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Quando serve il piano di lottizzazione nelle zone di espansione

27 Ago 2013
27 Agosto 2013

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4255 del 22 agosto 2013, ha affrontato nuovamente la questione della necessità di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio di un titolo edilizio in una zona di espansione, al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti (si veda in tal senso Consiglio Stato, sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7486 Consiglio Stato: sez. IV, 1 ottobre 2007, n. 5043 e 15 maggio 2002, n. 2592; sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7799 e 6 ottobre 2000, n. 5326).

Il Collegio ha rimarcato il principio secondo cui l’esclusione della necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate “è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione)” (ex multis T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 23-02-2012, n. 372 T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. II, 10 febbraio 2011 , n. 117).

Sul punto, inoltre, il Consiglio di Stato, riprende il ragionamento fatto dal Tar impugnato e afferma che: “seppur in via di principio l’evenienza di una imposizione della redazione di un piano attuativo non possa escludersi, residua l’esigenza che detta opzione volitiva sia congruamente motivata dal Comune (così la sentenza impugnata: “vi possono essere peraltro delle ipotesi in cui, ancorché in una zona urbanizzata, la confusione edilizia e il disordine urbanistico siano tali da richiedere comunque la predisposizione di un piano attuativo, però tali situazioni devono risultare nella motivazione del provvedimento amministrativo anche pianificatorio o perlomeno dalla relazione accompagnatoria e dalla documentazione allegata”)”.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza CDS 4255 del 2013

Quando si tratta di atti discrezionali non c’è automatismo tra la illegittimità dell’atto e l’accoglimento della domanda risarcitoria

26 Ago 2013
26 Agosto 2013

Il TAR Veneto, nella stessa sentenza n. 1088 del 2013, allegata al post che precede,  dopo aver ritenuto illegittimo il diniego di un impianto di biogas, precisa che ciò non atribuisce automaticamente all'interessato il diritto di ottenere il risarcimento del danno, perchè il rilascio dell'autorizzazione è un atto discrezionale, cosicchè bisogna valutare se alla fine l'autorizzazione doveva essere  rilasciata oppure no.

Scrive il TAR: "5. Ciò premesso, va ora osservato che, trattandosi di un interesse legittimo pretensivo a fronte di un’attività tecnico-discerzionale della P.A., non vi può essere alcun automatismo tra la riconosciuta illegittimità dell’atto e l’accoglimento della domanda risarcitoria. Ed infatti, a fronte di poteri discrezionali la tutela risarcitoria per equivalente deve passare - se non attraverso la effettiva riedizione del potere stesso, e fatto salvo il successivo accoglimento della pretesa - attraverso un giudizio prognostico di carattere probabilistico da condursi secondo la regola civilistica del “più probabile che non”. Nel caso di specie, tuttavia, la ricorrente non ha più interesse alla riedizione del potere ed al rilascio dell’autorizzazione richiesta. Si tratta dunque di accertare, ex post, se gli elementi di fondatezza della pretesa erano tali da rendere, se non necessitato, quantomeno probabile il rilascio del provvedimento favorevole.

6. Tale giudizio, nel caso in esame, non può portare ad un esito positivo. Ed infatti, pur se il provvedimento di diniego dell’autorizzazione è stato motivato sulla base di presupposti erronei, quali l’aumento dell’inquinamento atmosferico, o comunque secondari e superabili, quali i profili viabilistici, ciononostante, residuerebbe una elevata discrezionalità amministrativa nella valutazione di diversi ed ulteriori elementi. Nel corso della conferenza di servizi sono infatti emerse varie e non  secondarie criticità derivanti dall’installazione dell’impianto di produzione di energia nelle vicinanze dell’ospedale di Trecenta, che avrebbero potuto assumere rilevanza nell’ambito di una valutazione più ampia e approfondita da effettuarsi da parte della Regione Veneto in sede di motivazione del provvedimento finale, e che comunque non potevano essere lasciate all’apprezzamento particolare di una singola amministrazione (la ULSS) non chiamata a rendere pareri in relazione ad interessi pubblici di cui non è titolare. Ad esempio, la criticità principale dell’installazione dell’impianto sembra risiedere infatti proprio nelle sua localizzazione nei pressi di un sito  sensibile. Ed anche dovendosi escludere la rilevanza della localizzazione sotto il peculiare profilo dell’inquinamento atmosferico, è peraltro emerso che l’attivazione dell’impianto di produzione di energia avrebbe comunque comportato un peggioramento della complessiva situazione ambientale - in termini di aumento di emissioni di rumori, odori, fumi, e d’ incremento del traffico di veicoli anche industriali - non pienamente tollerabile a causa della presenza dell’ospedale a 400 metri di distanza; considerata anche l’esistenza, nelle stesse vicinanze, di un analogo impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili. Peraltro, tali inconvenienti non sarebbero stati compensati da una (inizialmente programmata) riduzione delle emissioni d’inquinanti nell’atmosfera, che si sarebbe potuta ottenere con la disattivazione della caldaia dell’ospedale alimentata da fonti fossili e la sua sostituzione con la fornitura di energia pulita da parte del nuovo impianto, essendo emerso che quest’ultima non sarebbe stata sufficiente per soddisfare  integralmente il fabbisogno energetico dell’ospedale.

