La bonifica di un sito inquinato può essere addebitata all’acquirente incolpevole? Il Consiglio di Stato dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

Segnaliamo sul punto l'ordinanza del Consiglio di Stato n. 21 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Le conclusioni dell’Adunanza plenaria sulle regole che si ricavano dalla legislazione nazionale.

25. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:

1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett.1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;

2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);

3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’Amministrazione competente (art. 244, comma 4);

4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);

5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

 Il punto di vista dell’Adunanza Plenaria sulla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria.

 43. Seguendo sul punto le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (punto n. 24), pubblicata sulla GUCE del 6 novembre 2012, C-388, l’Adunanza Plenaria ritiene di indicare succintamente il suo punto di vista sulla soluzione da dare alla questione pregiudiziale sottoposta.

44. L’Adunanza Plenaria ritiene che, nonostante la serietà degli argomenti su cui si fondano i dubbi interpretativi di cui si è trattato, la questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia possa essere risolta in senso negativo, escludendo cioè che i richiamati principi comunitari in materia ambientale ostino ad una disciplina nazionale che non consente all’autorità competente di imporre misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica in capo al proprietario del sito non responsabile della contaminazione, prevedendo in capo al medesimo solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del fondo dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica secondo il meccanismo sopra descritto dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare.

45. Risulta significativo a tale proposito richiamare la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 9 marzo 2010, C-378/08.

Questa sentenza è stata pronunciata, in seguito ad una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, su una fattispecie diversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio e proprio tale diversità tra fattispecie, giustifica la presente domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Ciò nonostante, come si andrà ad esporre, alcuni principi espressi dal Giudice comunitario in quella sentenza potrebbero rivelarsi risolutivi anche nel caso in esame.

In particolare, nella sentenza 9 marzo 2010, C-378/08, la Corte di giustizia ha affermato che, in applicazione del principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe sugli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento; gli operatori medesimi, pertanto, non devono farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito.

Più nel dettaglio, nella citata sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08 si legge (punti da 53 a 59):

- dagli artt. 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 si evince che, così come l’accertamento di un nesso causale è necessario da parte dell’autorità competente al fine di imporre misure di riparazione ad eventuali operatori, a prescindere dal tipo di inquinamento in questione, quest’obbligo è parimenti un presupposto per l’applicabilità di detta direttiva per quanto concerne forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso;

- un nesso di causalità del genere può essere agevolmente dimostrato quando l’autorità competente si trovi in presenza di un inquinamento circoscritto nello spazio e nel tempo, che sia opera di un numero limitato di operatori. Viceversa, non è questo il caso nell’ipotesi di fenomeni di inquinamento a carattere diffuso, per cui il legislatore dell’Unione ha giudicato che, in presenza di un inquinamento del genere, un regime di responsabilità civile non costituisce uno strumento idoneo quando detto nesso di causalità non possa essere accertato. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, quest’ultima si applica a questo tipo di inquinamentosolo quando sia possibile accertare un nesso di causalità tra i danni e le attività dei diversi operatori;

- la direttiva 2004/35 non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso di causalità; nella cornice della competenza condivisa tra l’Unione e i suoi Stati membri in materia ambientale, quando un elemento necessario all’attuazione di una direttiva adottata in base all’art. 175 CE non sia stato definito nell’ambito di quest’ultima, una siffatta definizione rientra nella competenza di questi Stati e, a tale proposito, essi dispongono di un ampio potere discrezionale, nel rispetto delle norme del Trattato, al fine di prevedere discipline nazionali che configurino o concretizzino il principio «chi inquina paga» (v., in tal senso, sentenza 16 luglio 2009, causa C-254/08, Futura Immobiliare e altri);

- da questo punto di vista, la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento;

- tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatorisolo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento(v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C-188/07,Commune de Mesquer), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività;

- quando disponga di indizi di tal genere, l’autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato. Conformemente all’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere può rientrare pertanto nella sfera d’applicazione di questa direttiva, a meno che detti operatori non siano in condizione di confutare tale presunzione.

46. Dai citati passaggi motivazionali, emerge, quindi, come, per il Giudice comunitario, il rapporto di casualità sia comunque elemento imprescindibile ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/35 Ce e del principio comunitario “chi inquina paga” in essa richiamato.

