L’origine della tutela dell’affidamento in materia di abusi edilizi

15 Ott 2012
15 Ottobre 2012

Il T.A.R. Veneto, sez. II, con la sentenza del 10 ottobre 2012, n. 1255, si sofferma sul c.d. principio di tutela dell’affidamento: il titolare di un’immobile abusivo può contestare l’ordine di demolizione impartito dall’Amministrazione, se questa da anni/decenni sia sciente dell’abuso edilizio realizzato e, ciò nonostante, non si sia attivata celermente.

A tal fine il T.A.R. indica “la necessità di verificare l’esistenza di alcuni presupposti, precisamente riconducibili sia all’avvenuto accertamento che gli abusi siano stati eseguiti in un periodo molto risalente sia, ancora, alla constatazione circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che presuppone una conoscenza dell’abuso) e, in ultimo, del nesso causale tra l’inerzia e l’affidamento ingenerato nei confronti del privato”.

L'origine di tale principio è da rinvenire nella pronunzia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19 maggio 1983, n. 12, la quale, dopo aver affermato la natura vincolata del potere-dovere sanzionatorio in materia di abusi edilizi (scrivendo che: " Mentre originariamente esso era stato configurato come un potere squisitamente discrezionale, rimesso interamente, come chiaramente si desume dall'uso del verbo "può", all'apprezzamento che di volta in volta il Sindaco ritenesse di dover esprimere, successivamente esso ha assunto la configurazione di potere-dovere dello stesso Sindaco di reprimere gli abusi edilizi, ordinandone la demolizione e la rimessione in pristino ogni qual volta le opere poste in essere fossero risultate sfornite dell'autorizzazione o in contrasto con esse"), si sofferma poi sull’interesse pubblico oggetto di valutazione da parte dell’Amministrazione. Su questo punto, la A.P. scrive che tale interesse: "mentre si esplica in ampia dimensione nella fase di programmazione dell'assetto territoriale, nella fase che qui si considera”(quella dell'accertamento dell'abuso e di irrogazione della sanzione ) “in ossequio all'esigenza di conformarsi alle scelte in precedenza operate e di realizzarle, non è di regola tenuta a riproporsi con particolari valutazioni per la repressione degli illeciti edilizi accertati", essendo ex se sufficiente l’abusività dell’opera.

L’Adunanza prevede un temperamento di quanto appena esposto laddove l'opera eseguita in assenza di titolo abilitativo sia comunque conforme allo strumento pianificatorio comunale ovvero se "l'inerzia dell'Amministrazione in presenza dell'abuso perpetrato dal privato” (...) è “protratta per un lasso di tempo molto rilevante”. A riguardo il Consiglio di Stato asserisce che "il lunghissimo decorso del tempo senza che l'Amministrazione si sia comunque preoccupata di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto violata” (...) “impone che l'eventuale iniziativa demolitoria abbisogni di essere sorretta da motivazioni più adeguate, rispetto a quella che si riferisca alla semplice constatazione dell'abusività dell'opera".

Emerge chiaramente che l’affidamento creato nel privato può essere superato dall’Amministrazione solamente con una attenta e specifica motivazione indicante le prevalenti ragioni pubblicistiche che determinano la demolizione dell’abuso edilizio realizzato.

Il principio così enucleato è ancora costantemente affermato: “Il principio, secondo cui l’ingiunzione demolitoria, come atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell'accertata abusività dell'opera, viene derogato nel caso in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale sussiste un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse - evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità - idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato” (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3270).

dott. Matteo Acquasaliente

Adunanza Plenaria 19.05.1983 n. 12

Il decreto legge 174 del 2012 rafforza i controlli sugli enti locali

15 Ott 2012
15 Ottobre 2012

E' entrato in vigore il giorno 11 ottobre 2012 il decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, recante "Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti terrioriali"

L'articolo 3 del decreto contiene rilevanti novitĂ  in materia di controllo negli enti locali e una forma di "protezione" del responsabile del servizio finanziario.
Segnaliamo che sul Portale del Tecnico Pubblico Lombardo (vedi link a lato), in data 11.10.2012, sono state pubblicate alcune appassionate note sul tema.

 

Il cambio di destinazione d’uso senza opere è soggetto a permesso di costruire se avviene tra due categori funzionalmente autonome, perchè incide sul carico urbanistico

12 Ott 2012
12 Ottobre 2012

Una delle disgrazie dell'ordinamento giuridico italiano è la destinazione d'uso degli edifici, soprattutto quando viene combinata con la evanescente figura del carico urbanistico, al fine di trarne conseguenze limitative della fruizione del diritto di proprietà o di imporre il pagamento di qualche gabella.

