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Le dichiarazioni ex art. 38 Codice Appalti riguardano anche l’affitto del ramo d’azienda

18 Set 2013
18 Settembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 11 settembre 2013 n. 1090, asserisce che le dichiarazioni rese ex art. 38, D. Lgs. 163/2006, devono essere espressamente riferite anche al legale rappresentante/amministratore dell’impresa, dalla quale la concorrente di una ATI si sia resa affittuaria di un ramo d’azienda: “Vero è che nel codice degli appalti manca una norma, con effetto preclusivo, che preveda in caso di cessione o fitto d’azienda un obbligo specifico di dichiarazioni in ordine ai requisiti soggettivi degli amministratori e direttori tecnici della cedente - atteso che l’art. 51 del codice si occupa della sola ipotesi di cessione del ramo d’azienda successiva all’aggiudicazione della gara - tuttavia non è neppure dubitabile che la norma di cui al citato art. 38, comma 1, lett. c), comprende anche ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono (così TAR Napoli, Sez. I, 03 giugno 2013, n. 2868, nonché A.P. n. 10 del 2012 per la fattispecie specifica della cessione d’azienda).

3.4. Peraltro, l’esigenza di riferire le dichiarazioni anche agli amministratori dell’impresa dalla quale la concorrente ha ottenuto la disponibilità dell’azienda è ancora più evidente nel caso in cui si tratti di affitto e non di cessione dell’azienda, dal momento che l’influenza dell’impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal codice degli appalti (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sezione III, 18 luglio 2011, n. 4354; C.G.A., 5 gennaio 2011, n.8 e 26 ottobre 2010, n. 1314; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 16 marzo 2011, n. 488).

3.5. Né, per le stesse ragioni, può aver rilievo la circostanza che, nel caso di specie, il fitto di ramo di azienda sia intervenuto in epoca antecedente (tre mesi prima) alla pubblicazione del bando”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1090 del 2013

La semplice comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis della l. n. 241/1990 non estingue l’obbligo di provvedere perché non coincide con l’emanazione del provvedimento finale

17 Set 2013
17 Settembre 2013

Lo precisa (ma bisognava proprio farselo dire?) la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 9/9/2013 n. 4473.

Scrive il Consiglio di Stato:  "....Va osservato che, poiché sia l'art. 2 della legge n. 241/1990 che l’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 stabiliscono che l'amministrazione ha il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato, l’adempimento di detto obbligo si realizza solo mediante l'adozione del provvedimento finale, entro i termini stabiliti dalla legge o dai regolamenti, in quanto è proprio l'emanazione di esso provvedimento che costituisce l'oggetto dell'obbligo di provvedere gravante (in base a dette norme) sull'Amministrazione e solo l'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento fa venire meno l'inerzia dell'amministrazione.

Di conseguenza, la semplice adozione di un atto endoprocedimentale, come la comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis della l. n. 241/1990, non estingue l'obbligo di provvedere e non fa venire meno l'inerzia dell'amministrazione, perché non coincide con l'emanazione del provvedimento finale, oggetto dell'obbligo di provvedere.

Sotto altro profilo va considerato che l'avvio del procedimento e la trasmissione dell'avviso dei motivi ostativi comunque non possono soddisfare la pretesa del ricorrente ad ottenere un provvedimento espresso, né rendere inutile la decisione del ricorso, atteso che solo la declaratoria giurisdizionale dell'obbligo di provvedere e dell'illegittimità del silenzio attribuisce con sicurezza al ricorrente la possibilità di ottenere, anche tramite la nomina di un commissario “ad acta”, un provvedimento espresso e motivato sull'istanza proposta....".

Dario Meneguzzo

sentenza CDS 4473 del 2013

Negli appalti di servizi le attrezzatture devono essere indicate a pena di esclusione

17 Set 2013
17 Settembre 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 11 settembre 2013 n. 1091, chiarisce che, negli appalti di servizi, la disposizione prevista dall’art. 42, c. 1, lett. h), D. Lgs. 16372006 (secondo cui: “Negli appalti di servizi e forniture la dimostrazione delle capacità tecniche dei concorrenti può essere fornita in uno o più dei seguenti modi, a seconda della natura, della quantità o dell'importanza e dell'uso delle forniture o dei servizi: (...) h) per gli appalti di servizi, dichiarazione indicante l'attrezzatura, il materiale e l'equipaggiamento tecnico di cui il prestatore di servizi disporrà per eseguire l'appalto”) è da intendersi prevista a pena di esclusione ex artt. 46, c. 1 bis e 48, D. Lgs. 163/2006.