7. Ne consegue, dunque, come dall’analisi della fattispecie, anche eliminando gli elementi costituenti i motivi di diniego posti alla base del provvedimento impugnato, permanga un’ estesa ed irriducibile area di discrezionalità tecnica, che impedisce di addivenire ad un sicuro accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale all’installazione dell’impianto di produzione di energia in questione. Ovvero, in altre parole, non vi è certezza nemmeno probabilistica che ove il provvedimento finale fosse stato emesso emendato dai vizi motivazionali o procedurali denunciati dalla ricorrente, sarebbe stato favorevole per la stessa. Mancano, dunque, le condizioni imprescindibili per l’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni derivanti dal provvedimento di diniego, la quale, pertanto, deve essere rigettata".

Impianti di biogas e conferenza di servizi dell’art.12 D.lgs. 387/2003: il parere negativo dell’ULSS non è insuperabile

26 Ago 2013
26 Agosto 2013

Lo dice la sentenza del TAR Veneto n. 1088 del 2013.

Scrive il TAR: "4. Nel merito, ritiene il Collegio che il provvedimento di diniego sia da ritenersi illegittimo in ragione del difetto e dell’erroneità della motivazione evidenziati con i primi due motivi di ricorso. Infatti, la Regione Veneto, nel motivare il provvedimento finale di diniego, come denunciato dalla parte ricorrente, si è riferita esclusivamente, come se si trattasse di un insuperabile veto, al parere negativo della ULSS n. 18 di Rovigo, recepito acriticamente dal Comune e dall’ARPAV, ed ove si è ritenuto, in sostanza, che “la messa in esercizio dell’impianto contribuirebbe ad incrementare l’inquinamento atmosferico in loco”. E ciò, nonostante che tale valutazione fosse in contrasto, non solo con le conclusioni del tecnico incaricato della società richiedente, ma anche con due distinti pareri tecnici positivi dell’ARPAV – ente specificamente competente in materia di vigilanza, di controllo e di accertamento tecnico sulle cause di inquinamento atmosferico - con i quali si era espressamente escluso che l’attivazione dell’impianto potesse determinare un superamento dei limiti di legge delle emissioni atmosferiche e dunque un apprezzabile peggioramento della qualità dell’aria. Peraltro, la ULSS, nell’ultimo parere reso per la conferenza di servizi del 27 marzo 2012, riferisce come “non sia possib ile attestare l’assenza, nel sito Ospedaliero, di un incremento degli inquinanti dell’aria”. Ed è evidente come tale asserzione rimanga lontana da una dimostrazione positiva (peraltro di competenza dell’ARPAV) di un superamento dei limiti di legge delle emissioni atmosferiche derivante dall’attivazione dell’impianto. Nel parere della ULSS, richiamato anche in tale parte nel provvedimento finale, si evidenzia inoltre che l’attivazione dell’impianto inevitabilmente determinerebbe un aumento del traffico veicolare in prossimità dell’ospedale, con conseguente aumento dell’inquinamento atmosferico e ed interferenza sull’ordinario flusso dei veicoli, anche adibiti all’emergenza, in prossimità del nosocomio di Trecenta. Anche riguardo a tale valutazione, la difesa della ricorrente ha correttamente sottolineato come i profili viabilistici fossero stati positivamente esaminati dall’amministrazione competente, ovvero la Provincia di Rovigo. Peraltro, tale aspetto, di per sé, non può costituire congruo motivo ostativo alla realizzazione dell’impianto di produzione di energia".