Un esempio di questo è contenuto nella sentenza del TAR Lazio n. 8297 del 2012: " a). come precisato da controparte anche il semplice cambio di destinazione d’uso privo di opere edilizie, se operante tra due categorie funzionalmente autonome, (da cantina C2 a residenziale A4), come nel caso di specie, è soggetto al permesso di costruire in quanto va ad incidere sul carico urbanistico dell’immobile e sul volume;
b). inoltre, sono state realizzate anche delle opere edilizie (cfr., tramezzature interne per la realizzazione di un vano bagno; finestra; installazione dei controtelai; posa in opera di intonaci interni; posa in opera della porta esterna; posa in opera di impianti).
Per giurisprudenza consolidata, il cambio di destinazione d’uso da cantina e garage in civile abitazione necessita di un previo titolo abilitativo stante l’aumento della superficie residenziale che si determina con contestuale aumento del carico urbanistico;
c). infine, l’edificio ricade pienamente e totalmente nell’area vincolata e archeologica Nomentum; in base al PRG del Comune di Mentana e all’art. 28 LR Lazio 29/97 per poter effettuare qualsiasi tipo di intervento edilizio è necessario acquisire previamente l’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D. Lgs. n. 42/2004.
In conclusione, stante la legittimità dell’operato della PA, la completezza dell’istruttoria svolta e l’adeguatezza della motivazione del provvedimento impugnato, il ricorso deve essere respinto".

Ma l'aumento del carico urbanistico va valutato in astratto o in concreto?

Se trasformo una cantina in una cucina, perchè aumento il carico urbanistico? Forse in astratto, ma in concreto direi di no.

E se in un edificio regolarmente residenziale invito a cena ogni sera 20 persone che giungono ciscuna in macchina, aumento il carico urbanistico? In astratto no e in concreto si? ChissĂ ...

Forse è giunto il momento di dirci che il criterio del carico urbanistico è utile per creare problemi ai cittadini, ma non tanto per creare un ordinato assetto del territorio dal punto di vista urbanistico.

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Lazio 8297 del 2012

 

La semplice constatazione del fatto che un’opera è priva di titolo, a prescindere dal tempo trascorso, costituisce un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive?

11 Ott 2012
11 Ottobre 2012

In numerose sentenze, tra le quali  quella del TAR Veneto n. 1255 del 2012, si insegna che "la semplice constatazione dell'abuso, a prescindere dal tempo trascorso, costituisca un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive e, ciò, in considerazione del carattere “dovuto” di detto provvedimento".

A nostro parere,  l'affermazione è condivisibile, a patto che si accetti la seguente precisazione:  se l'opera è nata abusiva, è vero che il passaggio del tempo non la sana; se, invece, un'opera è senza titolo, ma non è nata abusiva, perchè all'epoca della sua realizzazione non era richiesto un titolo,  allora non si può dire che il passaggio del tempo la renda abusiva, in virtù di disposizioni urbanistiche sopravvenute.

Ci spieghiamo meglio.

Nel caso esaminato dal  TAR, il Comune accertava, in data 15/02/2012, la presenza di un manufatto adibito a magazzino, realizzato in assenza del permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, manufatto incidente su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del DM del 14/05/1975. In data 27/03/2012 lo stesso Comune notificava alle ricorrenti un’ordinanza di sospensione lavori e di avvio del procedimento per opere eseguite in assenza del titolo abilitativo edilizio e paesaggistico ambientale. In data 10 Maggio 2012 veniva notificata alle ricorrenti la diffida n. 47 diretta alla rimessione in pristino impugnata con il  ricorso. Con il primo motivo il ricorrente ha sostenuto che il provvedimento impugnato sia stato assunto in violazione e falsa applicazione degli art. 3 e 31 del D.p.r. n. 380/2001 in quanto il magazzino abusivo sarebbe stato realizzato in un periodo anteriore al 1° settembre 1967 e, quindi, in un regime giuridico in cui non era necessaria la concessione edilizia. Solo a partire da detta data, infatti, è divenuto efficace, su tutto il territorio nazionale, l’obbligo di acquisire, al fine di procedere alla realizzazione di un manufatto edilizio, una preventiva concessione edilizia adottata nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche di cui alla legge 17 agosto 1942 n. 1150 e ai sensi della legge del l° agosto 1967 n.765. Il ricorrente ha contesta tosia il fondamento della dichiarazione del proprietario confinante (che afferma come il manufatto sia stato realizzato tra il 1980 e il 1985) sia, ancora, l’idoneità di una foto aerea del 1967, in quanto tale non sufficiente a ricondurre l’esistenza del manufatto ad un periodo successivo alla data sopra riportata.Sul punto va rilevato come il ricorrente si sia limitato semplicemente ad affermare la “non idoneità” della prova fotografica addotta dal Comune a datare il manufatto, senza per questo fornire ulteriori elementi documentali o riscontri suscettibili di inficiarne la validità.

