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Quali sono le responsabilità dell’autore materiale dell’inquinamento e quelle del c.d. proprietario incolpevole?

27 Mar 2014
27 Marzo 2014

Il T.A.R. veneto, sez. III, nella sentenza del 20 marzo 2014 n. 373, con riferimento alla normativa precedente all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 152/2006 (c.d Codice Ambinte), ovvero al D. Lgs. n. 22/1997 (c.d. decreto "Ronchi") ed al D.M. n. 471/1999, afferma che, per individuare la normativa applicabile ai reati di inquinamento ambientale, occorre porre attenzione alle conseguente attuali della condotta colposa/dolosa e non al momento esatto in cui è stato realizzato il comportamento illecito: “Il Collegio, pur dovendo dare atto che nel senso propugnato dai ricorrenti si è recentemente espressa la Cassazione (cfr. Sez. I civile 21 ottobre 2011, n. 21887), ritiene preferibile l’opposta tesi – per esempio recentemente affermata dal TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 19.7.2011, n. 1081 e costituente giurisprudenza consolidata del G.A. - secondo cui la normativa in materia di bonifiche di cui all'art. 17 d.lg. 5 febbraio 1997 n. 22 è applicabile a qualunque situazione di inquinamento ancora in atto al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica (cfr. Cons. St., Sez. VI, 9.10.2007, n. 5283, T.A.R. Parma, 28.6.2011, n. 218; T.A.R. Toscana; Sez. II 1.4.2011, n. 573). A tale conclusione si deve pervenire, ove si ponga mente al fatto che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura finché non vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente accettabili (cfr. Cons. Stato, sez. V, 5.12.2008, n. 6055)”.

Da ciò pare potersi affermare che le normative in materia ambientale derogano ai principi di legalità e di irretroattività delle leggi atteso il superiore interesse pubblico che esse tutelano.

Per quanto concerne le responsabilità dell’autore dell’inquinamento e quelle del c.d proprietario incolpevole del sito il Collegio, sempre con riferimento alla normativa ante Codice Ambiente, afferma che: “Con riguardo, poi, all’asserzione, fatta dai ricorrenti, che nel 1975 il riempimento della cava costituisse attività lecita, in quanto la prima disciplina in tema di discariche è stata dettata dal D.P.R. n. 915 del 1982, va richiamato il principio secondo cui l’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento. Il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alla materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma generale dell’art. 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento. Norma generale che, d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle proprie azioni e omissioni (il c.d. principio comunitario del chi inquina paga ne costituisce ulteriore specificazione in materia ambientale).

In punto di diritto è necessario ripercorrere il sistema normativo delineato dal D.Lgs. n. 22/1997, alla stregua della condivisibile ricostruzione fattane del Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI , 15.7.2010 n. 4561):

<<Il d.lgs. n. 22/1997, applicabile ratione temporis, alle ordinanze impugnate …prevede che accanto alle responsabilità dell'inquinatore si collocano, ad ulteriore garanzia dell'esecuzione degli interventi previsti, quelle del proprietario del sito inquinato.

La responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario si fondano su presupposti giuridici diversi ed hanno differente natura.

La responsabilità dell'autore dell'inquinamento, ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. La natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile dal fatto che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, in connessione con una condotta "anche accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.

Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento - o pericolo concreto ed attuale di superamento - dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario "chi inquina paga", principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15 della direttiva n. 91/156, di cui il D.Lgs. del 1997 costituisce recepimento.

Sensibilmente diversa si presenta invece la posizione del proprietario del sito, per la responsabilità del quale occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17, che dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi altresì che le spese sostenute per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.

Ne consegue che chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere reale, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza. Quella posta in capo al proprietario dall'art. 17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità "da posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.

È quindi evidente che il proprietario del suolo - che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all'inquinamento - non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito.

Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è invece individuato, sia dall'art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. 22/1997, che dagli artt. 7 e 8 del D.M. 471/1999, esclusivamente in colui che abbia cagionato l'inquinamento.

Ciò è stato reso ancora più evidente dall'art. 8 dal citato D.M., il quale individua, in conformità all'art. 17, comma 3, nel responsabile dell'inquinamento il destinatario dell'ordinanza comunale di diffida ad adottare gli interventi necessari in relazione allo stato di contaminazione dei suoli, prevedendo invece che la stessa ordinanza debba essere "comunque notificata anche al proprietario del sito" ma solo "ai sensi e per gli effetti dell'articolo 17, commi 10 e 11, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22", e cioè in relazione all'esistenza dell'onere reale sulle aree inquinate, che deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica, ed al privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.

Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure in parte, la contaminazione dello stesso, non è pertanto tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento previsto dall'art. 17 comma 2, né ad ottemperare all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito notificatagli, come si è detto, solo in ragione dell'esistenza dell'onere reale (C.d.S. n.4525/2005)>>.

Ancora, è stato posto in luce dal Supremo Consesso Amministrativo (cfr. Sez. V, 16.6.2009 n. 3885) che : << Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del diritto comunitario ed, in particolare, al principio “chi inquina paga” che va - come è tradizione nella giurisprudenza comunitaria – interpretato in senso sostanzialistico, in modo da non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario (per un richiamo all’effettività come criterio guida nell’interpretazione del diritto comunitario ambientale cfr. Corte di giustizia Ce 15 giugno 2000 in causa Arco).

Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva, nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali).

Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare – per effetto del calcolo dei rischi di impresa - la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).

Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.

Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Anche tale direttiva è conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal diciottesimo considerando della direttiva: “ secondo il principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l’autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno.”

La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso – ma tale non è il caso di specie - se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori.

Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell’ambiente, che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ, (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l’ “id quod plerumque accidit” che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.>>”.

TAR Veneto n. 373 del 2014

dott. Matteo Acquasaliente

La circolazione stradale può essere limitata per “tutelare la quiete dei cittadini residenti”

26 Mar 2014
26 Marzo 2014

Lo dice il TAR Veneto nella sentenza n. 282 del 2014.

Si legge: "2. E’ infondato il primo motivo, mediante il quale si sostiene la violazione degli artt. 6 e 7 del D.L. 34/92 n. 285, nella parte in cui prevede la necessità che i provvedimenti di limitazione alla circolazione siano motivati sulla base di argomentazioni, tassativamente individuate dalle disposizioni sopra citate.

2.1 Per la ricorrente la motivazione del provvedimento impugnato, in quanto riferita alla necessità di tutelare la “quiete dei cittadini residenti” non rientrerebbe nelle ipotesi e nelle fattispecie di cui agli articoli in questione.

2.2 Contrariamente a quanto argomentato deve ritenersi rispettato l’onere motivazionale a carico dell’Amministrazione comunale e, più in generale, le prescrizioni contenute negli art. 6 e 7 del D. L. n. 285/1992.

2.3 Sul punto va rilevato come il riferimento alla “quiete dei cittadini residenti” integra una nozione suscettibile di confluire nella tutela della salute e dell’ordine pubblico, principi questi ultimi in considerazione dei quali risultano ammissibili i provvedimenti limitativi della circolazione stradale nei centri abitati sulla base delle disposizioni sopra citate.

2.4 Va, altresì, rilevato che la Corte Costituzionale, nel ribadire la necessità di ottemperare al disposto di cui all’art. 16 della Costituzione, ha avuto modo di precisare che, i principi relativi alla libertà di circolazione e alla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione, non precludono al Legislatore la possibilità di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento  della popolazione (si veda Corte Costituzionale n. 264/1996 e n. 12 del 1965 e sent. n. 64 del 1963).

2.5 In particolare si è sancito che l'uso delle strade, specie per quanto riguarda i mezzi di trasporto, “può essere regolato sulla base di esigenze che, sebbene trascendano il campo della sicurezza e della sanità, attengono al buon regime della cosa pubblica, alla sua conservazione, alla disciplina che gli utenti debbono osservare ed alle eventuali prestazioni che essi sono tenuti a compiere”.

2.6 Si è, altresì, precisato che “la tipologia dei limiti deve essere articolata tenendo conto dei vari elementi in gioco: diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale, situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli derivanti dall'uso indiscriminato del mezzo privato”.

3. Si consideri, ancora, che la disciplina vigente al momento di emanazione del provvedimento di cui si tratta aveva già rilevato come la limitazione del rumore nelle ore notturne costituisse un elemento idoneo per circoscrivere, a sua volta, l’inquinamento acustico nei centri abitati (si veda per esempio l’art. 2 comma 1 lett.a) della L.n. 447/1995).

4. Nel caso di specie l’Amministrazione comunale, lungi dall’inibire in assoluto detto diritto di circolazione, si era limitata ad adottare un provvedimento di limitazione parziale della circolazione (dalle ore 20.00 alle 06.00), peraltro circoscritto non alla totalità degli automezzi, ma solo a quelli la cui massa fosse superiore a 35 q.