sentenza TAR Veneto 1088 del 2013

Testo aggiornato del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 a seguito della legge di conversione 98 del 2013

22 Ago 2013
22 Agosto 2013

Pubblichiamo il testo del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (in S.O. n. 50/L alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 144 del 21 giugno 2013), coordinato con la legge di conversione 9 agosto 2013, n. 98 (in questo stesso S.O. alla pag. 1), recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia». (13A07086) (GU n.194 del 20-8-2013 - Suppl. Ordinario n. 63)

testo coordinato decreto legge 69 del 2013

C’è chi ama i “casoti da cacia” e chi no

22 Ago 2013
22 Agosto 2013

La Regione Veneto evidentemente ama i casoti  (o, più probabilmente, gli elettori che li costruiscono).

Con la sentenza n. 139 del 13 giugno 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge regionale del Veneto n. 25 del 6 luglio 2012 nelle parti in cui esenta gli appostamenti per la caccia (capanni, altane) dall’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) e dal titolo abilitativo urbanistico-edilizio (D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i.).

La Regione Veneto, per ovviare alla sentenza della Corte, con la deliberazione della Giunta n. 1393 del 30 luglio 2013 ha disposto che “gli appostamenti di caccia in assenza di titolo abilitativo edilizio non possono essere allestiti prima del 1.08.2013 e devono essere rimossi entro e non oltre il 28.02.2014”.

Segnaliamo che la deliberazione nulla dice sulla autorizzazione paesaggistica: insomma essa sembra un pasticcio giuridico.

Molto critica è stata la presa di posizione della associazione ecologista Gruppo d'Intervento Giuridico Onlus, che ha inviato un esposto alle Procure  della Repubblica, come si può leggere nel sito sotto indicato:

htpp://gruppodinterventogiuridicoweb.wordpress.com/2013/08/17/la-giunta-regionale-del-veneto-se-ne-frega-della-corte-costituzionale-per-favorire-i-cacciatori/#more-7787

Dario Meneguzzo

dgr_appostamenti_fissi_caccia-29-7-2013

La commissione di gara deve essere sempre un collegio perfetto?

21 Ago 2013
21 Agosto 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 07 agosto 2013 n. 1022, chiarisce che la commissione di gara deve operare sempre con il plenum dei suoi componenti qualora deve adottare delle scelte discrezionali: infatti è solo “nella dialettica tra i componenti che si esplica la funzione omogeneizzate delle diverse singolarità del collegio che consente, legittimamente, l’adozione dell’atto finale unico, che non è e non rappresenta la giustapposizione delle diverse opinioni, bensì è l’atto del collegio in senso unitario e non scomponibile”. Il collegio può essere (legittimamente) incompleto soltanto se svolge delle attività vincolate, fattuali e meramente preparatorie del giudizio finale.

A tal fine il Collegio osserva che: “Sul punto la giurisprudenza, secondo un tramandato orientamento, è unanime nel riconoscere che :” … secondo un principio consolidato della giurisprudenza amministrativa, (il collegio) deve operare con il "plenum" dei suoi componenti, e non con la semplice maggioranza (così Cons. St. IV, 5 agosto 2005, n. 4196; 6 giugno 2006, n. 3386; 12 maggio 2008, n, 2188)…È bensì vero che alla luce della giurisprudenza ora richiamata la necessità di operare con il "plenum" si pone essenzialmente nelle fasi in cui la Commissione è chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali v'è l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, e che invece può consentirsi la deroga al principio della collegialità per le attività preparatorie, istruttorie e vincolate” ( cfr. Cons. Stato Sez. III, Sent., 3 marzo 2011, n. 1368; Cons. St., sez. 1, n. 1286/2011).

Nell'ipotesi di collegio perfetto, come nel caso di specie, la giurisprudenza ha, altresì, precisato, con un insegnamento pacifico e mai revocato che le deliberazioni assunte dal collegio sono valide soltanto se deliberate con la partecipazione di tutti i componenti, di talché non assume giuridica rilevanza la questione relativa alla così detta prova di resistenza, tesa ad accertare, in concreto, la eventuale incidenza dell’assente nel computo dei voti complessivi ( Cons. st., sez. VI, 6 aprile 1987, n. 230)”. Di conseguenza: “E’ quindi essenziale e non prescindibile che le manifestazioni di volontà dell’organo collegiale afferenti ad evenienze discrezionali, prodromiche ad attività valutative dei candidati, siano assunte con il plenum del collegio, risultando assolutamente illegittima ogni contraria determinazione, come quella prevista dal Presidente nel verbale n. 5, che, invero, consente una successiva conferma, da parte dei singoli commissari assenti, della decisione già adottata.