 A riguardo si legge che: “7.1. Infatti, la richiesta di indicazione dei veicoli messi a disposizione per l’espletamento del servizio di cui alle citate disposizioni della legge di gara, da un lato, risponde ad uno specifico interesse pubblico inerente l’oggetto e la natura del servizio messo a gara (per lo svolgimento del quale risulta essenziale “la disponibilità di mezzi preventivamente allestiti al bisogno ed omologati”), dall’altro, risulta perfettamente conforme al dettato dell’art. 42, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale ammette, nel caso di appalti di servizi, che la dimostrazione della capacità tecnica e professionale dei concorrenti possa essere fornita mediante una specifica “dichiarazione indicante l’attrezzatura, il materiale e l’equipaggiamento tecnico di cui il prestatore di servizi disporrà per eseguire l’appalto”, ossia mediante una descrizione delle attrezzature e dei materiali tecnici di cui il concorrente intende avvalersi, tale da consentirne una loro precisa individuazione già in sede di offerta, suscettibile di verifica ai sensi del successivo art. 48 (il cui esito negativo comporta la sanzione espulsiva).

7.2. Peraltro, nella fattispecie in esame, l’omessa elencazione dei mezzi che in concreto sarebbero stati utilizzati per il servizio si è tradotta, al contempo, nel difetto di un requisito speciale per la partecipazione alla gara e in un’incertezza assoluta di un elemento essenziale dell’offerta, in quanto tale non suscettibile di alcuna “regolarizzazione” successiva da parte della stazione appaltante (pena la violazione della par condicio dei concorrenti), così da determinarne la necessaria esclusione dalla gara”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Venento 1091 del 2013

Per esercitare l’attività medico dentistica l’immobile deve essere in regola non solo dal punto di vista igienico-sanitario ma anche da quello urbanistico-edilizio

17 Set 2013
17 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1085 del 2013 esamina un caso nel quale uno studio dentistico è stato installato in un immobile il quale, secondo il PRG,  può avere solo destinazione residenziale.

Il TAR conferma che il cambio d'uso è abusivo, anche se si tratta di attività medica.

Scrive il TAR: "2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 9, 10 e 11 della L.R. n. 22/2002, in quanto, la domanda di autorizzazione all’esercizio dell’attività medico-dentistica doveva essere esaminata secondo la normativa in materia igienico-sanitaria e non sotto il profilo urbanistico-edilizio. Anche tale doglianza non è condivisibile. Infatti, il legittimo esercizio dell’attività medico-dentistica deve necessariamente essere ancorato alla regolarità dell’immobile, nella quale essa attività deve essere svolta, sotto il profilo urbanistico-edilizio. Ciò in quanto i due profili sono strettamente connessi presupponendo il primo l’esistenza del secondo, posto che se l’immobile non è conforme alla normativa urbanistica edilizia esso non può essere utilizzato per lo svolgimento dell’attività autorizzanda, dovendo comunque il Comune intervenire per reprimere l’abuso sul piano edilizio. Pertanto, è evidente che l’accertamento della conformità dell’immobile alla disciplina edilizia ed urbanistica, oltre che alla disciplina igienicosanitaria, costituisce presupposto indefettibile per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria. Nel caso di specie, il Comune ha accertato un mutamento di destinazione d’uso da residenziale a direzionale non autorizzato e non consentito dalla normativa regionale e comunale in vigore, ragion per cui l’immobile non può essere utilizzato per lo svolgimento di attività sanitaria".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1085 del 2013

S.O.S. tecnico: il piano casa consente di realizzare unità indipendenti dall’edificio originario che viene ampliato?

16 Set 2013
16 Settembre 2013

IL geometra Carlo Brun Cardo del Comune di Sarego (VI) pone un rilevante quesito in materia di applicazione del piano casa.

La questione è la seguente: gli interventi realizzati col piano casa possono portare a un nuovo edificio (casa o appartamento, per esempio) del tutto autonomo rispetto all'edificio che ha originato l'ampliamento oppure devono consistere solo ed esclusivamente in veri e propri ampliamenti dell'edificio originario?