47. Tale conclusione, ovvero la necessità di accertare, eventualmente anche mediante presunzione, l’esistenza del rapporto di causalità, sembra, del resto, trovare conferma nella considerazione che il principio comunitario “chi inquina paga” affonda le sue radici storiche nell’omologo principio del diritto nazionale tedesco espresso con il termine «Verursacherprinzip», che letteralmente significa “principio del soggetto causatore”.

48. Depongono in tale direzione anche le Conclusioni presentate il 22 ottobre 2009 nello stesso procedimento C 378/08 dall’Avvocato Generale Juliane Kokott, in cui si legge:

- “una responsabilità svincolata da un contributo alla causazione del danno non corrisponderebbe all’orientamento della direttiva sulla responsabilità ambientale e non sarebbe neppure conforme a quest’ultima, qualora essa avesse l’effetto di attenuare la responsabilità del soggetto effettivamente responsabile, in forza della direttiva stessa, per i danni ambientali. Infatti, la direttiva costituisce proprio per l’operatore responsabile un incitamento ad attivarsi per la prevenzione dei danni all’ambiente e stabilisce che egli debba sopportare le spese per la riparazione dei danni che dovessero comunque verificarsi” (punto 98).

- “La questione dei presupposti per un esonero dell’operatore autore del danno dal pagamento dei costi di risanamento viene disciplinata, in particolare, all’art. 8 della direttiva sulla responsabilità ambientale. Eventuali più ampie fattispecie di esenzione dal pagamento dei costi minerebbero con ogni probabilità l’attuazione del principio «chi inquina paga» perseguita dalla direttiva. Esse attenuerebbero l’effetto di stimolo associato alla responsabilità prevista e modificherebbero la ripartizione dei costi giudicata equa dal legislatore comunitario” (punto 99).

- “ Se non si vuole svuotare di significato la responsabilità a titolo prioritario dell’operatore che ha causato il danno, l’art. 16, n. 1, della direttiva sulla responsabilità ambientale non deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possano individuare altri soggetti responsabili destinati a subentrare al predetto. Va respinta altresì l’ipotesi di individuare ulteriori soggetti responsabili chiamati a rispondere insieme e a pari titolo con l’autore in modo tale da diminuire la responsabilità di quest’ultimo” (punto 102).

49. Con questo non si vuol certo intendere che il principio “chi inquina paga” implichi un divieto assoluto di addossare a soggetti diversi dall’autore del danno i costi per l’eliminazione dei danni ambientali. Un simile divieto, infatti, citando ancora le conclusioni dell’Avvocato generale Kolkott, finirebbe per tradursi nella passiva accettazione di eventuali danni all’ambiente, nel caso in cui l’autore di questi non potesse essere chiamato a rispondere. Infatti, anche in caso di riparazione a carico della collettività, le spese dovrebbero essere sopportate da un soggetto che non è responsabile per il danno. Tuttavia, l’accettazione dei danni all’ambiente sarebbe incompatibile con la finalità di promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo. Il principio «chi inquina paga» è funzionale al raggiungimento di tale finalità, sancita non soltanto dal n. 2, ma anche dal n. 1 dell’art. 191 TFUE (ex art. 174 CE). Il detto principio non può essere inteso, quindi, in un senso tale da risultare in definitiva confliggente con la tutela dell’ambiente, ad esempio considerandolo idoneo a precludere la riparazione dei danni ambientali nel caso in cui l’autore degli stessi non possa essere chiamato a rispondere. Esso, in definitiva, sembra precludere una responsabilità per danni ambientali indipendente da un contributo alla causazione dei medesimi soltanto se ed in quanto essa abbia l’effetto di elidere quella incombente a titolo prioritario sull’operatore che ha causato i danni in questione.

Tuttavia, ed è questo il punto che sembra decisivo ai fini della risoluzione della questione, i principi del diritto dell’Unione in materia ambientale, pur non ostando, alle condizioni appena viste, ad una responsabilità svincolata dal rapporto di casualità, non sembrano, tuttavia, imporla, demandando la regolazione di queste forme sussidiarie di responsabilità al legislatore nazionale. Tali principi, quindi, non sembrano di per sé interferire con i limiti (sopra ricostruiti) che il legislatore nazionale ha voluto prevede alla responsabilità del proprietario non autore della contaminazione..