In questa situazione processuale, il TAR respinge il ricorso, dicendo che: "In realtà è necessario rilevare come, per la giurisprudenza maggioritaria, la semplice constatazione dell'abuso, a prescindere dal tempo trascorso, costituisca un legittimo presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive e, ciò, in considerazione del carattere “dovuto” di detto provvedimento. E’ utile ricordare, infatti, come nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Il provvedimento di cui all’art. 31 deve allora ritenersi sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, non necessitando di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso (per tutte si veda T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, 28 dicembre 2009, n. 9638 e T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 6 febbraio 2012, n. 580)".

Il rischio che intravediamo è che i Tribunali facciano concidere il concetto di opera abusiva con quello di opera priva di titolo.

Per la verità, dalla sentenza non emerge un preciso accertamento della data di realizzazione dell'opera e, quindi, non sappiamo se abbia ragione il Comune a dire che è stata realizzata dopo il 1967 o il ricorrente ad affermare il contrario.  La questione, però, è importante, perchè, per lo più da questo conseguirebbe che, nel primo caso,  l'opera è nata abusiva e, nel secondo caso, no  (anche se è priva di titolo).

Il caso specifico è un po'particolare, perchè il Comune sostiene la sua posizione con una foto del 1967 ed vero anche che il ricorrente non si è preoccupato di smentire la valenza della fotografia con qualche prova (e si è limitato a contestarne la rilevanza).

Ma, a prescindere dal caso oggetto della sentenza, in linea generale, se un ricorrente non fornisse la prova che l'opera è nata prima del 1967, questo comporterebbe necessariamente che per ciò solo l'opera sarebbe da considerarsi realizzata dopo il 1967?

A nostro parere no e, se passasse un tale tesi, i risultati sarebbero sommamente ingiusti. In primo luogo, va detto che è il Comune che afferma che l'opera è abusiva, perchè è stata realizzata senza titolo dopo il 1967 (e pone questa affermazione a fondamento del'ordine di demolizione), e l'articolo 2697 del codice civile pone l'onere della prova a carico di chi afferma un fatto e non di chi lo nega. In secondo luogo, man mano che passano gli anni e muoiono le persone che posso ricordare lo stato dei luoghi nel 1967, come si può pretendere che il cittadino fornisca la prova della data di realizzazione di un immobile?

A nostro giudizio, dunque, affinchè l'obbligo di repressione degli abusi edilizi non diventi una ulteriore forma di vessazione dei cittadini, è necessario che la giurisprudenza richieda che sia la P.A. a dimostare che l'immobile è abusivo (perchè realizzato senza titolo dopo una certa data) e non il cittadino a dimostrare che esso è stato realizzato prima di una certa data, quando non era chiesto alcun titolo.

Una ulteriore precisazione: la giurisprudenza ha chiarito più volte che, se l'immobile è abusivo e dopo la sua realizzazione è sorto il vincolo paesaggistico, allora l'immobile è abusivo anche dal punto  di vista paesaggistico. Va bene, basta che non si arrivi al punto di dire che, se un immobile è stato realizzato senza titolo quando non era chiesto alcun titolo  e dopo è sorto il vincolo paesaggistico, allora l'immobile è abusivo  dal punto di vista paesaggistico.

E' la scoperta dell'acqua calda? Non proprio, viste le ottusitĂ  persecutorie di alcuni uffici comunali.

Se reprimere gli abusi è doveroso, esagerare è incivile e i Tribunali possono arginare le derive persecutorie: in fin dei conti, se la Costituzione attribuisce al cittadino un diritto, ma questo diritto poi non è riconosciuto dai Tribunali, è come se il diritto non esistesse.

La questione che solleviamo in questo post è diversa da quella della tutela dell'affidamento derivante dal lungo passagio del tempo, della quale pure tratta la sentenza n. 1255 del 2012 e che vedremo in un successivo post.

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1255 del 2012

 

Da quando decorre il termine di prescrizione decennale del contributo di concessione dovuto in caso di condono edilizio?

10 Ott 2012
10 Ottobre 2012

Alla domanda risponde la sentenza del Consiglio di Stato n. 5201 del 2012.

Scrive il Consiglio di Stato: "costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello per cui “il termine decennale di prescrizione dell'obbligazione sul pagamento degli oneri concessori decorre, nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, dalla formazione del silenzio assenso e questo, ai sensi dell'art. 35, l. 28 febbraio 1985 n. 47, si forma dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la
documentazione completa a corredo della domanda di concessione.”(T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. II, 17 novembre 2010 , n. 2600);”
”il contributo di concessione dovuto, in caso di condono edilizio, ai sensi dell'art. 37, l. 28 febbraio 1985 n. 47, è soggetto a prescrizione decennale, la quale decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Il termine stesso decorre dall'emanazione della concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, decorso il quale quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio, formandosi così il silenzio — assenso.”(T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 09 dicembre 2010 , n. 234)".