5. Detto provvedimento era stato adottato sulla base di una nota della USLL del 29/08/1997 che aveva analizzato l’esistenza di una situazione di “disturbo” correlata al traffico di mezzi pesanti, in partenza e in arrivo dai depositi della ricorrente, sulla base di un’articolata analisi dello  stato del manto stradale e del traffico esistente in varie ore della giornata.

6. Ne consegue che il provvedimento adottato, lungi da incidere in senso assoluto sulla libertà di circolazione di cui all’art. 16 e 41 della
Costituzione, risultava introdurre una limitazione proporzionale, contemperando detto principio con la necessità di garantire un
altrettanto determinante diritto alla tutela della salute e al benessere degli abitanti del luogo.

7. Sussiste pertanto, un corretto rapporto tra il mezzo adoperato e l’obiettivo perseguito, così come risultano esistenti gli ulteriori
presupposti della “necessarietà” della limitazione sancita con il provvedimento impugnato e, ancora, l’ulteriore circostanza della sua
“adeguatezza” e, ciò, in ottemperanza a quei principi giurisprudenziali già citati anche da parte ricorrente (consiglio di Stato n. 485/1991 e TAR Lombardia Brescia n.10/2011). 

8. Si consideri, in ultimo, come l’adozione delle delibere in materia di circolazione stradale costituisce espressione di un potere di
discrezionalità tecnica insindacabile da parte di questo Tribunale, al di la delle ipotesi di eccesso di potere peraltro insussistenti nel caso di specie ( T.A.R. Salerno, Campania, sez. II del 05/05/2011 n. 876).

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 282 del 2014

Gli interessi sull’indennità di esproprio liquidati dalla Corte d’Appello decorrono dal decreto di esproprio

26 Mar 2014
26 Marzo 2014

Lo precisa la sentenza del Consiglio di Stato n. 1026 del 2014.

Scrive il Consiglio di Stato: "Il TAR, accertato il passaggio in giudicato della sentenza della Corte di Appello, ha ordinato al Comune di Loreto di “depositare presso la Cassa depositi e prestiti la differenza fra l’indennità di esproprio determinata giudizialmente nella misura di €. 714,853,06 e l’importo già versato di €. 53.197,00, oltre interessi al saggio legale sulla predetta differenza a decorrere dal decreto di esproprio”...  In questa sede il contenzioso, sollevato dal Comune di Loreto a mezzo del gravame, afferisce soprattutto alla decorrenza degli interessi, non avendo – ad avviso del Comune – la Corte di appello chiaramente statuito che essi avrebbero dovuto decorrere dalla data del decreto di esproprio, anziché dalla data della sentenza...  Venendo al merito della questione, il giudicato da ottemperare conteneva la condanna dell’amministrazione al pagamento della maggior  somma oltre degli interessi al tasso legale. Nella decisione è altresì contenuto il riferimento a Cass. 8873/1993. E’ evidente che il riferimento agli interessi attenesse non al tempo successivo alla condanna - essendo l’obbligazione pecuniaria degli interessi di pieno diritto prevista direttamente dall’art. 1283 per i crediti liquidi ed esigibili (quali sono quelli per l’appunto liquidati con sentenza), ma al tempo passato, ed in particolare al periodo in cui le somme avrebbero dovuto essere concretamente erogate nella loro “giusta” entità, ossia la data del decreto di esproprio (che segna anche il passaggio della proprietà). Le ragioni del riconoscimento degli interessi sono del resto spiegate dalla pronuncia della Cassazione, cui fa puntualmente riferimento la Corte di Appello, ed essenzialmente individuabili nella necessità di compensare l’espropriato della perdita dei benefici legati al trattenimento della somma da parte dell’amministrazione, a prescindere da valutazioni in termini di colpa. Il TAR ha dunque correttamente deciso. L’appello è pertanto respinto".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1026 del 2014

Spetta alla ditta dimostrare che non è privilegiata rispetto alla altre

26 Mar 2014
26 Marzo 2014

 Nella stessa sentenza n. 327/2014 il Collegio sottolinea che la possibile posizione di vantaggio da parte di una ditta che partecipa ad una gara pubblica non esclude ex se la stessa dalla procedura, ma impone soltanto alla medesima la dimostrazione di non essere stata privilegiata rispetto alle altre partecipanti: “L’indicata e teorica posizione di vantaggio, però, non determina una automatica esclusione della concorrente, ma determina, secondo la pacifica giurisprudenza, una inversione dell’onere probatorio, ossia il concorrente “privilegiato” deve dimostrare, in concreto, di non essersi avvantaggiato della sua posizione conoscitiva ai fini dell’offerta (Corte di Giustizia delle Comunità europee 3 marzo 2005 nelle cause riunite C-21/03 e C34/03).