Argomenti a favore dell'autonomia:

1) il comma 2 dell'articolo 2 della legge sul piano casa (legge regionale 14/2009, come modificata dalla legge regionale 13/2011) stabilisce che "L'ampliamento di cui al comma 1 deve essere realizzato in aderenza rispetto al fabbricato esistente o utilizzando un corpo edilizio contiguo già esistente; ove ciò non risulti possibile oppure comprometta l'armonia estetica del fabbricato esistente può essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato". Il fatto che possa essere realizzato un corpo separato dimostrerebbe che è possibile realizzare una unità immobiliare indipendente da quella originaria, soprattutto dopo che è stata abrogata la parte della disposizione che precisava: "di carattere accessorio e perinenziale";

2) da nessuna parte sta scritto che l'ampliamento non può essere commercializzato separatamente rispetto all'edificio originario.

Argomenti contrari all'autonomia:

1) il comma 1 dell'articolo 2 della legge stabilisce che il piano casa si attua attraverso "l'ampliamento degli edifici esistenti"; il significato letterale della parola "ampliamento" non può essere stravolto fino al punto di realizzare edifici svincolati da quello originario che viene ampliato; la possibilità di realizzare un corpo edilizio separato sta a significare che è possibile realizzare, per esempio, anche cucine o camere separate dall'edificio originario (e non solo locali accessori, come cantine o garage);

2) il comma 1 dell'articolo 2 stabilisce che l'ampliamento serve per raggiungere le finalità dell'articolo 1 della legge, il quale si riferisce a "interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa per preservare, mantenere ricostruire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente"; da nessuna parte sta scritto che possono essere realizzate unità indipendenti;

3) per separare giuridicamente l'ampliamento dall'edificio originario bisogna effettuare una ristrutturazione edilizia  dell'edificio compelssivo risultante da quello originario + l'ampliamento.

Al fine di realizzare una statistica, chiediamo ai lettori di inviarci informazioni per sapere quali comuni si regolano in uno o nell'altro modo.

Dario Meneguzzo

La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza determinativa

16 Set 2013
16 Settembre 2013

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 4507 del 2013.

Scrive il Giudice: "Osserva il Collegio come la tesi proposta dalle appellanti incidentali sia in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, che appare ormai pacifico (C. di S., VI, 9 novembre 2010, n. 7981, e 11 novembre 2008, n. 5620) secondo il quale :

“...la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata. La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata...”.

Di conseguenza qualora, come di norma e come nel caso che ora occupa, nello schema procedimentale alla conferenza di servizi segua un atto monocratico di recepimento da parte di un organo dell’ente al quale spetta la competenza finale a provvedere, quest’ultimo è l’atto conclusivo del procedimento, al quale devono essere imputati gli effetti eventualmente lesivi.

Osserva il Collegio come la tesi proposta dalle appellanti incidentali sia in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, che appare ormai pacifico (C. di S., VI, 9 novembre 2010, n. 7981, e 11 novembre 2008, n. 5620) secondo il quale :

In ulteriore conseguenza, è questo l’atto che deve essere impugnato da parte di chi si ritenga leso nella propria sfera giuridica. 

Deve essere osservato, inoltre, come sia irrilevante la qualificazione che, secondo le appellanti incidentali, la conferenza di servizi avrebbe conferito al proprio atto, posto che tale supposta autoqualificazione non può incidere sulla disciplina del procedimento ed ancora meno sulla tutela degli interessati".

Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.09.2013 n. 4507

Convegno di Spinea del 27 settembre 2013 sulla “legge del fare”

14 Set 2013
14 Settembre 2013

Il convegno di Spinea si svolgerà presso la Sala Barbazza (retro Chiesa di Santa Bertilla), Via Gioberti, 1 a Spinea, il 27 settembre 2013, dalle ore 8.30 alle ore 14.30.

Convegno 27 Settembre Programma e Scheda Iscrizione

Il Comune (salvo il caso delle “zone bianche”) non è tenuto a rispondere alle istanze di modifica del PRG

13 Set 2013
13 Settembre 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 1087 del 2013decide un ricorso in matweria di silenzio della P.A.