Per quanto riguarda la rilevanza della documentazione richiesta dal Comune, scrive il Consiglio di Stato: "per costante quanto pacifica opzione ermeneutica (peraltro pienamente condivisa dal Collegio in quanto aderente alla lettera della legge e non collidente con la ratio che presiede alla formazione del titolo abilitativo per silentium) “posto che per gli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione il "dies a quo" decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il "dies a quo" non può coincidere con la presentazione della domanda, sfornita della documentazione prescritta per la domanda di condono, richiesta ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione; sicché la decorrenza del termine di prescrizione presuppone - tanto in favore della pubblica amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso - che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 c.c. secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.”(T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 03 giugno 2010 , n. 8224)
Nel caso di specie il comune appellato, con la nota del 18 febbraio 1998 ( e quindi comunque ben prima che fosse maturata la prescrizione) chiese all’appellante l’inoltro di documentazione fotografica relativa all’opera abusiva e di piante esplicative dell’intervento, nonché di un atto notorio indicante la data dell’abuso.
L’appellante si è limitato a definire tale richiesta “inutile e vessatoria” ritenendo che la stessa dovesse considerarsi tamquam non fuisset e che, di conseguenza, doveva ritenersi che si fosse già formato il silenzio-assenso.
Senonchè non può concordarsi con la detta tesi, laddove si consideri che trattasi di documentazione senz’altro utile e congruente con l’oggetto del procedimento di sanatoria; che l’appellante non ha documentato né provato che egli aveva in passato provveduto all’inoltro della dette richiesta documentazione; che rientra nella discrezionalità dell’amministrazione procedente (nel caso di specie non irragionevolmente esercitata) richiedere al privato l’espletamento di incombenti istruttori indispensabili alla definizione della pratica e da questi in passato omessi; che il giudizio di inutilità e vessatorietà della richiesta è soltanto labialmente espresso, ma che collide all’evidenza con la natura della documentazione richiesta.
La sentenza gravata, pertanto, esattamente ha escluso che fosse maturata la prescrizione a cagione dell’avvenuta formazione del silenzio – assenso e, conseguentemente, che fosse necessario, in via di autotutela, l’annullamento del predetto titolo abilitativo formatosi per silentium, in quanto, in realtà, non poteva ritenersi che fosse intervenuto alcun condono.
Peraltro l’appellata amministrazione comunale in primo grado aveva anche fatto presente (e l’affermazione sul punto è rimasta incontestata) che la pratica di condono era incompleta in quanto mancava la certificazione dell’avvenuto deposito all’Ufficio del Genio civile della documentazione relativa alle opere eseguite (ovvero la apposita certificazione del tecnico abilitato che asseverasse la non necessità del deposito all’Ufficio del Genio civile della predetta documentazione) di guisa che anche per tal via la pratica non poteva dirsi “completa” (ai fini della formazione del silenzio-assenso)".

sentenza CDS 5201 del 2012

Come si fa a stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini

09 Ott 2012
9 Ottobre 2012

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 5196 del 2012.