Il principio è stato poi ripreso anche dal Consiglio di Stato che ha precisato la necessità di evitare che vi sia una “differente posizione di partenza” nella partecipazione alla procedura di scelta, che dia luogo ad un indebito vantaggio per l’impresa aggiudicataria ( Cons. St. Sez. V, 10 agosto 2010, n. 5535).

Quindi, appare dirimente, il fatto che l’ing. Zuccolo ha avuto la possibilità di acquisire ed entrare in possesso di una serie di dati ed informazioni necessarie alla predisposizione del piano della sicurezza che, però, non sono state tutte riversate e formalizzate nel piano, o meglio non risultano messe a disposizioni di tutti i concorrenti, né lo stesso ha dichiarato formalmente di non avere ulteriori informazioni in merito all’opera da realizzare, oltre a quelle già indicate nel piano per la sicurezza.

In altri termini, il principio espresso, intende conformare le diverse posizioni dei concorrenti impedendo che una migliore e singolare conoscenza dei dati, comunque attinenti alla gara, assunti per un precedente e particolare rapporto con la stazione appaltante possa, in qualche modo, favorire il concorrente nella predisposizione dell’offerta.

Né si può, ragionevolmente, sostenere che tale principio riguardi esclusivamente il divieto, per chi ha assunto incarichi di progettazione, di partecipare alle gare per la concessione o per gli appalti di lavori pubblici, perché la partecipazione ad una procedura selettiva, di qualunque natura, deve essere informata anche dalle disposizioni di cui all’art. 2 del dlgs 163/2006, volte a garantire la non discriminazione e la par condicio tra i candidati, anche sotto il profilo conoscitivo.

E’ pertanto onere del concorrente che, in qualche modo, ha partecipato a pregressi progetti, comunque attinenti alla gara, quello di dimostrare che le conoscenze pertanto acquisite non hanno pregiudicato la regolarità della stessa né, peraltro, è sufficiente rappresentare la residualità e marginalità del precedente rapporto con la stazione appaltante, perché i dati conosciti ed informativi acquisiti, ma non partecipati, possono ingenerare il sospetto che tali cognizioni hanno avuto un significativo ruolo nell’aggiudicazione della gara.

In altre parole.

E’ necessaria una formale attestazione che i dati eventualmente acquisiti, in ragione di pregessi rapporti con la stazione appaltante, sono stati tutti partecipati agli altri concorrenti, ovvero che non sussiste una tale situazione di vantaggio.

La mancanza di una tale previsione normativa è superata dall’insegnamento giurisprudenziale comunitario riportato che ha ritenuto opportuna una inversione dell’onere probatorio in capo al soggetto che risulterebbe favorito dal precedente rapporto conoscitivo.

Quindi, è necessario considerare che i motivi di esclusione per confusione tra progettista ed esecutore indicati nell’art. 90 dlgs 163/2006, devono essere letti in combinato con l’art. 2 del codice dei contratti, in uno con la riferita inversione dell’onere probatorio.

Ciò non significa una generalizzata e indistinta interpretazione estensiva o analogica a scapito della ritenuta applicazione rigorosa e rigida della norma.

Tale costruzione dommatica deve calarsi e confrontarsi proprio con la concreta evenienza della gara e del suo oggetto così come previsto nel bando.

Nel caso in esame la peculiarità dell’opera urbanistica, cui è collegato il servizio di ingegneria oggetto di gara, comporta che non può essere sottovalutato il momento conoscitivo utilizzato da un concorrente per predisporre il piano di sicurezza di un’opera di significativo impatto sociale”.

 dott. Matteo Acquasaliente

Quando l’aggiudicazione può avvenire con il sorteggio?

26 Mar 2014
26 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 13 marzo 2014 n. 327, dichiara che, se in una gara da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa vi è una situazione di parità tra i concorrenti, l’aggiudicazione avviene con il sorteggio: “Preliminarmente il Collegio deve scrutinare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, avanzata dalla resistente e dal controinteressato, per difetto di interesse del ricorrente, atteso che lo stesso è risultato graduato al secondo posto, pari merito con un altro concorrente ed il Consiglio di Stato, nell’ordinanza n.4333/2013, è dell’opinione che tale evenienza impedisca, in ogni caso, l’aggiudicazione.

