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Dall’Ace all’Ape: alcune considerazioni sull’obbligo di certificazione energetica degli edifici – La problematica della mancanza delle norme per adempiere all’obbligo imposto

09 Set 2013
9 Settembre 2013

La Ue ha condannato l’Italia  in materia di energia. Si trattava di un non corretto recepimento della disciplina sul rendimento energetico nell’edilizia (direttiva 2010/31/UE).

Secondo la Commissione, infatti, l’Italia era venuta meno agli obblighi comunitari perché non aveva previsto nella normativa di recepimento l’obbligo di mettere a disposizione un attestato di certificazione energetica in caso di vendita o di locazione di un immobile.

L’Italia, infatti, aveva integrato nell’ordinamento interno la direttiva attraverso il Dlg 192/2005 nonché il decreto ministeriale “Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici”, del 26 giugno 2009. Tali atti, però, sono stati considerati dall’Ue incompleti.

La direttiva sul rendimento energetico dell’edilizia stabiliva che gli Stati membri provvedano affinchè l’attestato di certificazione energetica sia messo a disposizione del proprietario o che questi lo metta a disposizione del futuro acquirente o locatario.

L’attestato comprende dati di riferimento che consentono ai consumatori di valutare e raffrontare il rendimento energetico dell’edificio ed è corredato da raccomandazioni per il miglioramento del rendimento energetico in termini di costi – benefici. La certificazione , le raccomandazioni che la corredano, l’ispezione delle caldaie e dei sistemi di condizionamento d’aria devono essere effettuate in maniera indipendente da esperti qualificati e/o riconosciuti.

Gli stati dovevano conformarsi alla direttiva entro il 4 gennaio 2006. L’Italia invece aveva previsto una deroga all’obbligo di consegnare un attestato relativo al rendimento energetico, in caso di locazione di un immobile ancora privo dello stesso al momento della firma del contratto: cosa che non rispettava la direttiva, la quale non prevedeva una deroga simile; così come non la rispettava il sistema di autodichiarazione da parte del proprietario per gli edifici aventi un rendimento energetico assai basso (altro elemento non previsto dalla direttiva).

In ogni modo, al momento della scadenza del termine impartito l’Italia non aveva adottato i provvedimenti necessarie per adattarsi alla disciplina.

Il provvedimento, nel senso voluto dalla Ue,  è stato emanato , ora,  con il  Decreto Legge 4.06.2013, n. 63 convertito, con modificazioni, nella Legge il 3 agosto 2013, n. 90, entrata in vigore il 4 agosto 2013, il quale  ha previsto una serie di disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva  2010/31 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010 sulla prestazione energetica nell’edilizia. 

Il  suddetto DL ha, quindi, previsto una serie di modifiche per il Decreto del 2005. Ha sostituito, ad esempio, l’attestato di certificazione energetica (Ace) con l’attestazione di prestazione energetica (Ape), documento obbligatorio sia per le compravendite che per le locazioni. Il DL (convertito nella L. 3 agosto 2013, n. 90) ha, infatti, previsto all’art. 6, comma 3 bis, che: L'attestato  di  prestazione energetica  deve   essere allegato al contratto di  vendita,  agli  atti  di  trasferimento  di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullita' degli stessi contratti”.

L’Italia, pertanto, con i suddetti provvedimenti di recepimento della Direttiva 2010/31 Ue, ha provveduto a sanare diverse procedure di infrazione che la Comunità Europea aveva avviato contro il nostro Paese per errati o incompleti recepimenti di Direttive. Procedure che nel giugno 2013 erano sfociate in una sentenza di condanna della Corte di Giustizia Europea, essenzialmente per la mancanza dell’obbligo di consegnare l’attestato energetico in caso di vendita o locazione di un immobile.

Infatti, le nostre norme precedenti a quelle summenzionate, pur prevedendo l’obbligo di indicare in contratto di aver ricevuto informazioni  e documentazione energetica sull’immobile, prevedevano una deroga per le locazioni se questa documentazione  mancasse al momento della firma del contratto. Non solo, ma in caso di edifici con rendimento energetico basso, il proprietario poteva ovviare all’obbligo consegnando un’autocertificazione di appartenenza alla classe energetica più bassa la “G”, previsioni queste , come già riferito non contenute nella direttiva europea.

Dal 6 giugno 2013 è quindi in vigore l’obbligo di allegare ai contratti di compravendita immobiliare e di locazione  (quelli nuovi) la nuova attestazione energetica denominata appunto Ape, pena come si è visto, la nullità dei contratti stessi.

Il DL ha inoltre previsto una serie di sanzioni in caso di mancato rispetto alla produzione dell’ Ape nei confronti di tutti i soggetti coinvolti: ossia il professionista qualificato che rilascia la relazione tecnica, il direttore dei lavori, il proprietario o il conduttore dell’unità immobiliare, l’amministratore di condominio, l’operatore incaricato del controllo e manutenzione, il costruttore e il responsabile dell’annuncio immobiliare (si veda al riguardo l’art. 12 allegato al presente articolo).

Lo scopo di questa  attestazione è quello di dare ai futuri abitanti della casa un’informazione immediata su quanto consuma, sotto l’aspetto energetico, il bene che stanno per acquistare o affittare. L’indicazione è racchiusa in un documento che dal 6 giugno 2013 si chiama appunto (Ape – Attestato di prestazione energetica) e che deve essere prodotto per tutte le nuove costruzioni o in caso di ristrutturazione di un immobile, di vendita, di locazione e persino di cessione a titolo gratuito. La pena, come si è detto, è una serie di sanzioni, ma soprattutto la nullità del contratto di trasferimento.

Il quadro sulla certificazione energetica in Italia, pertanto, è stato così ridisegnato dalla suddetta Legge 90/2013, che è entrata in vigore il 4 agosto 2013 e che ha convertito il DL 63/2013 di inizio giugno. Con questo provvedimento, quindi, si sono integrati i contenuti del Dlgs 192/2005 (il testo base  nel nostro Paese sul rendimento energetico).