Scrive il Consiglio di Stato: "vanno ribaditi, in via generale e preliminare, i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla distinzione tra atto meramente confermativo e atto di conferma in senso proprio.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio -il che esime dal fare citazioni particolari- ha statuito che allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di una istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
La giurisprudenza soggiunge che qualora l’atto successivo, adottato sulla base di una rinnovata istruttoria e di una nuova motivazione, abbia valore di atto di conferma in senso proprio, e non di atto meramente confermativo, dev’essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento.
Guardando ora più da vicino il caso in esame -che rientra nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, anche se l’impostazione della sentenza e degli atti processuali del giudizio odierno sembrano percorrere, a tratti, i binari della “giurisdizione di spettanza”, oltre, cioè, la logica dell’annullamento- , la questione sopra enunciata –esaminabile d’ufficio da questo giudice d’appello, tenuto conto delle conseguenze che ne discendono ai fini della soluzione della controversia, con conseguente superamento del rilievo di inammissibilità sollevato dalla difesa di Bioenergia- va risolta ponendo in risalto anzitutto il carattere non meramente confermativo, ma autonomo e di conferma in senso proprio, del d. d.
21.9.2011, dato che dall’esame del decreto medesimo (su cui si rinvia anche a quanto scritto sopra, al p. 1.) emerge chiaramente che la Provincia è pervenuta a confermare i contenuti del d. d. 13.5.2011 al termine del procedimento di autotutela iniziato nel luglio del 2011, “parallelo e coevo” al ricorso dinanzi al TAR, e a seguito di un riesame approfondito della situazione in fatto e in diritto.
Il decreto del 21.9.2011 è imperniato infatti su una nuova istruttoria (agli atti sono stati prodotti l’istanza di Bioenergia, le deduzioni e gli allegati) , su una base normativa differente e su una motivazione in parte diversa da quanto stabilito nel d. d. del 13.5.2011.
Viene, invero, sottoposta a disamina l’applicabilità del combinato disposto di cui agli articoli 2, comma 159, della l. n. 244/07 e 15 del d. lgs. n. 79/99.
E’ vero che “in prima battuta”-v. pag. 5 d. d. cit.- la Provincia ritiene che il campo d’azione della normativa speciale sia da limitare ai soggetti destinatari di incentivi pubblici, tra i quali non vi è Bioenergia.
(Questo aspetto è stato confutato dal TAR, secondo il quale il campo di applicazione della normativa speciale non è limitato ai soggetti che hanno ricevuto incentivi. Non risulta tuttavia esaminata l’argomentazione in diritto, a sostegno della interpretazione “restrittiva” della disposizione speciale, fondata sul d. m. 18.12.2008, di cui a pag. 5 d. d. cit. ) .
E’ vero anche però che a pag. 6 del decreto l’Amministrazione provinciale finisce per confermare la disposta decadenza considerando insussistenti i requisiti richiesti dal menzionato art. 15, e questo sull’evidente presupposto dell’applicabilità della “normativa speciale” al caso in esame .
A quest’ultimo riguardo, anche a voler “leggere” la sentenza impugnata in una prospettiva di verifica circa la sussistenza –o la insussistenza- dei requisiti richiesti dalla normativa speciale per considerare Bioenergia decaduta (o no) dall’autorizzazione del 2009, in nessun punto della sentenza il TAR ritiene che Bioenergia abbia positivamente comprovato il possesso dei requisiti richiesti dalla normativa speciale, né provvede a spiegare le ragioni per le quali Bioenergia non sarebbe decaduta dall’autorizzazione anche applicando l’art. 2, comma 159, e l’art. 15, comma 1, sopra citati. A differenza di quanto afferma la difesa di Bioenergia, sui presupposti di fatto posti a base del d. d. n. 1203 del 21.9.2011 il TAR non si è pronunciato, né, del resto, avrebbe potuto farlo avendo, la sentenza, come oggetto esclusivo il d. d. del 13.5.2011). Dall’esame della sentenza del TAR –anche a voler argomentare secondo una “logica di spettanza”- non si ricava la dimostrazione della spettanza, a Bioenergia, del bene della vita (la non-decadenza dell’autorizzazione).
E’ appena il caso di aggiungere che ci si sarebbe trovati di fronte a un atto meramente confermativo solo se l’Amministrazione provinciale, a fronte di una istanza di riesame, si fosse limitata a dichiarare l’esistenza del suo precedente del 13.5.2011, senza addurre argomentazioni ulteriori.
Così però non è stato".

sentenza CDS 5196 del 2012

Nella VIA è obbligatorio valutare anche l’opzione zero

08 Ott 2012
8 Ottobre 2012

Nella procedura di VIA è obbligatorio valutare anche le opzioni alternative, tra le quali rientra l'opzione zero.

Lo precisa il TAR Veneto nella sentenza n. 333 del 2012.

Scrive il TAR: "Con il secondo motivo i Comuni ricorrenti lamentano la mancata considerazione, nell’ambito della procedura di valutazione di impatto ambientale, delle opzioni alternative e della c.d. opzione zero al tipo di intervento richiesto.
La censura è condivisibile.
La procedura di impatto ambientale mira ad assicurare che siano fornite determinate informazioni essenziali al fine di valutare le ripercussioni sull’ambiente di un progetto.
La normativa vigente (cfr. l’art. 21, comma 2, lett. b, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152,  e l’art. 1, comma 1, lett. c, della legge regionale 26 marzo 1999, n. 10) pretende che siano identificate e valutate le possibili alternative al progetto, compresa la sua non realizzazione, con l’indicazione delle principali ragioni della scelta effettuata, al fine di rendere trasparente la scelta sotto il profilo dell'impatto ambientale, e allo scopo di evitare interventi che causino sacrifici ambientali superiori a quelli necessari al soddisfacimento dell'interesse sotteso all'iniziativa (cfr. Consiglio si Stato, Sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246). Nel caso in esame rispetto a quanto prescritto dalle norme citate il giudizio di compatibilità ambientale risulta incompleto.
Il parere infatti alle pagg. 39 e 40 afferma di avere valutato quali alternative al progetto la depurazione in situ del percolato, e l’allacciamento e scarico in fognatura, ma di averle scartate perché, benché possano portare ad una riduzione dei costi di gestione, non risolvono il problema dell’infiltrazione delle acque di pioggia e della conseguente produzione di percolato, che può essere affrontata solo intervenendo all’origine del problema.
Il parere prosegue dichiarando di non avere considerato l’opzione zero, consistente nel non effettuare alcun tipo di intervento, perché questa comporterebbe maggiori rischi ambientali connessi alla produzione di percolato.
Tali elementi di analisi, come dedotto dai Comuni ricorrenti, contraddicono la ratio delle norme citate.
Infatti, tenuto conto che la finalità principale del progetto dichiarata è quella di risolvere il problema dell’infiltrazione delle acque di pioggia, risulta
ingiustificatamente omessa la considerazione, come alternativa alla riattivazione della discarica o come opzione zero di questa specifica modalità di intervento, anche la riqualificazione del sito ottenibile dal semplice rifacimento della copertura, e manca quindi l’indicazione di un parametro essenziale ad evidenziare se le ripercussioni ambientali che derivano dalla riattivazione della nuova discarica siano proporzionate ed adeguate al raggiungimento degli obiettivi prefissi. La censura di cui al secondo motivo deve pertanto essere accolta".