Osserva il Collegio che nel caso di specie deve trovare applicazione l’istituto dell’offerta migliorativa, così come contenuta nel regolamento di contabilità generale dello Stato (R.D. n. 827/1924), tutt’ora vigente, indipendentemente dal suo espresso richiamo nei bandi di gara, perché, la citata norma, non è stata abrogata, né implicitamente, né esplicitamente dalla successiva normativa in materia di appalti.

Conseguentemente, nel caso di offerte valutate con stesso punteggio, nella impossibilità di svolgere l’esperimento migliorativo che, comunque, da un lato meglio risponde al principio generale della libera concorrenza e, dall’altro, consente all’amministrazione di ottenere la prestazione oggetto dell’appalto alle migliori condizioni di mercato - l’art. 77 del R.D. n. 827/1924 esclude tale procedura solo “ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, o i presenti non vogliano migliorare l’offerta” (TAR Sicilia, Sezione III Palermo, 19 gennaio 2007, n. 165) -, la stazione appaltante deve individuare l’aggiudicatario attraverso il sorteggio (cfr. C.G.A. 19 marzo 2002, n. 144 e 15 febbraio 2005, n. 61).

Quindi, rilevato che la ricorrente è stata graduata ex equo con un’altra concorrente, se al momento dell’aggiudicazione, difettassero offerte migliorative, sarà compito della stazione appaltante procedere al sorteggio per individuare l’aggiudicatario”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 327 del 2014

Il condono edilizio non esclude il pagamento dell’indennità per la violazione paesaggistica

25 Mar 2014
25 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 362 del 2014.

Scrive il TAR: "4. E', infatti, noto che il provvedimento sanzionatorio emanato ai sensi dell’art. 15 della L. 1497/1939 trovi fondamento in una normativa diversa da quella prevista nelle leggi sul condono edilizio, inserendosi in un autonomo procedimento in cui intervengono altre Amministrazioni, titolari di interessi diversi, seppur connessi, con quello urbanistico, precipuamente finalizzati alla tutela dell'ambiente, del paesaggio e del territorio, nonché alla repressione di eventuali abusi.

4.1 Detta ricostruzione trova conferma anche in una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. IV, 26-11-2013, n. 5615) nella parte in cui ha sancito che, in presenza di abusi edilizi, l'oblazione di cui agli artt. 31 ss., l. 28 febbraio 1985 n. 47, e l'indennità prevista dall'art. 15, l. 29 giugno 1939 n. 1497 trovano disciplina in normative differenti che delineano procedimenti autonomi nei quali intervengono differenti autorità titolari di interessi finalizzati alla tutela dell'ambiente. Si è così previsto che “pertanto l'indennità è dovuta anche in caso in cui sia intervenuto il condono edilizio delle opere abusive ricadenti in zone paesaggisticamente vincolate, per le quali l'autorità preposta alla tutela del vincolo abbia espresso parere favorevole (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. VII, n. 1881/2008)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 362 del 2014

Spettano al G.O o al G.A. le controversie relative ai contributi pubblici?

25 Mar 2014
25 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 20 marzo 2014 n. 386, con riferimento alla procedura per l’ottenimento di aiuti agli investimenti delle nuove PMI giovanili di cui al bando approvato con delibera della Giunta Regionale Veneto n. 2762 del 2009 afferma che: “In tema di riparto di giurisdizione in materia di sovvenzioni e contributi pubblici, rilevano infatti i normali criteri di riparto, fondati sulla natura delle situazioni soggettive azionate, con la conseguenza che, qualora la controversia sorga in relazione alla fase di erogazione del contributo o di ritiro della sovvenzione sulla scorta di un addotto inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al Giudice Ordinario, anche se si faccia questione di atti denominati come revoca, decadenza, risoluzione, purché essi si fondino sull'asserito inadempimento, da parte del beneficiario, alle obbligazioni assunte a fronte della concessione del contributo.