Conclusioni.

50. In conclusione, alla luce di quanto esposto, si rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione che di nuovo si trascrive:se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.

Atti da trasmettere alla Corte di giustizia.

51. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011, vanno trasmessi alla cancelleria della Corte mediante plico raccomandato in copia i seguenti atti:

- i provvedimenti impugnati con il ricorso di primo grado;

- i ricorsi di primo grado;

- le sentenze del T.a.r. appellate;

- gli atti di appello del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare;

- le memorie difensive depositate da tutte parti nel giudizio di appello, sia nella fase innanzi alla VI davanti che in quella davanti all’Adunanza Plenaria;

- la sentenza parziale con contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria pronunciata nel presente giudizio dalla Sesta Sezione, 21 maggio 2013, n. 2740;

- la presente ordinanza;

- copia delle seguenti norme nazionali: articoli da 239 a 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152; art. 99 del codice processo amministrativo.

Sospensione del giudizio.

52. Il presente giudizio viene sospeso, nelle more della definizione dell’incidente comunitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva".

Ordinanza CDS 21 del 2013

Anche i privati possono partecipare alla conferenza di servizi?

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

L’art. 9 della l. 241/1990 recita: “Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.

Tale disposizione è applicabile anche alla conferenza istruttoria e decisoria ex artt. 14 e ss. della l. 241/1990?

Parrebbe proprio di si.

La conferenza di servizi, soprattutto se istruttoria, non è ex se incompatibile con i principi generali dettati dagli artt. 9 e 10 della l. 241/1990 in materia di partecipazione procedimentale: nello specifico, infatti, l’apporto collaborativo dei privati può aiutare l’Amministrazione ad inquadrare correttamente gli interessi pubblico-privati connessi alla tematica da valutare e, di conseguenza, può permettere all’ente di adottare una decisone più ponderata.

In particolare, fermo restando che i soggetti proponenti possono partecipare di diritto alla conferenza de qua (cfr. l’art. 14-ter, c. 2-bis, l. 241/1990 secondo cui: “Alla conferenza di servizi di cui agli articoli 14 e 14-bis sono convocati i soggetti proponenti il progetto dedotto in conferenza, alla quale gli stessi partecipano senza diritto di voto”), gli altri soggetti-terzi hanno la facoltà di essere sentiti e di produrre documenti. Ovviamente, per quanto riguarda l’audizione di questi soggetti-terzi, vi è un forte potere discrezionale dell’Amministrazione.

A tal proposito si sottolinea che una parte della dottrina ha ormai pacificamente affermato che: L'istituto della conferenza di servizi è stato ritenuto, in passato, alternativo al procedimento e, pertanto, tale da escludere anche la partecipazione dei privati. La dottrina faceva leva sulla funzione acceleratoria degli istituti di partecipazione, che, si riteneva, mal si coniugava con gli appesantimenti della partecipazione (...) Gli approfondimenti successivi hanno messo in evidenza da un lato che fra gli istituti di partecipazione e quelli di semplificazione esiste un rapporto di reciproco condizionamento e integrazione, dall'altro che la funzione della conferenza di servizi è da ricercare piuttosto nella sua capacità di razionalizzazione della "amministrazione della complessità", in un contesto caratterizzato dalla multiforme presenza di istituzioni, pluralità crescente di interessi pubblici e privati. Non esiste quindi, incompatibilità fra le esigenze della partecipazione e la funzione dell'istituto.

In primo luogo, si è chiarito che la fase della partecipazione dei privati al procedimento non è affatto esclusa, ma deve aver luogo prima che, nella riunione conclusiva, la conferenza svolga la sua funzione essenziale, rivolta alla determinazione dell'assetto di interessi” (AA. VV., Diritto Amministrativo, a cura di F. G. Scoca, II ^ ed., 2011, Torino, pagg. 366, 367, 268).