La logica dei collegi perfetti è quella per cui può essere demandata a singoli componenti e/o al collegio incompleto, soltanto l’attività vincolata, meramente fattuale e preparatoria del giudizio, ma non quella discrezionale e valutativa, come la individuazione dei concreti criteri di valutazione dei titoli, perché essa comporta e riguarda scelte discrezionali nella precisazione del bando”.

Quanto esposto è avvalorato anche dalla normativa riguardante i concorsi dei professori universitari: “La tesi esposta trova conforto, poi, proprio nel DPR 23 marzo 2000, n.117, in cui il legislatore ha, per garantire, comunque, la contestuale presenza dei componenti il seggio di gara nei concorsi per espletamento delle procedure per il reclutamento dei professori universitari di ruolo e dei ricercatori a norma dell'articolo 1 della L. 3 luglio 1998, n. 210, previsto, nell’art. 4, la possibilità che la commissione utilizzi, per le riunioni, il sistema di videoconferenza.

Tale peculiare evenienza, pertanto, conferma la imprescindibile esigenza, per le scelte valutative e discrezionali della commissione, della necessaria e contestuale presenza, anche se virtuale, di tutti i componenti il seggio di gara, non essendo sufficiente neppure il contestuale collegamento telefonico ovvero con posta elettronica (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 29-07-2009, n. 4708)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1022 del 2013

Come si applica l’art. 14 del decreto-legge n. 669 del 1996 che stabilisce il termine di 120 giorni per pagare quanto stabilito nelle sentenze di condanna

21 Ago 2013
21 Agosto 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 4155 del 2013, la quale precisa che il termine di 120 giorni vale per qualsiasi procedura esecutiva attivata dall'interessato e non soltanto per l'esecuzione disciplinata dal codice di procedura civile.

Scrive il Consiglio di Stato: "L’appello rimprovera al T.A.R. di avere erroneamente fatto applicazione dell’art. 14 del decreto-legge n. 669 del 1996.

Il comma 1 dell’art. 14 stabilisce che “le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.

Nei casi di specie, come detto in narrativa, i privati non hanno richiesto il pagamento all’Amministrazione competente secondo i termini e con le modalità ora riferite, agendo invece direttamente in via di ottemperanza per ottenere l’esecuzione del decreto della Corte d’appello.

La censura è infondata.

La ricordata disposizione del decreto-legge intende consentire all'Amministrazione, la quale va direttamente compulsata, di attivare e concludere il procedimento di pagamento nell'arco temporale a essa assegnato; e ciò prima che sia introdotta la procedura giudiziale di esecuzione, che può comportare anche un ulteriore aggravio di spese processuali. La notifica del titolo esecutivo con siffatte modalità tende dunque a far sì che presso la Pubblica Amministrazione si avvii il procedimento contabile atto a realizzare l'adempimento spontaneo (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2008, n. 2158).

Peraltro l’esecuzione può avvenire nelle forme ordinarie disciplinate dal codice di procedura civile o nelle forme specifiche regolate dal codice del processo amministrativo.

Anche se il giudizio di ottemperanza, nella sua attuale configurazione, “presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse”, non c’è dubbio che esso continui a veicolare anche un’azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2).

L’esigenza, a tutela della quale è posto l’art. 14 del decreto-legge, è strettamente connessa all’interesse pubblico, di cui l’Amministrazione è titolare. Pertanto, essa merita tutela qualunque sia la procedura esecutiva attivata dal privato, cosicché sarebbe incongruo limitare la portata della norma al processo esecutivo disciplinato dal codice di rito civile.

In questo senso, d’altronde, è orientata la giurisprudenza assolutamente prevalente del Consiglio di Stato (cfr. per tutte sez. IV, 12 maggio 2008, n. 2158; Id., 23 agosto 2010, n. 5897; 13 giugno 2013, n. 3280, n. 3281, n. 3292 e n. 3293; C.G.A.R.S., 27 luglio 2012, n. 725; ivi riferimenti ulteriori), che non può ritenersi contraddetta da un’isolata pronuncia di segno contrario, forse anche determinata dalla particolarità del caso di specie (sez. IV, ordinanza 30 gennaio 2013, n. 591, citata dagli appellanti, è resa in sede di regolamento di competenza)".