Il privato vanta invece una situazione soggettiva di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del Giudice Amministrativo, se la controversia riguarda una fase procedimentale precedente al provvedimento attributivo del beneficio, e se, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse (così Consiglio di stato Ad. Pl. n° 6 del 2014, TAR Veneto III n° 1596 del 2012)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

 TAR Veneto n. 386 del 2014

La circolazione dei veicoli è una competenza dirigenziale e non sindacale

25 Mar 2014
25 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 19 marzo 2014 n. 352, conferma quanto commentato nel post del 22.04.2013, ovvero che spetta al Dirigente e non al Sindaco l’adozione dei provvedimenti in materia di circolazione dei veicoli: “In tema di disciplina della circolazione nei centri abitati rientrano nelle competenze della dirigenza comunale, ai sensi dell’art. 107 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (che, appunto, attribuisce “ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale”), i provvedimenti che, adottati in esecuzione degli atti di indirizzo emanati dalla Giunta, siano diretti a regolamentare le aree destinate al parcheggio a pagamento, a nulla rilevando che l’art. 7 del codice della strada attribuisca la predetta materia al Sindaco e che i provvedimenti in questione non risultino specificamente indicati nell'art. 107, III comma del del DLgs n. 267 del 2000, attesa la natura meramente esemplificativa dell'elenco contenuto in tale disposizione: la competenza già del Sindaco in tema di disciplina della circolazione deve, quindi, ritenersi attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria (cfr. TAR Veneto, I, 3.4.2013 n. 494; ord. 20.12.2013 n. 683; Cass. civ., II, 9.6.2010 n. 13885)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 352 del 2014

I commi 2 e 3 dell’art. 9 del DM 1444/68 si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come zone “C)” e non alle zone classificate come “B)”

24 Mar 2014
24 Marzo 2014

Il TAR Veneto, con al sentenza n. 364 del 2014 afferma che i commi 2 e 3 dell'articolo 9 del DM 1444 del 1968 si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come "C" e non a quelle "B": "5. Deve essere respinto anche quanto contenuto nel sesto motivo nell’ambito della quale si sostiene che risulterebbe violato l’art. 9 comma 3 del DM del 02/04/1968, nella parte in cui prevede la necessità che siano rispettate le distanze minime tra fabbricati, tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli. 

5.1 Sul punto risulta dirimente constatare l’inapplicabilità di detta disposizione al caso di specie e, in ciò, considerando come i comma 2 e 3 dell’art. 9 si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come zone “C)”, fattispecie pertanto estranea ai
manufatti, come quello in esame, che rientra nell’ambito delle zone classificate come “B)”.

geom. Daniele Iselle

sentenza TAR Veneto 364 del 2014

Differenza tra ampliamento e autonoma costruzione

24 Mar 2014
24 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 364 del 2014.

Scrive il TAR: "4. Non possono condividersi nemmeno le argomentazioni alla base del quarto e del quinto motivo, nell’ambito dei quali si sostiene che l’intervento assentito non possa qualificarsi come “ampliamento” di una costruzione preesistente, bensì costituisca un’autonoma struttura non in aderenza o in appoggio all’edificio in precedenza edificato. Come conseguenza della qualificazione del manufatto quale “autonoma costruzione”, parte ricorrente deduce il venire in esistenza del mancato rispetto della distanza di 10 metri, limite sancito dal DM del 02/04/1968.

4.1 Con riferimento a dette eccezioni va in primo luogo evidenziato che, contrariamente a quanto asserito, l’esame degli elaborati del progetto permette di rilevare l’esistenza, non di una pensilina, bensì di una vera e propria terrazza calpestabile, con funzione di unire lastruttura preesistente e quella in costruzione. 

4.2 Detta circostanza, unitamente all’utilizzo di impianti comuni, consente di rilevare l’inesistenza del carattere autonomo del  manufatto da ultimo progettato.

4.3 Va, inoltre, considerato applicabile quell’orientamento giurisprudenziale, già fatto proprio da questo Tribunale (T.A.R. Veneto
Venezia Sez. II, Sent., 07-11-2012, n. 1347), nella parte in cui ha sancito che..” per ampliamento consentito si deve intendere un'estensione materiale del fabbricato preesistente, realizzata, dunque, mediante la costruzione di un corpo edilizio contiguo al preesistente, non importa se in aderenza, in appoggio o in sopraelevazione”.

4.4 Una volta ricondotta l’opera in questione alla fattispecie dell’”ampliamento”, e non all’autonoma costruzione, è possibile ritenere inapplicabili le disposizioni del DM del 1968 sopra citate, nella parte in cui obbligano al rispetto della distanza minima tra edifici pari a 10 metri. Ne consegue come la censura sopra citata possa ritenersi infondata".

sentenza TAR Veneto 364 del 2014

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