L’Ape , che sostituisce il vecchio Ace (Attestato di certificazione energetica), è un documento che attesta la prestazione energetica di un edificio e fornisce raccomandazioni per il miglioramento dell’efficienza energetica. A sua volta , la prestazione energetica dipende dalla quantità annua di energia effettivamente  consumata o che si prevede necessaria per soddisfare, con un uso standard dell’immobile, i vari bisogni energetici dell’edificio. Vale a dire: la climatizzazione invernale ed estiva, la preparazione dell’acqua calda per usi igienici e sanitari, la ventilazione e , per il settore terziario, l’illuminazione, gli impianti ascensori e scale mobili.

Difficile è quantificare da subito il costo del nuovo documento che, è più complesso del vecchio Ace, il quale, in linea di massima , si aggirava dai 250 ai mille euro a seconda  anche delle dimensioni della casa.

In  base alla prestazione raggiunta, l’unità immobiliare viene anche classificata in una scala da A a G. L’attestato riporta, dunque, anche la classe energetica; i requisiti minimi di efficienza energetica vigenti; le raccomandazioni per migliorare la performance, separando la previsione di interventi di ristrutturazione importanti da quelli di riqualificazione energetica.

La classificazione  deve essere rilasciata da esperti qualificati e indipendenti, in possesso di iscrizione all’Ordine  o Collegio e dei requisiti di formazione ed esperienza fissati dal Dpr 75/2013. La classificazione sarà valida per dieci anni, a meno che nel frattempo l’immobile non venga sottoposto a una riqualificazione tale da cambiare i consumi (per esempio, con la sostituzione degli infissi) o che non vengano eseguiti i controlli dei sistemi tecnici, in primis sugli impianti termici, fissati dalla legge.

Il decreto in parola  ha previsto un regime di transizione: fino all’emanazione dei decreti ministeriali che fissano i criteri di calcolo dei nuovi parametri tecnici a cui rifarsi (emanazione che dovrebbe avvenire entro gennaio 2014). Per ora si può redigere il documento riferendosi alle precedenti istruzioni tecniche inclusa nella  vecchia certificazione Ace. L’Ape sostituisce l’Ace, anche se , in attesa dei regolamenti attuativi, il calcolo rimane lo stesso. Peraltro, non sono da sottovalutare le sanzioni, che possono arrivare fino a 18 mila euro, affidate agli enti locali, Regioni e Comuni.

Alcune associazioni hanno gridato contro il provvedimento, dimenticando che l’Ace (Attestato di certificazione energetica) è in vigore dal primo di gennaio 2011 (quindi da oltre 3 anni), con l’obbligo di elaborazione ed allegazione agli atti di compravendita ed agli affitti del certificato stesso. E’ bene ricordare, però che, nonostante l’obbligo di legge, i controlli e quindi le sanzioni venivano  erogate in alcune Regioni d’Italia, mentre in altre il lassismo normativo era stato totale.

Oggi, con la norma in vigore dal 5 agosto l’attestazione  di prestazione energetica (Ape) si è scontrata con la realtà, la mancanza di norme che dettino criteri per poter ottenerla. La Confedilizia ha dovuto imporre , quindi, alle proprie associazioni territoriali il blocco immediato della stipula dei contratti di locazione sia abitativa, sia ad uso diverso.

Anche i notai hanno fatto presente come in questo momento possa essere rischioso stipulare un contratto di compravendita a causa  dell’incertezza che regna sulla materia. Nel caso dell’Ape, infatti, la norma  prevede l’obbligo di allegazione  dell’attestazione a pena di nullità assoluta dei contratti di locazione e compravendita senza che però esista l’apposito decreto interministeriale che spieghi  come ottenerla.

Dal Governo, inoltre, non è  arrivata alcuna indicazione circa i tempi per i decreti attuativi.

In base alla circolare del ministero dello sviluppo economico del 25 giugno 2013 il nuovo attestato non può, infatti, essere predisposto prima dell’emanazione del previsto decreto interministeriale avente ad oggetto l’adeguamento del precedente provvedimento sulla documentazione energetica e la fissazione  dei criteri e dei contenuti obbligatori dell’Ape.

La conseguenza diretta di questa situazione è che ad oggi chiunque si accinga a stipulare un contratto di compravendita o locazione non ha alcun tipo di via d’uscita. Incorre, infatti, in una nullità assoluta sia che alleghi solo l’Ace, sia che non alleghi nulla.

Se da un lato, è stata più volte espressa la volontà politica di rimediare alla stortura normativa introdotta alla Camera durante i lavori sul decreto energia, ora legge 90/2013, dall’altro lato va rilevato che permane una notevole incertezza normativa per gli operatori economici e per i cittadini che devono stipulare contratti di locazione o di compravendita di immobili.

avv. Gianmartino Fontana

 D.L. 63 del 2013

Il Comune non può revocare un piano attuativo senza comparare l’interesse pubblico con quello dei privati al suo mantenimento