Dario Meneguzzo

sentenza CDS 4155 del 2013

Le cappelle gentilizie e private al di fuori dei cimiteri

20 Ago 2013
20 Agosto 2013

Segnaliamo sull'argomento la sentenza del Consiglio di Stato n. 4161 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "3.1) Com'è noto già l'art. 340 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 (recante "Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie") poneva il divieto generale di seppellimento "...in luogo diverso dal cimitero" (comma 1), fatta salva la sola "... tumulazione di cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore di quella stabilita per i cimiteri" (comma 2), fattispecie da non confondere con quella di cui all'art. 341, di autorizzazione specifica del Ministro dell'Interno di "...autorizzare, di volta in volta, con apposito decreto, la tumulazione dei cadaveri in località differenti dal cimitero, quando concorrano giustificati motivi di speciali onoranze".

Per le c.d. sepolture private fuori dai cimiteri, nella duplice forma delle cappelle gentilizie in senso stretto (ossia destinate dal fondatore ad una gens, quindi a persone legate rapporti di sangue, parentela o affinità) e delle cappelle private (riferibili a enti, associazioni, fondazioni, corporazioni, anche religiose), requisito essenziale era quindi la distanza da centri abitati almeno pari a quella prescritta per i cimiteri dall'art. 338 r.d. n. 1265/1934, pari a almeno 200 ml.

L'art. 105 del d.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803 (recante "Regolamento di polizia mortuaria"), sostanzialmente riproduttivo dell'art. 82 del previgente regolamento di analogo oggetto di cui al r.d.

21 dicembre 1942, n. 1880, ha circoscritto la possibilità di realizzare, e mantenere, cappelle private e gentilizie fuori dai cimiteri alla condizione essenziale che esse "...siano attorniate per un raggio di m 200 da fondi di proprietà degli enti e delle famiglie che ne chiedono la concessione e sui quali gli stessi assumano il vincolo di inalienabilità e di inedificabilità" (comma 1), stabilendo che "Venendo meno le condizioni di fatto previste dal precedente comma, i titolari della concessione decadono dal diritto di uso delle cappelle" (comma 2), e con salvezza delle sole cappelle private o gentilizie e dei cimiteri privati "....preesistenti all'entrata in vigore del testo unico delle leggi sanitarie 27 luglio 1934, n. 1265..." per i quali ha disposto che essi ".... sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla vigilanza dell'autorità comunale" (comma 3).

Tali disposizioni sono state poi riprodotte e trasfuse nell'art. 104 del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, recante il nuovo regolamento di polizia mortuaria tuttora in vigore.

3.2) Orbene, è incontestato, in punto di fatto, che il Monastero non è proprietario di suoli all'intorno della sepoltura privata che esso ospita per fascia di profondità di 200 ml. sulla quale possa costituire il richiesto vincolo di asservimento e inedificabilità.

Ne consegue che se deve revocarsi in dubbio che potesse autorizzarsi la realizzazione della sepoltura -apparendo significativo che la prima istanza fosse stata respinta, e soltanto la seconda accolta su sollecitazione del Sindaco dell'epoca, e sia pure per ragioni di carattere "etico-morale" intese a garantire in qualche modo l'invocata rigida regola claustrale, prive però di consistenza giuridica-, non può confutarsi la piena legittimità del provvedimento che, in stretta applicazione dell'art. 104 del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (riproduttivo dell'art. 105 del d.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803) ha dichiarato la decadenza dal diritto d'uso della cappella realizzata nel complesso monasteriale.

Peraltro, per le ragioni evidenziate in modo puntuale ed efficace nella sentenza impugnata, qui condivise, può immaginarsi che le disposizioni del codice canonico possano autorizzare la conservazione della cappella.

Infatti, il canone 1240 prevede "cimiteri propri della Chiesa" solo "dove è possibile", altrimenti richiedendo solo che nei cimiteri civili vi siano "spazi...riservati ai fedeli defunti", entrambi da benedire "secondo il rito proprio", o in alternativa "se non è possibile ottenere ciò" con benedizione dei "singoli tumuli" e il successivo canone 1241 ammette che parrocchie e istituti religiosi possano avere "il cimitero proprio" e così anche "...altre persone giuridiche o le famiglie possono avere un cimitero o un sepolcro peculiare".