Anche parte della giurisprudenza sembra essersi allineata a tale pensiero: “La conferenza di servizi è il luogo fisico e giuridico in cui i "servizi" (ossia le amministrazioni e i concessionari di servizi pubblici chiamati ad esprimere il proprio assenso su un determinato piano o progetto) sono chiamati ad un esame contestuale dei vari interessi coinvolti da un intervento che necessita di autorizzazione da parte della p.a., laddove gli unici soggetti privati, che devono partecipare, sono coloro che richiedono l'autorizzazione e la loro presenza possibilità da parte delle amministrazioni interessate di chiedere seduta stante chiarimenti ai soggetti proponenti e/o di far presenti eventuali esigenze istruttorie; invece i terzi possono solo chiedere di partecipare e la relativa decisione è rimessa al soggetto che presiede la conferenza, ma in ogni caso possono presentare memorie e documenti, dei quali si deve tenere conto in sede di motivazione dell'atto finale, sempre che si tratti di osservazioni pertinenti e a loro volta motivate” (T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 14.12.2012, n. 803); ed anche: “La conferenza di servizi convocata ai sensi dell'art. 87, comma 6, d. lg. n. 259 del 2003, è configurata come di tipo decisorio; ne consegue che, ferma la prevista partecipazione con diritto di voto degli enti locali, e dell'Agenzia per la protezione ambientale competente ai sensi dell'art. 14 l. 22 febbraio 2001 n. 36, quella con diritto di voto delle amministrazioni "interessate", come i ministeri (altresì con delega formale al rappresentante), è da prevedersi in quanto debbano rendere "intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati" (art. 14, comma 2, l. n. 241 del 1990), cioè manifestazioni di volontà previste dalla normativa ai fini del procedimento, e quindi, con specifico riguardo al Ministero per i beni e le attività culturali, se l'area interessata è oggetto di vincolo paesaggistico. Quanto ai privati deve essere assicurata la partecipazione, senza diritto di voto, del soggetto proponente il progetto, ai sensi del comma 2 bis dell'art. 14 ter della stessa l. n. 241 del 1990 (introdotto dall'art. 9 l. 18 giugno 2009 n. 69), restando possibile la partecipazione, nella forma dell'audizione ed a fini istruttori, di privati portatori di interessi che siano riconosciuti rilevanti nella valutazione del responsabile del procedimento” (Consiglio di Stato, sez. VI, 15.07.2010, n. 4575); ed ancora: “La partecipazione di soggetti privati (in veste informativa e collaborativa) alla conferenza di servizi (ora esplicitamente prevista dal legislatore, in seguito alle modifiche apportate all'istituto dalla l. 24 novembre 2000 n. 340) non può considerarsi interdetta - tanto meno a pena d'illegittimità - dal testo vigente all'epoca dei fatti di causa dell'art. 14 l. 7 agosto 1990 n. 241, che si ritiene abbia voluto, invece, rappresentare il modulo strutturale dell'istituto soltanto nel suo contenuto minimo” (T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 04.02.2003, n. 359).

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Marche n. 803 del 2012

Attività di inumazione ed esumazione e costruzioni cimiteriali e ricordi votivi: parere della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto

02 Ott 2013
2 Ottobre 2013

La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto esprime il proprio parere in relazione al vincolo culturale posto sui cimiteri con particolare riferimento alle

Attività di inumazione ed esumazione e costruzioni cimiteriali e ricordi votivi

Allegato Circ 27_2013

Il parere appare interessante perchè estende la valutazione anche alle opere realizzate per effetto di concessioni, anche perpetue.

SUAP e perequazione urbanistica: rapporto “protetto” o rapporto a rischio?

01 Ott 2013
1 Ottobre 2013

Venerdì 26 settembre ho partecipato al Convegno intitolato La legge “del fare” e le procedure semplificate per le attività produttive, tenutosi a Spinea sotto la sapiente ed appassionata regia dell’arch. Fiorenza dal Zotto.

Nel complimentarmi con i relatori per i loro qualificati interventi, vorrei approfittare dell’ospitalità di Venetoius – la cui autorevolezza e diffusione tra gli operatori del diritto e della pubblica amministrazione, soprattutto degli Enti locali, è un sicuro dato di fatto, riconosciuto più volte anche in occasione del citato Convegno – per sollecitare una discussione sul tema della legittimità della (presunta) perequazione (alla veneta) negli strumenti urbanistici e, in particolare, nelle operazione di sportello unico per le attività produttive (SUAP) in deroga (art. 3 L.R. 55/2012) o in variante (art. 4) a detti strumenti.