09 Set 2013
9 Settembre 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 1089 del 2013.

Scrive il TAR: "3. Nel merito, risulta fondato il primo motivo di ricorso, laddove si è contestata la violazione delle norme e dei principi che disciplinano l’istituto della revoca degli atti amministrativi.
3.1. Infatti, anche se in linea di principio non sussistono ragioni ostative alla possibilità di revoca di un piano attuativo da parte del Comune, rimanendo pur sempre l’Amministrazione arbitra della destinazione urbanistica da imprimere alle aree comprese nel territorio comunale, tuttavia, l’esercizio di tale potere di revoca, proprio per il suo particolare oggetto, dovrà tener conto dell’efficacia decennale del piano attuativo e dell’affidamento dei proprietari delle aree sulla possibilità di realizzare le opere ivi contemplate fino alla compiuta scadenza dello stesso.
Conseguentemente, nel caso specifico, la verifica dell’esistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di revoca non può prescindere dalla considerazione di tali elementi. Non potendosi, peraltro dubitare dell’esistenza di una posizione qualificata e differenziata maturata dai privati proprietari a seguito dell’approvazione del piano attuativo, vantando essi un’ aspettativa, assistita da uno specifico affidamento, alla realizzazione dell’operazione di riqualificazione prevista dal piano particolareggiato, comprensiva dell’assegnazione di nuove potenzialità edificatorie dei suoli, ed alla corrispondente cura dell’ Amministrazione a non compromettere quell’interesse senza la sua ponderazione insieme con l’ interesse pubblico. Ebbene, nel caso di specie, nella motivazione della delibera di revoca impugnata è totalmente assente la considerazione degli interessi dei privati proprietari e dunque il momento di comparazione degli interessi implicati dalla scelta operata dalla P.A. . Ciò costituisce un primo motivo di illegittimità della delibera di revoca.
3.2. In secondo luogo, va osservato che, ai sensi dell’art. 21 quinquies L. 241/1990, la revoca di un atto amministrativo può essere disposta nel caso di sopravvenienze (mutamento della situazione di fatto ovvero sopravvenuti motivi di interesse pubblico) ed in caso di diversa valutazione dell’interesse pubblico originario (ius poenitendi, che comporta una riconsiderazione dell’originaria situazione di fatto). In sostanza, la ratio di tale istituto è l’incompatibilità fra il perdurare degli effetti di un provvedimento già adottato ed interessi ritenuti dalla P.A. preminenti. Inoltre, va osservato che, costituendo la revoca espressione dell’esercizio di un potere di amministrazione attiva, essa deve essere assistita dalla necessità di cura di un interesse pubblico concreto ed attuale. Per tale ragione, la giurisprudenza costante richiede, ai fini della legittimità dei provvedimenti in discorso, l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione degli effetti dell’atto originario. Ciò premesso, nel caso in esame, la delibera di revoca impugnata si basa, in sostanza, sulle seguenti considerazioni: a) la sopravvenuta incompatibilità del rilevante volume edificabile previsto con l’attuale andamento del mercato immobiliare nel periodo di crisi economica; b) la negativa incidenza di tale nuova cubatura sulle caratteristiche del borgo medievale di Portobuffolè; c) la necessità di riconsiderare urbanisticamente l’ambito in oggetto in funzione delle linee di sviluppo che verranno stabilite in sede di redazione del P.A.T.I. . Ebbene, è evidente che tali generiche indicazioni non sono sufficienti ad integrare quegli interessi pubblici concreti ed attuali che possono legittimare la rimozione del piano attuativo. Né il riferimento alla crisi economica generale, che riguarda l’intero Paese, che può al massimo incidere sugli interessi economici dei proprietari interessati al Piano, e che, di per sé, non impedisce la possibilità del verificarsi di condizioni favorevoli per l’attuazione del Piano entro il suo periodo decennale di efficacia. Né l’esigenza di conservare le caratteristiche tipiche del borgo medievale, trattandosi di una considerazione generica, ed assumendo in tal caso la scelta della revoca le caratteristiche di un semplice ripensamento, nella fattispecie incompatibile con l’efficacia predeterminata del piano attuativo (che altrimenti verrebbe privata di ogni vincolatività). Infine, il terzo elemento indicato nella motivazione rivela piuttosto come non vi sia attualmente, non solo alcuna sopravvenuta incompatibilità del Piano attuativo con la pianificazione di livello superiore, ma nemmeno alcun sopravvenuto motivo di pubblico interesse, essendo stato operato un generico richiamo alle diverse valutazioni che potrebbero essere compiute dal P.A.T.I. ancora “in fase di studio”. Pertanto, le indicazioni contenute nell’atto gravato, lungi dal concretizzare la motivazione necessaria, evidenziano la carenza dell’elemento strutturale del provvedimento di revoca, ossia l’indicazione dell’attualità dell’interesse alla rimozione.
4. Conclusivamente, senza intaccare i profili del merito amministrativo, la motivazione della delibera di revoca appare oggettivamente carente sotto plurimi profili".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1089 del 2013

La questione giuridica relativa alla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi

05 Set 2013
5 Settembre 2013

Pubblichiamo alcuni documenti utili per comprendere quale sia la complicata questione giuridica sottostante alla discussione relativa alla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi, a seguito della sua condanna definitiva in sede penale:

  • pareri "pro veritate" (sostanzialmente "pro Berlusconi"), presenti su vari siti (www.federalismi.it; www.huffingtonpost.it; ecc.)
  • una loro sintesi "giornalistica" (tratta da www.huffingtonpost.it)
  • un post del prof. Roberto Zaccaria sulla questione della legittimazione (o meno) della Giunta per le elezioni a sollevare questione "incidentale" di legittimità presso la Corte costituzionale (tratto da www.robertozaccaria.it)
  • le sentenze/ordinanze della Corte costituzionale citate dal prof. Zaccaria e che dovrebbero essere le stesse su cui si basa il c.d. "lodo Violante"
  • un commento (di epoca "non sospetta") alla sentenza della Corte costituzionale 259/2009).

Parere_Nania

Parere_Pansini

Parere_Spangher

Parere_Caravita_DeVergottini_Zanon

Parere_Guzzetta

Parere_Marandola

Sintesi_pareri_pro_Berlusconi

CORTE COSTITUZIONALE SU GIUNTA ELEZIONI COME ORGANO GIURISDIZIONALE

Corte_cost_ordinanza_117-2006

Corte_cost_sentenza_259-2009

Torretta_nota_Corte_cost_259_2009_Forum_costituzionale

E’ legittimo insediare un distributore di carburante nelle zone col vincolo paesaggistico

05 Set 2013
5 Settembre 2013

Lo dice la sentenza del TAR Veneto n. 1082 del 2013.

Scrive il TAR: "4. E’ altrettanto, infondato il terzo motivo nella parte in cui si sostiene che la vigenza di una disciplina speciale in materia di distribuzione dei carburanti avrebbe precluso la possibilità di insediare un distributore nelle zone di pregio ambientale. Parte ricorrente sostiene, altresì, l’inidoneità della motivazione della Soprintendenza e, ciò, unitamente all’analoga motivazione contenuta nell’autorizzazione contenuta nel parere di compatibilità paesaggistica.
4.1 In primo luogo va rilevato come, contrariamente a quanto asserito, non sussiste una disposizione normativa che impedisce, quanto meno in senso assoluto, l’installazione di una stazione di servizio sull’area vincolata, non potendo essere utilizzate in tal senso la Legge Reg. 23/2003 né, ancora, il d.Lgs. 32/1998.
4.2 Va, altresì, rilevato che il parere vincolante della Soprintendenza, il parere della Commissione Edilizia, così come la successiva autorizzazione paesaggistica emanata dal Comune, hanno in sé tutti gli elementi tipici idonei a determinare la compatibilità dell’opera con il paesaggio e l’ambiente e, ciò, malgrado la sinteticità della motivazione utilizzata.
Nello specifico il progetto è stato ritenuto non pregiudizievole del sito tutelato, “rispettoso della specificità e peculiarità del contesto e dei valori paesaggistici” e, pertanto, “compatibile con la conservazione degli elementi di interesse ambientale e paesaggistico caratterizzanti l’area soggetta alle disposizioni di tutela ai sensi della Parte Terza del D.Lgs. 42/2004”.
4.3 Si consideri, ancora, che proprio l’esame dell’istruttoria, preliminare all’emanazione degli atti sopracitati, è possibile ripercorrere – seppur “per relationem” - l’iter logico seguito nel determinare il giudizio di compatibilità sopra rilevato.
4.4 Detto giudizio di compatibilità riguarda sia, la disciplina vigente sia, anche il PALAV e, ciò, considerando che gli accessi previsti dal permesso di costruire sono il risultato di una riorganizzazione di quegli stessi accessi preesistenti, senza che ne sussista l’apertura di nuovi".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1082 del 2013