Tali disposizioni proprie dell'ordinamento canonico, esterno a quello statuale, non possono interferire né sovrapporsi o prevalere sulla disciplina generale che subordina la realizzazione di sepolture fuori dai cimiteri, nel caso cappelle di ordini religiosi, o anche campi di inumazione, a rigorose e specifiche condizioni finalizzate alla salvaguardia di interessi pubblici di natura igienico-sanitaria e urbanistico-edilizia.

Alla stregua dei rilievi che precedono, l'appello in epigrafe risulta quindi infondato, non meritando censura alcuna delle statuizioni della sentenza impugnata.

Il procedimento di decadenza è stato avviato e concluso in puntuale e doverosa applicazione dell'art. 104 del d.P.R. 285/1990, onde non possono assumere rilievo alcuno le vicende relative all'adozione e approvazione di variante urbanistica per realizzazione di opere pubbliche in aree adiacenti il monastero, né risulta conferente il richiamo alla distanza tra esso e il cimitero comunale, risultando infondati tutte le altri motivi, per vero confusamente dedotti".

Dario Meneguzzo

sentenza CDS 4161 del 2013

Quando la seconda classificata non ha un interesse attuale e concreto per accedere agli atti di gara?

20 Ago 2013
20 Agosto 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 08 agosto 2013 n. 1057, si occupa del diritto di accesso ai documenti amministrativi delle gare d’appalto.

Chiarito che: “11. L’art. 22 della L. n. 241 del 1990 stabilisce che il diritto di accesso ai documenti amministrativi è riconosciuto agli “interessati”, cioè a tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.

12. Segnatamente, secondo un principio consolidato in giurisprudenza, “l’interesse legittimante la richiesta di accesso deve essere diretto concreto e attuale, ossia ricollegabile alla sfera giuridica del soggetto istante da uno specifico nesso, nel senso che il richiedente intenda esercitare o difendere una situazione soggettiva di cui esso sia portatore, qualificata dall’ordinamento come meritevole di tutela, e che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale da un nesso di strumentalità, cosicché la sua acquisizione concorra a favorirne il soddisfacimento e, in correlazione, la sua mancata acquisizione lo possa impedire od ostacolare (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 14 agosto 2012 n. 4566)” il Collegio ritiene sussistere alcun collegamento diretto, concreto ed attuale in capo alla ricorrente - seconda classifica in graduatoria.

Nello specifico la ditta ancorava la propria richiesta di accesso alla documentazione amministrativa, ex art. 13 D. Lgs. 163/2006, sia sull’art. 140, c. 1, D. Lgs. 163/2006 (secondo cui: “1. Le stazioni appaltanti, in caso di fallimento dell'appaltatore o di liquidazione coatta e concordato preventivo dello stesso o di risoluzione del contratto ai sensi degli articoli 135 e 136 o di recesso dal contratto ai sensi dell'articolo 11, comma 3 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, potranno interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del completamento dei lavori. Si procede all'interpello a partire dal soggetto che ha formulato la prima migliore offerta, fino al quinto migliore offerente, escluso l'originario aggiudicatario”) sia sull’art. 10, lett. q) del disciplinare di gara (il quale riproduceva sostanzialmente il citato art. 140).

A tale proposito il Collegio scrive: “13. Tanto premesso, rileva il Collegio che nella fattispecie oggetto di scrutinio, la società ricorrente difetta della titolarità di un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridica tutelata e collegata.

14. Infatti, la documentazione richiesta non presenta alcun collegamento attuale e concreto con la posizione giuridica fatta valere dalla ricorrente, dal momento che la circostanza di essersi collocata al secondo posto in graduatoria non ne differenzia l’interesse alla stipula del contratto rispetto a quello di qualunque altro concorrente, e ciò per un duplice ordine di ragioni.

15. In primo luogo, per la natura certamente discrezionale e non vincolata dell’attivazione della procedura di interpello di cui all’art. 140 del d.lgs. n. 163 del 2006, ai sensi del quale «le stazioni appaltanti in caso di fallimento dell’appaltatore … o di risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 135 e 136… potranno interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipato all’originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l’affidamento del completamento dei lavori». Sicché in tanto vi può essere un interesse attuale e concreto allo scorrimento progressivo della graduatoria, in quanto vi sia, preliminarmente, una decisione discrezionale della stazione appaltante di avvalersi di tale facoltà, anziché quella, ad esempio, di indire una nuova procedura di gara per l’ultimazione dei lavori.