T.A.R. Veneto, Venezia, 08.03.2012, n. 333

Il caos dei servizi pubblici locali: seminario organizzato dal Comune di Arzignano e da Venetoius – 26 ottobre 2012

05 Ott 2012
5 Ottobre 2012

Venetoius, in collaborazione col Comune di Arzignano e Agno Chiampo Ambiente organizza un seminario dal titolo "Il caos dei servizi pubblici locali e delle società pubbliche: dalla sentenza della Corte Costituzione n. 199 del 2012 alle norme dello “spending review” Cosa cambia nella gestione delle società?"

L'incontro sarà tenuto nella Villa Brusarosco di Arzignano nella mattina di venerdì 26 ottobre 2012.

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta la preventiva iscrizione.

Relatori:  prof. avv. Giuseppe Piperata (Università IUAV), dott.ssa Silvia Rizzardi (ARPA Veneto), avv. Stefano Bigolaro (avvocato in Padova), cons. Tiziano Tessaro, (Corte dei Conti del Veneto).

E' stato chiesto il riconoscimento dei crediti formativi al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Vicenza.

Il caos dei servizi pubblici e delle societa pubbliche_locandina

MODULO DI ISCRIZIONE

Disegno di legge di iniziativa della Giunta regionale: “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”‏

05 Ott 2012
5 Ottobre 2012
Si informa che la Giunta Regionale nella seduta del 2/10/2012 ha licenziato il Disegno di legge regionale:"Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto".
 
Tale proposta di Legge Regionale, se approvata, andrebbe a sostituire l'attuale legge regionale 15/2004.
 
Tra le novitĂ  piĂą importanti della proposta si segnalano:
 
Art. 4 - Indirizzi regionali

1. Al fine di assicurare che lo sviluppo delle attività commerciali sia compatibile con il buon governo del territorio, con la tutela dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, la salvaguardia dei beni culturali e paesaggistici e la tutela del consumatore, la Giunta regionale, entro centoventi giorni dall’entrata in vigore della presente legge, sentita la competente Commissione consiliare, adotta un regolamento ai sensi degli articoli 19, comma 2 e 54, comma 2 dello Statuto, contenente gli indirizzi per lo sviluppo del sistema commerciale in attuazione dei seguenti criteri:

a) garantire la sostenibilitĂ  economica, sociale, territoriale ed ambientale del sistema commerciale;

b) favorire la localizzazione degli interventi commerciali all’interno dei centri storici e urbani;

c) incentivare il risparmio di suolo, favorendo gli interventi di consolidamento dei poli commerciali esistenti, gli interventi di recupero e riqualificazione di aree o strutture dismesse e degradate, gli interventi che non comportano aumento della cubatura esistente in ambito comunale;

d) rafforzare il servizio di prossimitĂ  e il pluralismo delle forme distributive.

2. Il regolamento regionale di cui al comma 1:

a) detta i criteri per l’individuazione da parte degli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica delle aree idonee all’insediamento delle medie strutture con superficie di vendita superiore a 1500 metri quadrati e delle grandi strutture di vendita;

b) definisce le modalità per la valutazione integrata degli impatti e l’individuazione delle misure compensative e di mitigazione atte a rendere sostenibili gli insediamenti;

c) definisce gli ambiti territoriali di rilevanza regionale ai fini dell’applicazione dell’articolo 26, comma 1, lettera e);

d) definisce ogni altra disposizione di dettaglio per l’attuazione della presente legge.

3. Gli enti territoriali competenti adeguano gli strumenti urbanistici e territoriali al regolamento regionale di cui al comma 1 entro e non oltre centottanta giorni dalla data della sua pubblicazione. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 26, dalla data di entrata in vigore della presente legge e sino a tale adeguamento, non è consentita l’individuazione di nuove aree o l’ampliamento di aree esistenti con destinazione commerciale per grandi strutture di vendita e per medie strutture con superficie di vendita superiore a 1.500 metri quadrati e non può essere rilasciata l’autorizzazione commerciale in presenza di una variante approvata in violazione del presente divieto.

 Art. 21 - Requisiti urbanistici ed edilizi

1. Le medie strutture con superficie di vendita non superiore a 1.500 metri quadrati possono essere insediate in tutto il territorio comunale, purché non in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico comunale.

2. Per le medie strutture con superficie di vendita superiore a 1.500 metri quadrati e per le grandi strutture di vendita lo strumento urbanistico comunale localizza le aree idonee al loro insediamento sulla base delle previsioni del regolamento regionale di cui all’articolo 4.