Ancora sulla disciplina del PTRC per le aree afferenti ai caselli autostradali, gli accessi alle superstrade e alle stazioni SFMR

04 Set 2013
4 Settembre 2013

Il dott. Roberto Travaglini di Confindustria Vicenza, che sentitamente ringraziamo, ci invia la nota che pubblichiamo.

Ancora sulla disciplina del PTRC per le aree afferenti ai caselli autostradali

Provincia_Vicenza_aree_art_38_PTRC

Comune_Vicenza_aree_art_38_PTRC

Comune_Verona_aree_art 38_PTRC

Comune_Padova_aree_art_38_PTRC

Quando una scuola è opera di urbanizzazione esente dal contributo di costruzione

04 Set 2013
4 Settembre 2013

La questione è affrontata dalla sentenza del TAR Veneto n. 1086 del 2013.

Scrive il TAR: "1. La questione centrale da affrontare nell'ambito del presente giudizio si risolve nel quesito del se la scuola (d’infanzia, primaria e secondaria) realizzata dalla International School s.r.l. sia qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria eseguita in attuazione di strumenti urbanistici, poiché in tal caso la ricorrente sarebbe esonerata dal pagamento del contributo di costruzione, in entrambe le sue componenti commisurate agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione. In proposito la ricorrente afferma di avere diritto all’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, ai sensi dell’ultimo periodo della lettera c) del comma 3, dell’art. 17, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto l’intervento costituirebbe opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici. In particolare, osserva la ricorrente, si tratterebbe di opera di urbanizzazione in quanto l’art. 16, comma 8, del D.P.R. 380 del 2001, nell’enumerare le opere di urbanizzazione secondaria, menziona le strutture scolastiche. D’altro canto, il P.R.G. del Comune di Venezia, all’art. 54 delle n.t.a., nell’area interessata prevede la realizzazione di attrezzature collettive di categoria “F” tra le quali sono comprese anche le scuole. Viceversa, secondo la tesi della difesa del Comune, affinché possa qualificarsi un intervento come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici” è necessario che esso sia specificamente indicato nello strumento urbanistico, mentre, nel caso di specie, mancherebbero specifiche prescrizioni degli strumenti urbanistici che prevedano la necessaria realizzazione della scuola in questione.
2. Ciò premesso, le norme del testo unico dell’edilizia prevedono, per quanto interessa il presente giudizio, un'ipotesi di esenzione totale dal contributo di costruzione (art. 17 comma 3 lett. c del D.P.R. n. 380 del 2001) e un'ipotesi di scomputo della quota del contributo di costruzione relativa agli oneri di urbanizzazione (art. 16 comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001). Nell'ipotesi relativa all'esenzione totale il privato realizza un'opera qualificabile d’interesse pubblico sulla base delle previsioni dello strumento urbanistico generale o dei piani attuativi. In tal caso, l'utilità per l'amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione dell'opera e pertanto l'esenzione è automatica. Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 2870 del 12 maggio 2011, ha rilevato che “il concretarsi dell'ipotesi di esenzione dal contributo concessorio ex art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001, si riscontra in presenza di opere classificabili come di urbanizzazione, purchè esse siano realizzate, anche da privati, "in attuazione di strumenti urbanistici". Rileva, dunque, ed è sufficiente, non ponendo la norma altre condizioni, che l'opera attui, ossia ponga in essere quanto previsto dallo strumento, realizzando la configurazione di opere di urbanizzazione in esso contemplata”. Pertanto, e su questo punto il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza appellata del T.a.r. Brescia, affinchè un’opera possa essere classificata come di urbanizzazione e attuativa di strumenti urbanistici ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001, non è necessario che la stessa sia specificamente contemplata dallo strumento urbanistico generale o da quello attuativo, essendo sufficiente che essa costituisca la traduzione in opera di quanto previsto dallo strumento urbanistico in punto di destinazione di una certa area a strutture di urbanizzazione secondaria.
3. Ebbene, nel caso di specie, lo strumento urbanistico, se pure non ha previsto nello specifico la realizzazione di un istituto scolastico laddove  è stata realizzata la scuola inglese in questione, tuttavia, all’art. 54 delle n.t.a., prevede che la zona A “attrezzature d’interesse comune” in cui ricade l’area interessata dalla costruzione della scuola, sia destinata ad attrezzature collettive a disposizione della generalità dei cittadini (categoria F). L’art. 8 delle n.t.a. specifica che nella categoria F – attrezzature collettive – rientrano i servizi sociali, sanitari, scolastici, le istituzioni culturali, religiose, ricreative o di spettacolo, sportive, politiche, le residenze protette. E’ chiaro, dunque, che la zona “A” sia destinata ad ospitare strutture di urbanizzazione secondaria (art. 16 comma 8 del D.P.R. n. 380/2001). Infine, l’art. 3.1.1. delle n.t.a. stabilisce che l’attuazione del P.R.G., nelle aree da utilizzare per nuove attrezzature pubbliche di interesse generale (zone F), possa avvenire anche per opera dei privati mediante l’assoggettamento all’uso pubblico del suolo e dei relativi impianti. “Detto assoggettamento avviene a mezzo di convenzione (da trascrivere nei registri immobiliari) con la quale il proprietario – tenuto conto delle esigenze di equa remunerazione del capitale da investire e dell’attività di gestione – si impegna a realizzare ed a ultimare, entro un termine stabilito, le costruzioni, le sistemazioni e gli impianti necessari per attuare l’uso previsto dal P.R.G. ed a mantenerli in stato adeguato per il loro pieno e permanente utilizzo nonché per consentirne la fruizione da parte del pubblico nei modi e alle condizioni da stabilire secondo criteri convenzionalmente fissati..”.