Nel caso specifico, la ricorrente, proprietaria di un fondo a destinazione industriale artigianale di completamento, volendo dar corso ad un intervento di complessiva ristrutturazione urbanistica di tale area attraverso un piano di recupero, ha proposto azione intesa al superamento del silenzio serbato dal Comune  sull’istanza dalla stessa presentata - avente  ad oggetto la richiesta di modifica parziale al PRG, al fine della individuazione dell’ambito di degrado ex lege 457/1978, propedeutica all’approvazione del Piano di Recupero.

Il TAR dichiara il ricorso inammissibile, con la seguente motivazione: "Infatti, l’art. 2 della L. n. 241/1990, quando impone alle amministrazioni pubbliche di concludere tutti i procedimenti mediante l’adozione di provvedimenti espressi entro il termine fissato dalla legge, si riferisce espressamente ai casi in cui tali procedimenti conseguano obbligatoriamente ad una istanza di parte ovvero debbano essere iniziati d’ufficio. Nel caso di specie, come correttamente osservato dalla difesa del Comune, il procedimento in questione, di approvazione di una variante urbanistica diretta ad individuare una zona di degrado nel territorio comunale, è per sua natura rimesso all’iniziativa esclusiva della P.A., regolato da termini puramente ordinatori e caratterizzato da valutazioni complesse e contenuti altamente discrezionali. A fronte di tale procedimento, il privato non vanta alcuna posizione di interesse legittimo ma una mera aspettativa alla reformatio in melius: sì che in tal caso, all’attesa del privato non corrisponde alcun obbligo di provvedere da parte della P.A. . Invero, il giudizio disciplinato dagli artt. 31 e 117 c.p.a. postula pur sempre l’esercizio di una potestà amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato si configura come un interesse legittimo: solo in tale prospettiva, infatti, trova razionale giustificazione la ratio del predetto giudizio, volto ad accertare se l’amministrazione abbia, con il silenzio, violato il predetto obbligo di provvedere (cfr. Cons. St. n. 3640/2006). Nel caso in esame, la ricorrente, dunque, non può essere considerata titolare di una posizione di interesse legittimo al fine di ottenere una determinazione dell’amministrazione in ordine all’istanza di adozione di una variante urbanistica per la classificazione di un certo ambito come di degrado ex lege 457/78, trattandosi di attività di regolamentazione urbanistica, rimessa alle valutazioni politico-discrezionali dell’amministrazione comunale. Per altro verso, l’amministrazione (salvo il caso delle “zone bianche”) non è tenuta giuridicamente a determinarsi in relazione alle richieste di variante della strumentazione esistente. Ne consegue che in mancanza di tali fondamentali presupposti, anche se l’amministrazione, nel caso di specie, ha attivato il procedimento per l’approvazione della variante, non si può per ciò solo ritenere che l’interesse ad una rapida definizione del medesimo procedimento sia assistito dalla tutela giuridica avverso il silenzio-inadempimento".

Domanda: ma allora il cittadino non può fare niente se la P.A. in questi casi non risponde? Non si potrebbe pensare che, se la P.A. adotta una variante, almeno in questo caso deve poi dire se la approva oppure no? Detto in altri termini: la posizione giuridica dell'istante è identica prima e dopo l'adozione?

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1087 del 2013

Certificazioni e dichiarazioni sostitutive

13 Set 2013
13 Settembre 2013

Il Consiglio di Stato, nella medesima sentenza n. 4471/2013, già allegata al post che precede, approfondisce le problematiche connesse alle certificazioni di qualità ed alle dichiarazioni sostitutive.

Nel caso di specie il disciplinare prevedeva, a pena di esclusione, l’onere di fornire le certificazioni di qualità richieste in originale o in copia conforme.

Sul punto si legge che: “Non può nemmeno essere condivisa l’argomentazione secondo la quale la presentazione del certificato di qualità, in originale o in copia autentica, costituisce un adempimento formale desumibile dall’art. 43 del d.lgs. n. 163/2006 (Norme di garanzia della qualità), il quale, in assenza di un sistema accreditato di qualificazione pubblica, fa riferimento al rilascio dei certificati da parte di organismi privati, e pertanto non suscettibili di essere prodotti in gara mediante autocertificazione.

Osserva il Collegio che la suddetta disposizione deve essere letta in chiave non formalistica, potendo l’impresa partecipante provare l’esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione.