3. In attesa dell’approvazione del regolamento regionale di cui all’articolo 4 e dell’adeguamento dello strumento urbanistico comunale alle previsioni del medesimo regolamento, il rilascio dell’autorizzazione commerciale per le medie strutture con superficie di vendita superiore a 1.500 metri quadrati è subordinato alla verifica da parte del comune dei seguenti criteri:

a) che l’area sia collocata all’interno del centro urbano;

b) per le aree al di fuori del centro urbano, a condizione che si tratti di un intervento di recupero e riqualificazione di aree o strutture dismesse o degradate.

4. In attesa dell’adeguamento dello strumento urbanistico comunale alle previsioni del regolamento regionale di cui all’articolo 4, il rilascio dell’autorizzazione commerciale per le grandi strutture di vendita è subordinato alla verifica, da parte della conferenza di servizi di cui all’articolo 19, comma 5, della compatibilità, con le previsioni contenute nel regolamento regionale, delle aree già classificate idonee per l’insediamento di grandi strutture di vendita o parchi commerciali dallo strumento urbanistico vigente alla data di entrata in vigore della presente legge.

5. In deroga a quanto previsto dal comma 2, le medie e grandi strutture di vendita possono essere insediate nei centri storici, nel rispetto dei vincoli previsti della vigente normativa, anche attraverso interventi di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale.

6. Ai fini dell’insediamento degli esercizi commerciali, le dotazioni di parcheggi pubblici o privati ad uso pubblico, anche in deroga alle previsioni di cui alla legge regionale 23 aprile 2004 n. 11:

a) per le medie e grandi strutture di vendita situate nei centri storici sono definite da apposita convenzione con il comune, anche con riferimento agli accessi ed ai percorsi veicolari e pedonali;

b) per le medie strutture di vendita fuori dai centri storici e per gli esercizi di vicinato sono definite dallo strumento urbanistico comunale;

c) per le grandi strutture di vendita fuori dai centri storici sono definite dallo strumento urbanistico comunale sulla base di quanto previsto dal regolamento regionale di cui all’articolo 4, tenuto conto altresì dei diversi settori merceologici e della tipologia dei prodotti posti in vendita.

 Titolo IV

Interventi di rilevanza regionale

Art. 26 - Disciplina delle strutture di vendita a rilevanza regionale

 1.Sono considerati di rilevanza regionale i seguenti interventi:

a)apertura di grandi strutture con superficie di vendita superiore a 15.000 metri quadrati in area classificata idonea all’insediamento di grandi strutture di vendita dallo strumento urbanistico comunale;

b)ampliamento, in misura superiore al 30% della superficie autorizzata, delle grandi strutture con superficie di vendita superiore a 15.000 metri quadrati o ampliamento che comporti il superamento della predetta soglia, in area classificata idonea all’insediamento di grandi strutture di vendita dallo strumento urbanistico comunale;

c)apertura di grandi strutture con superficie di vendita superiore a 8.000 metri quadrati qualora l’apertura richieda apposita variante urbanistica di localizzazione;

d)ampliamento, in misura superiore al 30% della superficie autorizzata, delle grandi strutture con superficie di vendita superiore a 8.000 metri quadrati o ampliamento che comporti il superamento della predetta soglia, qualora l’ampliamento richieda apposita variante urbanistica di localizzazione;

e)apertura di grandi strutture di vendita in aree ricadenti negli ambiti territoriali di rilevanza regionale, come definiti dal regolamento regionale di cui all’articolo 4, qualora l’apertura richieda apposita variante urbanistica di localizzazione.

2.Gli interventi di cui al comma 1 sono soggetti ad un accordo di programma promosso dalla Regione ai sensi dell’articolo 34 del d.lgs. n. 267 del 2000, anche in variante urbanistica e ai piani territoriali e d’area, nel rispetto di quanto previsto dal regolamento regionale di cui all’articolo 4.

3. Al fine di addivenire alla conclusione dell’accordo di programma la Regione indice una conferenza di servizi alla quale partecipano necessariamente il comune competente per territorio, la provincia e le altre amministrazioni pubbliche interessate dall’intervento. La conferenza delibera a maggioranza di comune, provincia e Regione, con il parere favorevole del comune competente per territorio e della Regione. Per gli interventi di cui al comma 1, lettere a) e b) il parere della Regione è reso per il tramite della struttura regionale competente in materia di commercio, sentita la struttura regionale competente in materia di urbanistica e paesaggio. Per gli interventi di cui al comma 1, lettere c), d) ed e) il parere della Regione è reso per il tramite della struttura regionale competente in materia di urbanistica e paesaggio, acquisito il parere obbligatorio e vincolante della struttura regionale competente in materia di commercio.

4. L’accordo di programma può contenere forme di perequazione urbanistica ai sensi dell’articolo 35 della legge regionale 23 aprile 2004, n.11 specificamente destinate alla riqualificazione del centro urbano.