4. Proprio in esecuzione di tali disposizioni, con atto unilaterale d’obbligo registrato il 5 novembre 2009, la International School si è obbligata ad assoggettare all’uso pubblico la struttura scolastica ed i relativi impianti “al fine di garantire la finalità pubblica del servizio d’istruzione offerto”. Tale assoggettamento viene richiamato nel permesso di costruire dell’11 novembre 2009. Ed anche il permesso di costruire in variante dell’agosto del 2011 prevede la condizione per cui “l’uso del manufatto sia mantenuto nei limiti rigorosi delle destinazioni autorizzate con il presente atto. Eventuali modifiche d’uso, anche in assenza di opere edilizie, potranno avvenire nei limiti di quanto prescritto dall’art. 54 della VPRG ed in ogni caso solo in presenza di preventivo convenzionamento con l’amministrazione comunale”. 5. Pertanto, la scuola in questione - in quanto struttura in cui si assolve il diritto dovere all’istruzione e alla formazione, nel rispetto degli standard di legge relativi a progetto educativo, offerta formativa, ordinamento scolastico, attrezzature e locali, personale docente, numero degli alunni - è riconducibile alla previsione di opere essenziali e necessarie per assicurare un’adeguata urbanizzazione degli insediamenti. Inoltre, la stessa, in attuazione delle citate disposizioni di P.R.G. relative alle opere d’interesse collettivo realizzate da privati, è anche soggetta ad un controllo pubblico per quanto riguarda l’espletamento delle funzioni di interesse generale, essendo la gestione della stessa oggetto di convenzionamento con il Comune. In definitiva, anche se l’ingresso alla scuola è condizionato al pagamento di una retta ed è presente uno scopo lucrativo nell’attività della società che la gestisce, non si tratta di un'iniziativa economica di esclusivo interesse privato, bensì di un’opera realizzata per rendere servizi che siano accessibili e fruibili da parte della collettività.
6. E, d’altra parte, appare significativo che l’amministrazione, sin dalla conferenza di servizi del 17 settembre 2009 nella quale è stata esaminata la domanda di permesso di costruire, abbia considerato l’opera in questione “di notevole interesse pubblico (opera di urbanizzazione)”, e dunque idonea a soddisfare un determinato interesse pubblico. Tant’è che l’amministrazione comunale, attraverso l’atto d’obbligo, ha imposto l’assunzione di specifici obblighi in ordine alla gestione del plesso scolastico e al mantenimento della struttura e della destinazione, volti a conformare il progetto alla destinazione urbanistica dell’area e ad adeguarlo alla necessità di realizzarvi un’opera di urbanizzazione. 7. Da ultimo, è la stessa amministrazione comunale, nella relazione dimessa in esecuzione dell’ordinanza istruttoria di questo Collegio, a confermare che “la scuola realizzata dalla International School è senza dubbio un’opera di urbanizzazione secondaria conforme alle previsioni urbanistiche”. Tuttavia, secondo l’amministrazione, l’esenzione dal contributo di costruzione non spetterebbe, trattandosi di opera solo conforme alle previsioni urbanistiche, ma non attuativa delle stesse come invece richiesto invece dall’art. 17 comma II lett. c) del D.P.R. n. 380/2001.
8. Invero, si è detto che tale troppo sottile distinzione tra opera di urbanizzazione attuativa del piano e opera semplicemente conforme perché non esattamente contemplata nel piano, è stata criticata dal Consiglio di Stato con la sopra citata sentenza n. 2870/2011, e ciò condivisibilmente, in quanto il piano regolatore contiene previsioni generali destinate a trovare attuazione in sede esecutiva, sia mediante la preventiva adozione di piani attuativi, sia, come nel caso di specie, mediante intervento diretto. Per cui ogni intervento conforme alla previsione generale costituisce attuazione della stessa; i due concetti si sovrappongono senza che vi sia spazio per una mera conformità urbanistica al piano regolatore generale che non costituisca al tempo stesso attuazione del piano. Nel caso di specie, si è già detto, la realizzazione della scuola inglese in quella determinata area, non solo è conforme alla previsione generale, ma costituisce attuazione della previsione dello strumento urbanistico che aveva riservato quello spazio ad attrezzature collettive. 9. Infine, non appare che la natura non paritaria della scuola inglese in questione possa rilevare agli effetti della sua qualificazione o meno come opera di urbanizzazione. In quanto ciò che rileva è che la scuola assolva alla funzione pubblica presupposta nella pianificazione urbanistica; e proprio a tal fine, con la stipula dell’atto d’obbligo, l’amministrazione ha imposto alla società realizzatrice una serie di obblighi atti ad assoggettare all’uso pubblico il plesso scolastico e a garantire la finalità pubblica del servizio d’istruzione offerto.
10. In conclusione, sulla base di tali elementi, come correttamente aveva rilevato la stessa amministrazione comunale nella conferenza di servizi del 17 settembre 2009 prodromica al rilascio del permesso di costruire (doc. 6 ric.), si deve ritenere che l’edificio scolastico in questione costituisca “un’opera di urbanizzazione secondaria” (realizzata da un privato in attuazione del P.R.G. vigente) “come tale non soggetta alla corresponsione del contributo di costruzione”.