16. Né a conclusioni diverse potrebbe giungersi sulla base del tenore letterale del punto 10, lett. q), del disciplinare di gara, evocato nel ricorso, il quale, benché utilizzi l’espressione “saranno interpellati”, non può che essere interpretata alla luce sia delle altre norme delle legge speciale di gara, ed in particolare della disposizione di cui al punto VI.3, lett. g) del bando di gara – che, sul punto, precisa inequivocabilmente che la stazione appaltante “si riserva la facoltà di applicare la disposizione…” di cui all’art. 140 sopra richiamato –, sia della disciplina generale della procedura dell’interpello ricavabile dall’art. 140 del codice dei contratti sopra richiamato.

17. In secondo luogo, deve rilevarsi in ogni caso che il potere di risolvere il contratto attribuito alla P.A., al ricorrere di determinate condizioni, dall’art. 136 del codice dei contratti, risulta esercitabile mediante l’attivazione di una procedura che si manifesta come diretta espressione di autotutela che l’ordinamento riconosce eccezionalmente in capo alla stazione appaltante, nonostante la natura paritetica del rapporto contrattuale sul quale esso è destinato ad incidere. Cosicché anche l’apprezzamento della gravità dell’inadempimento e/o della sussistenza delle altre condizioni previste dall’art. 136 presuppone un’attività di natura discrezionale rispetto alla quale la ricorrente non vanta alcun interesse diretto, attuale e concreto”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1057 del 2013

Come far valere la clausola risolutiva espressa inserita in una concessione

19 Ago 2013
19 Agosto 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 agosto 2013 n. 1034, si occupa della clausola risolutiva espressa inserita in una concessione: nello specifico il disciplinare della concessione prevedeva che la violazione degli obblighi del concessionario comportasse, previa contestazione dell’inadempimento, la decadenza dal titolo.

A riguardo si legge: “E’ insegnamento pacifico e costante della giurisdizione di legittimità che: ”..Per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell'inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, restando estranea alla norma contenuta nell'art. 1456 c.c., la clausola redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto; con la conseguenza che, in tale ultimo caso, l'inadempimento non risolve di diritto il contratto, sicché di esso deve essere valutata l'importanza in relazione alla economia del contratto stesso secondo la normativa generale in materia, non essendo sufficiente l'accertamento della sola colpa, come previsto invece in presenza di una valida clausola risolutiva espressa" (cfr. Cass., Sent. n. 11055 del 26/07/2002; Cass. civ. Sez. III, Sent. n. 1950 del 27/01/2009).

Sicché ciò che occorre, anche nel contesto pubblicistico, per la esatta operatività della clausola è, non già una generica previsione decadenziale, quanto la specifica previsione di singolari inadempimenti obbligazionari, né tale esigenza può essere compensata con l’intervenuta partecipazione dialettica del concessionario nel procedimento per l’asserito inadempimento.

Il disciplinare, infatti, difetta di una puntuale gradazione dei fatti estintivi il rapporto giuridico nato con la concessione, prevedendo, il citato punto 8, una generica e generalizzata evenienza estintiva del titolo, collegata a qualsivoglia ipotesi di inadempimento.

Non solo.

La possibilità della p.a di rimuovere unilaterale il rapporto giuridico concessorio attraverso un provvedimento di secondo grado non può prescindere dalla valutazione dell’interesse generale affidato all’amministrazione circa il corretto, ordinato svolgimento dell’attività istituzionale ad essa demandata.

In altri termini la p.a., in questo caso, non valuta l’interesse sotteso al rapporto negli stessi termini utilizzati per la sua costituzione, seppure di segno contrario, ma ha riguardo alla sola e ordinata disciplina della propria generale attività.

E’ questo il criterio essenziale e fondante la legittimità il provvedimento amministrativo estintivo il rapporto, proprio perché la natura dell’inadempimento deve essere tale da compromettere le finalità essenziali del disciplinare che, conseguentemente, compromettono le finalità essenziali e pubblicistiche della concessione.

Tale percorso deve essere puntualmente rappresentato dalla p.a., anche attraverso sintetiche formule risolutive in grado di individuare l’inadempimento secondo una significativa valenza, ovvero delineato nel contesto motivazionale del provvedimento decadenziale”.

In definitiva l’ente ha l’onere di dimostrare un inadempimento del disciplinare (da parte del concessionario) grave ed essenziale tale da compromettere le finalità pubblicistiche della concessione medesima.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1034 del 2013

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