 L’argomento è stato, invero, toccato dall’arch. Dal Zotto, che nell’ambito del Convegno citato in premessa si è occupata delle novità introdotte in materia di SUAP dalla legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55, ma l’esiguità del tempo a disposizione, unitamente alla collocazione del suo intervento in ora ormai tarda, con l’attenzione e lo spirito critico degli astanti inevitabilmente affievolito, non hanno consentito l’approfondimento espositivo ed il conseguente dibattito che il tema avrebbe indubbiamente richiesto.

 Riservandomi di offrire un più meditato contributo alla discussione, che nel frattempo mi auguro possa registrare ben più autorevoli e qualificati apporti di tecnici della pianificazione e di giuristi in campo urbanistico, mi limito per ora a queste  considerazioni riportate nel documento sotto allegato.

dott. Roberto Travaglini - Confindustria Vicenza

Rapporto tra SUAP e perequazione_1.10.2013

L’industria insalubre non deve superare la normale tollerabilità

01 Ott 2013
1 Ottobre 2013

L’art. 216 del R. D. 27.07.1934 n. 1265 (T.U.L.S.) recita: “Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute de gli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi.

La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda, quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato.

Questo elenco, compilato dal Consiglio superiore di sanità, è approvato dal Ministro per l'interno, sentito il Ministro per le corporazioni, e serve di norma per l'esecuzione delle presenti disposizioni.

Le stesse norme stabilite per la formazione dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni altra fabbrica o manifattura che posteriormente sia riconosciuta insalubre.

Una industria o manifattura la quale sia inserita nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato.

Chiunque intende attivare una fabbrica o manifattura, compresa nel sopra indicato elenco, deve quindici giorni prima darne avviso per iscritto al podestà, il quale, quando lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può vietarne la attivazione o subordinarla a determinate cautele.

Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da L. 40.000 a L 400.000”.

 A tal proposito il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 24 settembre 2013 n. 4687 chiarisce che, per quanto concerne le industrie insalubri di prima classe costituite dagli allevamenti intensivi, l’autorizzazione può essere concessa e/o mantenuta solamente se le esalazioni e gli odori non superino il limite della normale tollerabilità: “Con riferimento alle previsioni dell’art. 216, cit., l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri” (di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”; detti interventi hanno concretizzato “le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”; mentre la sanzione comminata in forza della mancata realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la loro esecuzione ed efficienza”.

 Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999, vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che anch’esse debbano essere contenute entro limiti di tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo dell’Amministrazione locale.

 E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva. L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15 febbraio 2001, n. 766); inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V, 14 settembre 2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V, 19 aprile 2005, n. 1794).

 Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit., riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato, V, 24 marzo 2006, n. 1533)”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 4687 del 2013

 

Il fatto che i pannelli fotovoltaici si vedono non è un buon motivo per negarne l’installazione in zona vincolata

01 Ott 2013
1 Ottobre 2013

Lo dice la sentenza del TAR Veneto n. 1104 del 2013.

Scrive il TAR: "1. Il parere vincolante della Soprintendenza, nella parte in cui contiene la prescrizione sopra citata, appare viziato da eccesso di potere e difetto di motivazione. 1.1 La Soprintendenza ha argomentato il proprio parere affermando l’esistenza di un’incompatibilità con il paesaggio “in quanto gli elementi da installare risulterebbero, in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante..”.
1.2 La semplice lettura della motivazione sopra citata consente di rilevare come la valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, sia del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto e all’intervento di cui si tratta.
1.3 Nel provvedimento, non solo non vi è nessun riferimento alla metratura o al posizionamento dell’impianto, ma ancora risulta del tutto assente l’individuazione e la menzione di un elemento del paesaggio e dell’ambiente circostante che, in quanto tale, risulterebbe deturpato, o quanto meno pregiudicato, dalla realizzazione di un impianto la cui ampiezza è, peraltro, circoscritta a soli 40 mq. 1.4 Ne consegue che in mancanza di una valutazione strettamente correlata al caso di specie potrebbe risultare astrattamente ammissibile, sempre e comunque, un giudizio di incompatibilità di una qualunque struttura degli impianti di cui si tratta, suscettibili, in quanto tali e di per sè, di incidere comunque nell’area di riferimento.
1.5 Come correttamente ha rilevato la parte ricorrente un più recente orientamento giurisprudenziale (T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 28-01-2013, n. 235), cui questo Collegio ritiene di aderire, ha sancito che “per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico sulla sommità di un edificio, bisogna dare la prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, ….”. Non è, pertanto, ammissibile una valutazione astratta e generica non supportata da un’effettiva dimostrazione dell’incompatibilità paesaggistica dell’impianto.
1.6 Analogamente si è sostenuto che “attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione pubblici ( in questo senso anche T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 04-10-2010, n. 3726 e sempre TAR Brescia Sez. I 15 aprile 2009 n. 859)”.
2. In considerazione dell’orientamento sopra richiamato il ricorso può, pertanto, essere accolto e può essere annullata la condizione imposta dalla Soprintendenza di Verona all’autorizzazione paesaggistica contenente il divieto alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico e/o solare".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1104 del 2013