Peraltro, l'attestazione di qualità è certificazione a rilevanza pubblica, tanto è che gli organismi di attestazione, pur essendo privati, rilasciano certificazioni aventi contenuto vincolato e rilievo pubblicistico in rigida osservanza dei criteri fissati dal d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207 e nell'esercizio di una funzione di certificazione soggetta alla vigilanza dell’Autorità, con la conseguente possibilità di produrre le prescritte certificazioni mediante il sistema dell'autocertificazione.

Deve quindi essere affermato che l’art. 5 del disciplinare di gara, nella parte in cui fissa le modalità di allegazione degli obblighi dichiarativi, è illegittimo onde la dichiarazione sostitutiva è idonea, in virtù del principio di autoresponsabilità di cui è espressione, a creare affidamento nella stazione appaltante sul possesso dei requisiti di partecipazione”.

Il Collegio, altresì, specifica come dagli artt. 38, 47 e 76 del D.P.R. 445/200 - che impongono al dichiarante di allegare il documento di identità e di indicare le sanzioni penali per le ipotesi di falsità in atti e di dichiarazioni mendaci - “non si ricava la necessità che ogni sottoscrizione sia supportata da uno specifico richiamo alle sanzioni penali e singolarmente corredata di fotocopia del documento di identità, in quanto la domanda di partecipazione e i relativi allegati sono stati resi in un unico contesto e pertanto assumono, unitariamente considerati, la funzione sostanziale di prova della provenienza della domanda e delle dichiarazioni rese.

L’osservazione secondo la quale i suddetti elementi dovevano essere contenuti in un unico documento, anziché in diversi atti, è priva di rilevanza, una volta che le dichiarazioni suddette sono di contenuto convergente.

Atteso che certamente la domanda di partecipazione e i documenti allegati hanno contenuto convergente e risultano idonei – per il principio di autoresponsabilità – a creare affidamento nella stazione appaltante sul possesso dei requisiti di partecipazione, la censura deve essere respinta”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il c.d. principio di tassatività delle cause di esclusione si applica anche alla concessione di servizi

13 Set 2013
13 Settembre 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 09 settembre 2013 n.4471, indica quale disposizioni del Codice Appalti si applicano alle concessioni di servizi.

Nel post del 19.06.2013 si erano sollevati dei dubbi sull’affermazione contenuta nella sentenza del T.A.R. Veneto n. 797/2013 ove si leggeva che la concessione di servizi, non essendo un affidamento di servizi, è “sottratta all’applicazione delle disposizioni del codice dei contratti (cfr. art. 30 del codice dei contratti)”e agli artt. 119 e 120 c.p.a..

Nella sentenza che ivi si commentata l’appellante ritiene che la tassatività della cause di esclusione, ex art. 46, c. 1 bis, D. Lgs. 163/2006, non si applicherebbe all’affidamento di una concessione di servizi poiché, “ex art. 30 del d.Lgs. 163/2006, non è attratta, per materia, nell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria ed interna in materia di appalti pubblici”.

Il Collegio, tuttavia, ritiene che “la tesi non è condivisibile. Deve essere rilevato infatti che, come precisato anche dal primo giudice, l’art. 30 dispone che la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, se ed in quanto norme di principio o esplicative di principi generali (C. di S., A. P., 7 maggio 2013, n. 13).

Ai sensi del terzo comma dell'art. 30, appena richiamato, la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità.

Sulla base di tali principi generali, è pacifico che la norma richiamata indica nella proporzionalità delle prescrizioni della legge di gara il limite alla richiesta di elementi o documenti ulteriori rispetto a quelli essenziali, e che l’art. 46, evidente e concreta espressione dei principi medesimi, è suscettibile di generale applicazione.

I provvedimenti di esclusione da una procedura di gara devono quindi essere fondati - in virtù del fondamentale principio di massima partecipazione alla gara e di proporzionalità - su un'espressa comminatoria di esclusione, la quale deve essere non solo univoca ma anche interpretata nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività disposti dall'art. 46 comma 1-bis.

Al riguardo, deve essere affermato che detti principi generali rivestono carattere cogente anche contro la previsione di segno contrario della lex specialis, la quale in parte qua deve essere dichiarata illegittima in quanto contrasta con il principio di tassatività delle cause di esclusione (inosservanza di prescrizioni normative, incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, violazione del principio di segretezza delle offerte) le quali non sono configurabili nel caso di specie”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza CDS 4471 del 2013

 

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