5. L'accordo è approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale e sostituisce ad ogni effetto le intese, i pareri, le autorizzazioni, le approvazioni, i nulla osta previsti da leggi regionali. Esso comporta, per quanto occorra, la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, nonché l'urgenza e l'indifferibilità dei relativi lavori. L’accordo sostituisce l’autorizzazione commerciale qualora la documentazione presentata sia sufficientemente completa in relazione all’intervento da eseguire. In caso contrario l’autorizzazione commerciale è rilasciata secondo la procedura ordinaria di cui all’articolo 19, comma 5.

6. Gli accordi di programma aventi ad oggetto esclusivamente o in misura prevalente gli interventi commerciali di cui al comma 1 sono disciplinati dal presente articolo.

7. La Giunta regionale, entro centoventi giorni dall’entrata in vigore della presente legge, detta le disposizioni attuative del presente articolo, prevedendo, in particolare, un termine per la conclusione del procedimento non superiore a centottanta giorni.

8. In sede di prima applicazione della presente legge, in attesa dell’approvazione del regolamento regionale di cui all’articolo 4 e del provvedimento di cui al comma 7, le disposizioni del presente articolo si applicano agli interventi di cui al comma 1 per le grandi strutture di vendita con superficie superiore a 8.000 metri quadrati, anche in variante urbanistica.

Il testo integrale della proposta è recuperabile al seguente link:

Ddl 21 28,63 kB   03 October 2012
Ddl 21 All A 124,48 kB   03 October 2012
Ddl 21 All B 131,77 kB   03 October 2012

Nel caso di intervento edilizio sulle parti comuni occorre il consenso dei condomini (che sono anche controinteressati)

04 Ott 2012
4 Ottobre 2012

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5128 del 2012 si occupa degli interventi edilizi in un condominio.

Nel caso in esame il Comune aveva respintola domanda di concessione edilizia presentata il 28 marzo 2006 (in reiterazione di precedente analoga istanza del 31 maggio 2005, respinta con motivazione sostanzialmente eguale), facendo proprio il parere negativo della commissione edilizia, basato sui rilievi della mancanza del consenso scritto del condominio (sul presupposto della natura di parte comune del tetto interessato dall’opera e dell’utilizzo di una parte della cubatura urbanistica residua dell’edificio condominiale).

Il T.r.g.a. accoglieva l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Amministrazione resistente sotto il profilo della mancata notificazione del ricorso introduttivo ad almeno uno dei condomini, da ritenersi controinteressati in senso formale e sostanziale per gli effetti di cui all’art. 21, comma 1, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (nel testo applicabile ratione temporis alla fase introduttiva del giudizio di primo grado).

Il Consiglio di Stato conferma il TAR, scrivendo che: "Secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, condiviso da questo Collegio, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6332; C.d.S., Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1654).
Segnatamente, deve affermarsi l’obbligo del comune di verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. 70 l. prov. 11 agosto 1997, n. 13, la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo (la citata disposizione normativa, emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà legislativa primaria in materia di urbanistica, corrisponde sostanzialmente alla previsione contenuta nell’art. 11 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).
Nel caso di specie, l’opera in contestazione era destinata a incidere sulla parte comune costituita dal tetto dell’edificio condominiale (non solo in senso materiale ma, eventualmente, anche sotto il profilo del decoro architettonico). L’opera, contrariamente a quanto assunto dall’odierno appellante, deve qualificarsi come innovazione voluttuaria – e non necessaria – per rendere più comodo il godimento dell’immobile. La medesima, al contempo, deve ritenersi idonea ad imprimere alla cosa comune una destinazione anche ad uso esclusivo del suo appartamento.
L’Amministrazione comunale, a fronte dell’evidente incidenza su una parte comune dell’edificio condominiale, nonché paventando prudenzialmente l’eventualità dell’utilizzo di parte della volumetria residua dell’edificio condominiale, in esplicazione del menzionato potere/dovere di verifica del titolo di legittimazione ha consequenzialmente, e del tutto ragionevolmente, richiesto il consenso del condominio.
Orbene, tenuto conto dell’espressa contemplazione, nell’impugnato provvedimento di diniego, dell’esigenza di acquisire il consenso condominiale, vi risulta formalmente indicato l’ente di gestione che sarebbe stato leso nel caso di rilascio del permesso (il condominio, e per esso rispettivamente i condomini, agevolmente individuabili dall’appellante), la cui posizione è connotata dalla titolarità di un interesse giuridicamente qualificato (nella specie, del diritto di proprietà su parti comuni – tetto condominiale – dell’edificio interessato dai lavori), implicitamente contemplato dall’atto impugnato, a mantener fermi gli effetti scaturenti dal provvedimento di diniego.
I citati soggetti, quindi, nell’appellata sentenza sono stati correttamente qualificati come controinteressati in senso formale e sostanziale e ad almeno uno di essi pertanto andava notificato a pena di inammissibilità il ricorso originario a mente dell’art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971 (v., in fattispecie analoga, C.d.S., Sez. VI, 29 maggio 2007, n. 2742)".

sentenza CDS 5128 del 2012

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