Pubblicata la legge regionale sui casoti

30 Set 2013
30 Settembre 2013

Sul Bur n. 82 del 27 settembre 2013 è stata pubblicata la legge regionale  n. 23 del 24 settembre 2013, recante "Rideterminazione del termine di validità del piano faunistico-venatorio regionale approvato con legge regionale 5 gennaio 2007, n. 1".

Segnaliamo l'articolo 3:

Art. 3
Disposizioni in materia di appostamenti per la caccia

 

1.    Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 20 bis della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” così come modificato dal presente articolo, sono da considerarsi opere precarie e sono soggetti a DIA gli appostamenti per la caccia agevolmente rimovibili, destinati ad assolvere esigenze specifiche, contingenti e limitate nel tempo e ad essere rimossi al cessare della necessità. Ove tali opere ricadano in aree tutelate ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”, le stesse sono assoggettate a procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell’allegato 1, punto 39, del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 139 “Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell’articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni”.
2.    Sono soggette a semplice comunicazione le opere precarie di cui al comma 1, ove rimosse entro novanta giorni; è in ogni caso fatta salva l’autorizzazione paesaggistica semplificata qualora ricadano in aree tutelate ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
3.    I comuni possono determinare le modalità costruttive per gli appostamenti di caccia di cui ai commi 1 e 2, nel rispetto della vigente disciplina in materia edilizia.
4.    Per gli appostamenti di caccia diversi da quelli di cui al presente articolo trovano applicazione le vigenti disposizioni in materia edilizia e paesaggistica.
5.    La DIA di cui al comma 1 e la comunicazione di cui al comma 2 devono essere inoltrate al comune territorialmente competente e, per conoscenza, alla provincia territorialmente competente ai fini della pianificazione faunistico-venatoria.
6.    Il comma 2 dell’articolo 20 bis della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” è così sostituito:

“2.    Le province identificano, d’intesa con gli ambiti territoriali di caccia o i comprensori alpini, le zone in cui possono essere collocati gli appostamenti di cui al comma 1; gli appostamenti collocati al di fuori delle zone individuate dalle province non possono essere utilizzati a fini venatori.”.

7.    La lettera h) del comma 2 dell’articolo 9 della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” è così sostituita:

“h)    l’identificazione delle zone in cui sono collocabili gli appostamenti fissi, tenuto conto anche di quelli autorizzati alla data in vigore della legge 157/1992; per gli appostamenti che vengono rimossi a fine giornata di caccia non è previsto l’obbligo della comunicazione al comune territorialmente competente;”.
 

La Regione Veneto salva tende, roulotte, caravan, mobil-home, maxicaravan e case mobili

30 Set 2013
30 Settembre 2013

Sul Bur n. 82 del 27/09/2013 è stata pubblicata la legge regionali n. 24 del 24 settembre 2013, recante "Misure di semplificazione per la realizzazione di strutture ricettive all'aperto", che sostanzialmente salva i campeggi e strutture simili dalle previsioni di cui all'articolo 41, comma 4, del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (che li sottoponeva a titoli edilizi).

La legge stabilisce che:

"Art. 1
Realizzazione di strutture ricettive all'aperto
1. In relazione all'articolo 3, comma 1, lettera e.5), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia" e successive modificazioni, nel testo aggiunto dall'articolo 41, comma 4, del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 "Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia", convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, per la realizzazione delle opere di strutture ricettive all'aperto, e in particolare per la collocazione e la installazione di allestimenti mobili, continua a trovare  applicazione l'articolo 30 della legge regionale 4 novembre 2002, n. 33 "Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo" e successive modificazioni."