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1086 del 2013

Prosegue l’eliminazione delle zone di attenzione del PAI

04 Set 2013
4 Settembre 2013

Facendo seguito alla nota del 15 luglio 2013, segnaliamo che sono state stralciate dal PAI anche le seguenti zone di attenzione:

-  -  con il Decreto segretariale n. 2015 del 30 luglio 2013 sono state stralciate le zone di attenzione site nei Comuni di Albettone, Arzignano, Bolzano Vicentino, Brendola, Bressanvido, Caldogno, Carmignano di brenta, Casale di Scodosia, Cologna Veneta, Costabissara, Fontaniva, Grantorto Granze, Isola Vicentina, Marostica, Mason Vicentino, Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale, Minerbe, Montagnana, Montebello Vicentino, Montecchio Maggiore, Montorso Vicentino, Ponso, Pressana, Rovereto di Guà, Saletto, San Pietro in Gù, Sant’Elena, Santa Margherita d’Adige, Schiavon, Solesino, Stanghella, Thiene, Torreglia, Urbana, Villa Estense, Villaverla;

 -  -  con il Decreto Segretariale n. 2191 del 27 agosto 2013 sono state stralciate le zone di attenzione site nei Comuni di Bassano del Grappa, Cassola, Castelbaldo, Cittadella, Galliera Veneta, Marostica, Masi, Mason Vicentino. Molvena, Nove, Piacenza d’Adige, Pianezze, Romano d’Ezzelino, Rosà;

 -  - con il Decreto Segretariale n. 1891 del 17 luglio 2013 sono state stralciate le zone di attenzione site nei Comuni di Camisano Vicentino, Grisignano di Zocco, Montegalda, Longare, Torri di Quartesolo, Grumolo delle Abbadesse.

 dott.sa Giada Scuccato

Opere difformi da progetti degli anni ’60 e inutili tentativi di sanarle anche se all’epoca erano modifiche irrilevanti

03 Set 2013
3 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1077 del 2013 esamina un caso in cui un immobile risulta parzialmente difforme dai progetti risalenti agli anni '60 e ribadisce che le opere difformi sono sanabili solo se sussista il requisito della doppia conformità (art. 36 DPR 380). Sulla base di tale principio risulta non decisivo che all'epoca di realizzazione delle opere le modifiche rispetto al progetto fossero  irrilevanti (per esempio, rispetto alla distanza dai confini, che non  erano allora previste). Inoltre non si può attribuire valore di sanatoria implicita al successivo rilascio nel corso del tempo di altri titoli edilizi nei quali fosse rappresentato l'immobile difforme, se il titolo aveva per oggetto opere diverse da quelle difformi (per esempio la recinzione).

Dal punto di vista della stretta applicazione della legge sarà sicuramente così, ma ciò non toglie che ci sia in questo qualcosa di profondamente ingiusto, tenendo conto del fatto che negli anni '60 erano gli stessi comuni (per voce del sindaco o dell'assessore) che spesso "autorizzavano" verbalmente le modifiche rispetto al progetto approvato, soprattutto quando erano considerate irrilevanti (per esempio rispetto alla localizzazione), dicendo che non serviva presentare un nuovo progetto o una variante e che il successivo rilascio dell'abitabilità avrebbe coperto la modifica. Forse bisognerebbe chiedersi se non si debba invocare anche in questa materia "il principio di inesigibilità" di penalistica memoria.

Scrive il TAR: "1. Con un unico motivo parte ricorrente sostiene che le difformità rispetto al progetto originario, contenute nel provvedimento di diniego, risulterebbero legittimate dai successivi permessi edilizi che hanno riguardato l’immobile di cui si tratta. Si evidenzia, ancora, che le disposizioni relative alle distanze sui confini, oggi contenute nell’art. 29 delle NTA non risultavano vigenti al momento in cui l’immobile veniva assentito dai permessi di costruire n. 213/1961 e 592/1966. 2. Detta ricostruzione non può essere condivisa. In primo luogo va rilevato come le argomentazioni di parte ricorrente, confermano, seppur indirettamente l’esistenza di una difformità in materia di distanze rispetto al progetto in origine assentito, difformità che evidentemente avevano determinato la stessa ricorrente a presentare l’istanza di sanatoria ora sottoposta a questo Collegio.
2.1 Va, inoltre, premesso che l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del Dpr 380/2001 richiede, come è noto, che sia soddisfatto il requisito della c.d. doppia conformità che, a sua volta, presuppone che l’opera sia conforme alla disciplina vigente in due differenti momenti storici: quello in cui l’opera era stata realizzata e, ancora, quello relativo al momento in cui viene presentata la domanda di sanatoria.
2.2 L’intento del legislatore è stato quello di circoscrivere gli effetti “sananti”, al fine di regolarizzare quelle opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma che risultano conformi, nella sostanza, alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono (in questo senso T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 03-12-2010, n. 1931).
3. Tutto ciò premesso va considerato, e con riferimento al caso di specie, che le argomentazioni di parte ricorrente dimostrerebbero, tutt’al più, una conformità dell’opera nel solo momento l’opera veniva realizzata.
3.1 A detta conclusione è possibile giungere considerando quegli elementi riconducibili, in particolare, all’asserita inesistenza della disciplina delle distanze al momento in cui l’immobile veniva costruito e, ancora, alla rappresentazione del lotto posta in essere dal Comune di San Pietro in Cariano e ritenuta erronea dalla parte ricorrente. 4. E’ però, altrettanto, evidente che, nel caso di specie, non sussiste la conformità dell’opera al momento in cui la domanda di costruire veniva presentata e, ciò, come correttamente ha ritenuto sia, l’Amministrazione comunale nel provvedimento impugnato sia, ancora, il Consulente Tecnico d’ufficio, nominato dal Giudice Ordinario nell’ambito della controversia civile attivata dagli stessi ricorrenti e sopra ricordata.
4.1 Al momento in cui detta domanda veniva presentata risultava, infatti, vigente sia l’art. 29 delle NTA del Piano Regolatore sia il DM 1444/68 che, ponendo l’obbligo del rispetto di precise distanze dai confini, avevano l’effetto di determinare il Comune nel rigetto dell’istanza in precedenza presentata.
4.2 Si consideri che una volta verificate le difformità dell’opera rispetto al progetto originario l’Amministrazione comunale, avuto presente la
verifica circa la conformità alla normativa urbanistica ed edilizia vigente, risulta titolata all’esperimento di un’attività oggettiva e vincolata in relazione alla quale non sussiste alcun margine di discrezionalità.
4.3 Un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, 02-09-2010, n. 1887 e T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 12-10-2012, n. 751) ha sancito, infatti, che “in tema di violazioni inerenti la normativa edilizia, il permesso in sanatoria è un provvedimento tipico disciplinato, in maniera specifica, dall'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001. Siffatta rigida tipicità risulta ostativa rispetto ad una possibile estensione di tale potere al di fuori dei presupposti, inerenti alla necessità della doppia conformità (alla normativa vigente al momento della realizzazione ed a quella di presentazione dell'istanza), come dettati dalla citata norma di riferimento. Non sono ammessi, in altri termini, spazi residui che consentano di affermare la sopravvivenza della cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", ….”.
4.4 E’ allora del tutto evidente che nell'accertamento di conformità regolato dall'art. 36 del d.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) il Comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, con la conseguenza che la verifica dei presupposti sopra precisati assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali.
4.5 Si consideri, ancora, come non sia possibile nemmeno condividere l’argomentazione di parte ricorrente nella parte in cui ritiene che l’immobile, per quanto concerne le distanze, dovesse considerarsi già autorizzato dai successivi titoli edilizi, poi emanati dall’Amministrazione comunale.
4.6 Sul punto va rilevato che le successive licenze hanno avuto ad oggetto la realizzazione di opere e lavori del tutto differenti che, in quanto tali, erano riferiti alla realizzazione di un ampliamento e di una recinzione (la licenze del 1971 e del 1985).
4.7 E’ parimenti evidente come non sia condivisibile l’argomentazione in base alla quale un’autorizzazione a realizzare una recinzione (di cui alla licenza del 1971) abbia un effetto sanante per quanto riguarda le difformità inerenti alla sagoma dell’edificio o, ancora, come detto effetto possa essere correlato alla licenza del 1966 in quanto diretta a permettere l’esecuzione di un ampliamento.
5. Ne consegue come detti provvedimenti, pur avendo a riferimento una situazione differente rispetto a quella originaria, non sono suscettibili di costituire una sanatoria, nemmeno implicita di precedenti difformità a, ciò, ostando l’obbligo del rispetto delle prescrizioni e del procedimento delineato dall’art. 36 del Dpr 380/2001.
6. Ne consegue che una volta accertata la mancanza dei presupposti sopra indicati il Comune non poteva non emanare il provvedimento di rigetto ora impugnato e, ciò, in adesione ai principi sopra ricordati".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1077 del 2013

