in sede giudiziaria e siano comunque da riscrivere.

 Anzi, non vorrei adesso allargarmi: ma che sia la fine della perequazione come (spesso) l’abbiamo vista fino ad oggi?

Stefano Bigolaro (avvocato)

Elezioni amministrative 2014 nei piccoli comuni e le modifiche del disegno di legge Delrio

18 Mar 2014
18 Marzo 2014

Il prossimo 25 maggio 2014, come molti già sanno, si svolgeranno le elezioni per il Parlamento Europeo.

La data delle elezioni amministrative (sindaco e consiglio comunale) verrà fissata con Decreto del Ministero dell'Interno “non oltre il 55esimo giorno precedente a quello delle votazioni ed è comunicata immediatamente ai prefetti perché provvedano alla convocazione dei comizi” così come stabilito dall’art. 3 L. 7.6.1991 n. 182. Nel turno elettorale del 2014, tale termine coincide con il 30 marzo 2014.

La data verrà resa pubblica dal Prefetto, con manifesto da pubblicarsi 45 giorni prima della data della votazione (art. 18 DPR 16.5.1960 n. 570 e s.m.e.i.).

La presentazione delle candidature alla carica di sindaco e delle liste dei candidati alla carica di consigliere comunale con i Elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale deve essere effettuata dalle ore 8 del 30º giorno alle ore 12 del 29º giorno antecedenti la data della votazione (articoli 28, ottavo comma, e 32, ottavo comma, del d.P.R. n. 570 del 1960 e successive modificazioni). Così, se presumibilmente le elezioni amministrative 2014, coincideranno con le elezioni europee e si terranno solo la domenica 25 maggio 2014, la presentazione delle liste dovrà avvenire tra il 25 e il 26 aprile 2014.

Se, dunque, fino a questo punto della ricostruzione normativa non vi sono dubbi di sorta, diversamente, preoccupa i candidati consiglieri e sindaci dei piccoli comuni, il DDL DELRIO.

Il numero dei candidati, ridefinito in relazione all’articolo 16, comma 17, del decreto- legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, prevede che : “ A decorrere dal primo rinnovo di ciascun consiglio comunale successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto:

a) per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 6 consiglieri;

b) per i comuni con popolazione superiore a 1.000 e fino a 3.000 abitanti il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 6 consiglieri ed il numero massimo di assessori è stabilito in due;

c) per i comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 5.000 abitanti il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 7 consiglieri ed il numero massimo di assessori è stabilito in tre;

d) per i comuni con popolazione superiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 10 consiglieri ed il numero massimo di assessori è stabilito in quattro”.

Il DDL AC 1542, approvato dalla Camera dei Deputati il 21/12/2013, prevede all’art. 18, comma 5, (a seguito dell’emendamento 18.100) una modifica sostanziale della composizione dei consigli Comunali: “All’articolo 16, comma 17, del decreto- legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, le lettere a), b), c) e d) sono sostituite dalle seguenti:

a) per i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 10 consiglieri e il numero massimo degli assessori è stabilito in due;

b) per i comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 10.000 abitanti il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da 12 consiglieri ed il numero massimo di assessori è stabilito in quattro.”

Così facendo, quindi, se il disegno di legge Delrio fosse approvato entro i termini per la presentazione delle liste, sarebbero da ridefinire le composizione delle liste in termini molto stretti.

Questo testo di legge, è attualmente in valutazione al Senato sotto il nome di AS 1212, ed è accompagnato da un parere negativo della Corte dei Conti. In questa sede è stato presentato un emendamento che prevede un’ulteriore novità per i comuni di piccoli dimensioni, infatti con l’emendamento n. 21.164, si propone di aggiungere il seguente comma dopo il comma 7 dell’art. 21: «7-bis. Ai comuni con popolazione fino a 5.000 cittadini non si applicano le disposizioni di cui i commi 2 e 3 dell'articolo 51 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267», eliminando così il vincolo del doppio mandato.

Com’è noto il testo licenziato da entrambe le Camere deve essere identico, perciò, qualora venisse modificato, dovrà tornare a Montecitorio. I tempi, tuttavia, sono strettissimi. Affinché le nuove regole abbiano efficacia nella tornata amministrativa del 25 maggio prossimo, infatti, il progetto Delrio dovrebbe essere trasformato in legge e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale entro e non oltre il 10 aprile 2014, ultimo giorno utile per la convocazione dei comizi elettorali (come si scriveva in premessa, avviene 45 giorni prima per mano del Prefetto). Tutto ciò se il Presidente della Repubblica acconsentisse a ritardare la firma del decreto di convocazione del voto fino all’ultimo momento.

Ce la farà il nostro Parlamento ad approvare il ddl Delrio con termini così stretti? Lo scopriremo.

Dott.ssa Giada Scuccato

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