Ricordiamo che il comma 6 dell'art. 30 della legge regionale n. 33/2002 stabilisce che:

"6. Gli allestimenti mobili di pernottamento, quali tende, roulotte, caravan, mobil-home, maxicaravan o case mobili e relative pertinenze ed accessori sono diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee e se collocati, anche in via continuativa, in strutture turistiche ricettive all'aperto regolarmente autorizzate, non sono soggetti a, permesso di costruire, dichiarazione di inizio attività (DIA) o ad autorizzazioni e comunicazioni previste a fini edilizi da strumenti urbanistici o edilizi. A tal fine i predetti allestimenti devono:

a) conservare i meccanismi di rotazione in funzione;
b) non possedere alcun collegamento di natura permanente al terreno e gli allacciamenti alle reti tecnologiche, gli accessori e le pertinenze devono essere rimovibili in ogni momento".

Legge Regionale 24 del 24 settembre 2013

Governo delle attività economiche e del territorio al tempo della crisi: Università di Verona, venerdì 04 ottobre 2013,

30 Set 2013
30 Settembre 2013

L'evento in oggetto si svolgerà Venerdì 4 Ottobre 2013 presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Verona (Via C. Montanari, 9).

L'evento è accreditato da Ordini e Collegi professionali di Architetti, Avvocati, Geometri ed Ingegneri. L'iscrizione e la partecipazione (fino ad esaurimento posti) sono gratuiti

Iscrizioni tramite e-mail a euroverona@gmail.com oppure via fax allo 045 4853185.

EVR_Seminario di Studi Urbanistici-Programma2013_Incontro_04_OTT

Secondo Strasburgo se il comune è insolvente paga lo Stato

27 Set 2013
27 Settembre 2013

La condizione di dissesto dell'ente locale coincide con una situazione di crisi finanziaria particolarmente grave. Si tratta della condizione “strutturalmente deficitaria”, di cui all'art. 242, comma 1, del t.u.e.l., che ricorre quando l'ente presenta “gravi e incontrovertibili condizioni di squilibrio”, rilevabili mediante parametri obiettivi risultanti da apposita tabella allegata al certificato sul rendiconto della gestione del penultimo esercizio precedente quello di riferimento. Il t.u.e.l. prevede due possibili presupposti che determinano il dissesto finanziario, infatti, l'art. 244, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 recita: “Si ha stato di dissesto finanziario se l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte con le modalità di cui all'art. 193, nonché con le modalità di cui all'art. 194 per le fattispecie ivi previste”. Per comprendere in che cosa consistano i presupposti del dissesto si può far ricordare il testo del d.p.r. 24 agosto 1993, n. 378, adottato in esecuzione al decreto legge n. 8 del 1993, nel quale è detto che “il mancato assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili” risulta qualora l'ente, “pur riducendo tutte le spese relative a servizi non indispensabili”, non è in condizione “di assicurare il pareggio economico del bilancio di competenza”, “a causa di elementi strutturali”. La situazione di insolvenza ricorre, invece, allorché l'ente abbia debiti “liquidi ed esigibili” che “non trovino valida copertura finanziaria (…) con mezzi di finanziamento autonomi dell'ente senza compromettere lo svolgimento delle funzioni e dei servizi indispensabili”.

Rilevate tali situazioni, si esclude alcuna discrezionalità nella declaratoria del dissesto dell'ente: il quale, in presenza di dati obiettivi, è obbligato a dichiararla. In presenza di una delle condizioni indicate dall'art. 244, il Consiglio dell'ente è, dunque, tenuto a dichiarare lo stato di dissesto, con delibera irrevocabile, motivata anche con riguardo alla valutazione delle cause dello stato di dissesto. La delibera con cui si dichiara il dissesto, a cui va allegata la relazione dettagliata dell'organo di revisione economico finanziaria che analizza le cause che hanno provocato il dissesto, deve essere trasmessa, entro cinque giorni, al Ministero dell'interno ed alla procura regionale della Corte dei conti ed è poi pubblicata per estratto nella Gazzetta Ufficiale a cura del Ministero dell'interno insieme al decreto del Presidente della Repubblica di nomina dell'organo straordinario di liquidazione. La dichiarazione di dissesto produce tre ordini di effetti:

1)      In primo luogo, risultano interessanti le conseguenze relative agli Amministratori dell’ente locale, le quali sono limitate a quelli che la Corte dei conti ha riconosciuto responsabili, anche in primo grado, di danni da loro prodotti, con dolo o colpa grave, nei cinque anni precedenti il verificarsi del dissesto finanziario.