Il cambio d’uso senza senza opere non è libero, ma è “variazione essenziale” qualora implichi una variazione degli standard previsti dal DM 2 aprile 1968, n. 1444

03 Set 2013
3 Settembre 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1078 del 2013.

Scrive il TAR: "5. E’ parimenti infondato il quinto, il sesto e l’ottavo motivo mediante i quali si rileva il venire in essere di un eccesso di potere in considerazione del fatto che sulla base della disciplina tutt’ora vigente il mutamento di uso senza opere dovrebbe essere ritenuto “libero” e, ancora, che l’attività di cui si tratta, anche laddove venisse qualificata come commerciale, non avrebbe comportato un mutamento di destinazione d’uso rilevante sul piano urbanistico.
5.1 In relazione a quanto dedotto va ricordato come l’Amministrazione comunale abbia contestato un mutamento di destinazione d’uso, nell’ambito del quale sono state eseguite opere edilizie non autorizzate, consistenti nella realizzazione di un magazzino e di servizi igienici e, ciò, pur considerando come l’ordinanza faccia riferimento alla possibilità che dette opere possano essere sanate.
5.2 Ma anche a prescindere della rilevanza delle opere sopra citate al fine di qualificare la natura del mutamento di destinazione d’uso, sul punto risulta dirimente constatare che l’utilizzo dell’area a fini esclusivamente commerciali determinerebbe, di per sé, il venire in essere di un carico urbanistico e, ciò, considerando la necessità di realizzare quei parcheggi previsti dall’applicazione degli artt. 32 e 52 delle NTO del Piano degli Interventi. Conseguenza diretta dell’applicazione di dette disposizioni è quella di correlare il mutamento di destinazione d’uso di cui si tratta all’acquisizione di un titolo edilizio, circostanza che a sua volta comporta, nell’ipotesi di provvedimenti sanzionatori, l’inevitabile applicazione degli art. 31 e 32 del Dpr 380/2001.
5.4 Sul punto va, pertanto, richiamato quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 08-03-2013, n. 580) nella parte in cui ha precisato che tutte le volte che il cambio di categoria edilizia determina il venire in essere di un carico urbanistico, unitamente alla dotazione di standards, specie di parcheggi, detta circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l'effettuazione di opere edilizie. Detto costante orientamento giurisprudenziale (si veda anche T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, 27-07-2012, n. 2146) ha sancito, tra l’altro, che “In materia edilizia, l'art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), qualifica come "variazione essenziale" - sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 (T.U. Edilizia) con l'obbligo di demolizione e riduzione in pristino - il mutamento di destinazione d'uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 2 aprile 1968, n. 1444”. Le censure sopra citate sono, pertanto, infondate.
6. Va rigettata anche l’argomentazione, contenuta nel settimo motivo, mediante la quale si sostiene l’illegittimità degli art. 32 e 52 delle NTO nella parte in cui dette disposizioni assoggetterebbero alla disciplina del permesso di costruire i mutamenti di destinazione d’uso di cui si tratta.
6.1 In relazione a quanto dedotto va rilevato che in mancanza di una disciplina regionale, e nell’ipotesi di una pluralità di usi ammessi su una determinata zona, sia inevitabile applicare il DM 1444 del 1968 nella parte in cui prevede determinati standards per le singole zone, standards che hanno costituito, per il Comune, il riferimento per adottare quelle norme tecniche operative ora impugnate nel presente ricorso.
6.2 Ne consegue che lungi dal sussistere quella violazione della riserva di legge, correlata all’applicazione dell’art. 10 del Dpr 380/2001 nei confronti delle Regioni, si è di fronte alla mera applicazione di una disciplina che consente al Comune di differenziare determinati mutamenti di destinazione d’uso che pur essendo senza opere, incidono comunque sul territorio".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1078 del 2013

Risarcimento danni da lesione di interesse pretensivo: danno emergente, lucro cessante e perdita di chances?

02 Set 2013
2 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto  n. 1073 del 2013, già allegata al post che precede, dopo avere ritenuto risarcibile il danno da lesione di interesse legittimo pretensivo (illegittimo diniego di titolo edilizio e sopravvenita normativa del PAI che ne impedisce il rilascio), si occupa della quantificazione del danno risarcibile.

Il TAR approfondisce tre questioni: danno emergente, lucro cessante e perdita di chances.