2)       Le conseguenze sui creditori operano fin dall'inizio riguardano i rapporti obbligatori rientranti nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione e consistono nella cristallizzazione dei debiti dell'ente, che non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria, nonché nell'estinzione delle procedure esecutive in corso, con conseguente inefficacia dei pignoramenti eventualmente eseguiti, e nell'impossibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti dell'ente.

3)      La dichiarazione di dissesto ha effetti ,poi, sulla disciplina da applicare alla gestione durante il periodo intercorrente tra tale dichiarazione e l'approvazione dell'ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato. L'ente si trova sottoposto ad una sorta di stato di tutela e la sua autonomia non gode più delle garanzie costituzionali a causa del cattivo uso che è stato fatto di tale autonomia, cosi, le spese sono circoscritte a quelle relative ai servizi ritenuti indispensabili dallo Stato.

Il 24 settembre 2013, la Corte di Strasburgo, sezione seconda ha definito il ricorso nr. 43870/04, stabilendo che, nel caso in cui i Comuni Italiani siano insolventi, sarà lo Stato Italiano a pagare i loro debiti. Nelle sue osservazioni, il Governo ha descritto come il fallimento di un Amministrazione locale viene determinato da una “'Dichiarazione di insolvenza” (Stato di Dissesto), con la necessità di soddisfare e risanare finanziariamente la comunità colpita, al pari essenzialmente alle procedure concorsuali ordinarie ( con tanto di condicio creditorum). Tuttavia, a differenza di una società privata, - proseguiva il Governo - la comunità locale in mora non cessa di esistere e deve continuare a svolgere i suoi compiti istituzionali. Si deve pertanto disporre delle risorse necessarie, perciò il blocco delle funzioni deve essere limitato al periodo antecedente la dichiarazione di insolvenza (cioè i crediti precedenti al 31 dicembre dell'anno precedente la dichiarazione di fallimento) e non si estende alle operazioni finanziarie posteriori.La Corte ritiene, però, che la mancanza di una risorsa comune non può giustificare l’omissione di adempiere agli obblighi di una sentenza definitiva nei proprio confronti (v., mutatis mutandis, Ambruosi v Italia, no. 31227/96, § § 28-34, 19 ottobre 2000 e Burdov, citata sopra, § 41) . La Corte tiene a sottolineare che si tratta, nel caso de quo di un debito di un ente locale, quindi un organo dello Stato, in virtù di una decisione giudiziaria che condannava al pagamento dei danni. Questo aiuta a differenziare questo caso dalla precedente v. Finlandia, citata dal Governo, dove vi era stato lo sviluppo di un credito nei confronti di un individuo, e come il caso Koufari e ADEDY c. Grecia ((decisione), n 57665/12 e 57657/12, § § 31-50, 7 maggio 2013), dove vi era una questione di politica sociale per ridurre una retribuzione ed una pensione.

In conclusione la Corte ha dichiarato:

-          che vi è stata una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n ° 1 alla Convenzione;

-          che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione;

-          che non vi è alcuna necessità di esaminare la denuncia ai sensi dell'articolo 13 della Convenzione

-          che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diviene definitiva in conformità con l'articolo , 44 § 2 della Convenzione, i seguenti importi:. ± 50 000 (50.000 €), più qualsiasi tassa che può essere addebitabile come tassa per il materiale e morale danni, 5 000 EUR (cinquemila euro), più qualsiasi tassa che può essere addebitabile ad imposta da parte del richiedente, costi e spese a partire dalla scadenza del termine fino al versamento, tali somme devono essere versate su un interesse semplice ad un tasso pari al il tasso di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;.

-          rigetta la domanda di equa soddisfazione in applicazione dell'articolo 77 § § 2 e 3 del regolamento.

dott.sa Giada Scuccato

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