Scrive il TAR: "5. Per quanto attiene la quantificazione del “danno emergente” va rilevato come la perizia prodotta dal ricorrente contenga, allegate, le
fatture pagate dello stesso attore nei confronti del professionista che ha redatto la progettazione dell’edificio, fatture che contrariamente a quanto sostenuto nel testo del ricorso ammontano a Euro 22.520,83, danno quest’ultimo che risulta pertanto compiutamente provato e, ciò,unitamente al nesso di causalità con i provvedimenti di diniego sopra citati.
6. Per quanto attiene il “mancato guadagno” va, inoltre, precisato come parte ricorrente richieda il ristoro delle somme sostenute per la predisposizione del progetto della cantina e delle pratiche connesse e, nel contempo, il risarcimento corrispondente ai minori redditi annuali, conseguenti all’impossibilità di edificare la cantina, somma pari a Euro 660.000,00 - per i primi dieci anni successivi al momento in cui il permesso di costruire avrebbe dovuto essere rilasciato -, nonché dell’ulteriore importo relativo agli anni successivi al decimo in ragione di Euro 126.000,00 euro all’anno.    6.1 Sempre parte ricorrente sostiene, nel petitum del ricorso, il diritto ad ottenere il ristoro del danno conseguente “alla minore redditività” conseguente alla mancata edificazione della cantina. Nella successiva perizia è stato depositato un contratto di affitto, stipulato nell’eventualità in cui detta cantina fosse stata realizzata, dal quale si deduce che detto danno di “minore redditività” ammonterebbe a Euro 180.000,00. Si sostiene in ultimo, sempre nella perizia sopra citata, il venire in essere di un danno consequenziale al deprezzamento del terreno per un importo pari a Euro 500.000,00.
6.2 In relazione a quanto sopra precisato va in primo luogo rilevato come i valori sopra precisati siano stati poi modificati dalla  presentazione di una successiva perizia di parte mediante la quale si è quantificata una somma considerevolmente differente e pari a Euro 1.228.609,02.
6.3 Va, inoltre, rilevato come il danno dalla “mancata vendita dei prodotti del vigneto” integri la fattispecie del danno da chance, avendo a riferimento quei profitti che il ricorrente avrebbe conseguito una volta avviata l'attività imprenditoriale cui l'edificazione della cantina era strumentale, danno in relazione al quale è stata sollecitata una liquidazione equitativa.
6.4 Al riguardo, vanno richiamati i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato (contenuti nella decisione sopra citata) in relazione ai quali l'esame della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo,  interviene:                                                             

- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’ articolazione di argomentazioni logiche che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non", e cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, nr. 2974).
6.5 Con riferimento al danno sopra citato, nulla di tutto ciò è presente sia, nel ricorso che nella successiva perizia, nell’ambito della quale parte ricorrente si limita ad elencare i presunti profitti relativi alla vendita dei vini prodotti dai vigneti.
6.6 Sul punto non risulta provato il nesso di causalità tra la mancata realizzazione della cantina e il danno da mancato guadagno sopra specificato, risultando del tutto eventuale la produzione e la vendita dei vini rispetto alla mancata edificazione di un manufatto. Alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., come nel caso di specie chiede la parte ricorrente e, ciò, in considerazione del fatto che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata, o comunque incontestata, l'esistenza di un danno risa(in questo senso Cons. Stato, sez. IV, 7 gennaio 2013, nr. 23).                                                                                                                                                                                                               6.7 Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa, pur nell'accertata spettanza della concessione edilizia a suo tempo richiesta dall'appellante al Comune, è evidente che non è stata fornita alcuna prova, delle probabilità di esito positivo dell’attività imprenditoriale che il ricorrente avrebbe voluto avviare.
E’, inoltre, del tutto evidente che a tale carenza di prova non sia possibile sopperire attraverso i processi deduttivi sopra richiamati, in considerazione dell'incertezza e dell'aleatorietà delle variabili che notoriamente possono influire sull'andamento di una nuova impresa che entra nel mercato.
7. Ad una valutazione equitativa è, al contrario, possibile accedere per quanto attiene la voce relativa al danno da “mancata redditività” e al danno da deprezzamento del terreno. In relazione a dette ultime tipologie di danno parte ricorrente esibisce un contratto di affitto sottoscritto nel 2001, con il quale la società Agricola Maine si era impegnata a cedere in locazione la cantina nei confronti della società che ha in gestione il vigneto di cui la ricorrente risulta proprietaria.
8. E’ possibile prescindere da detta quantificazione considerando come l’orientamento prevalente (Cons. Stato Sez. IV Sent., 24-12-2008, n. 6538) sancisce … “il danno subito in seguito ad illegittimo diniego di concessione edilizia può essere determinato in via equitativa sulla scorta della differenza del valore che l'area di proprietà degli appellanti aveva al momento del progetto di diniego ed al momento della delibera di approvazione del nuovo piano regolatore generale. L'ammontare del risarcimento così stabilito dovrà essere aumentato della rivalutazione monetaria degli interessi legali da calcolarsi fino alla data di notifica della domanda giudiziale”.
9. Va rilevato come parte ricorrente abbia quantificato il danno da deprezzamento del terreno, per un importo pari alla somma pari a Euro 500.000,00, risultato delle differenza tra il valore dell’area inedificabile e il valore dell’area con il fabbricato di cui si tratta.
10. Detto computo non può essere automaticamente recepito da questo Collegio e va pertanto considerato un riferimento di massima del danno subito e, ciò, considerando come non sia possibile desumere quali siano i valori di partenza e in relazione a quali presupposti di riferimento è stata effettuata detta stima.
10.1 La stessa stima non solo non risulta provata, ma a differenza della Giurisprudenza sopra citata assume a riferimento il valore che l’area avrebbe avuto qualora fosse stato realizzato il fabbricato richiesto e , quindi, un parametro parzialmente differente da quello individuato dalla pronuncia del Consiglio di Stato sopra citata. Ne consegue che in ragione delle circostanze sopra ricordate è possibile disporre una quantificazione equitativa, liquidando la una percentuale pari al 5% del valore sopra citato.
11. In considerazione di ciò la somma di Euro 500.000,00 (deprezzamento del terreno) potrà essere ridotta ad un ammontare complessivo pari a Euro 25.000,00 (venticinquemila//00) oltre interessi legali e rivalutazioni dalla data di notifica della domanda giudiziale e sino al giorno di deposito della presente sentenza".

Dario Meneguzzo

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