Il CDS definisce la “sagoma” di un edificio

26 Mar 2013
26 Marzo 2013

Citiamo un passaggio della sentenza del Consiglio di Stato n. 1564 del 2013: "La definizione della “sagoma” di un edificio accolta dal primo giudice, quale “conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, è quella consolidata in giurisprudenza, anche penale (cfr. Cass., III: 9 ottobre 2008, n. 38408; 6 febbraio 2001, n. 9427), e da ultimo ripresa dalla Corte costituzionale (sentenza 23 novembre 2011, n. 309)".

sentenza CDS 1564 del 2013

Il ricorso per motivi aggiunti ammette le censure per relationem

26 Mar 2013
26 Marzo 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 14 marzo 2013 n. 377, si occupa della c.d. autosufficienza del processo amministrativo: la parte resistente deduce la “violazione “del principio dell’autosufficienza del processo amministrativo (ricavabile dall’art. 6, n. 3 del r.d. n. 642 del 1907 e, ora, dall’art. 40, comma 1 lettera c) del decreto legislativo n. 104 del 2010)”, essendosi limitato l’atto d’impugnazione per motivi aggiunti a richiamare e confermare, in via derivata e per relationem, le censure formulate con il ricorso principale”.

Tale censura permette al T.A.R. Veneto di soffermarsi sulla natura del ricorso per motivi aggiunti chiarendo che: “ai fini dell’ammissibilità dell’atto di proposizione di nuovi motivi di gravame, è necessario verificare se vi sia connessione tra l’atto successivamente impugnato e l’oggetto del ricorso originario (cfr., TAR Campania, Napoli, sez. VI, 2.01.2013, n. 16).

Nel caso di specie non vi è dubbio che il provvedimento gravato con i motivi aggiunti sia connesso con gli atti impugnati con il ricorso introduttivo, trattandosi di una deliberazione con cui l’intimata Amministrazione ha parzialmente modificato, sempre in senso non satisfattivo per il ricorrente, la precedente graduatoria di merito.

Né sussiste la lamentata censura di genericità, atteso che nella fattispecie in esame i motivi aggiunti contengono censure d’illegittimità derivata, suscettibili, come tali, di essere articolate per relationem al ricorso originario (Cons. St., sez. VI, 19.01.2010, n. 178)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 377 del 2013

Il diritto d’accesso ai documenti amministrativi dal punto di vista processuale e sostanziale

25 Mar 2013
25 Marzo 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza del 18 marzo 2013, n. 390 si occupa del rito in materia di accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dall’art. 116 c.p.a. secondo cui: “1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad almeno un controinteressato. Si applica l'articolo 49. Il termine per la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti è di trenta giorni.

2. In pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all'amministrazione e agli eventuali controinteressati. L'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio.

3. L'amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente a ciò autorizzato.

4. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità.

5. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai giudizi di impugnazione”.

 Chiarito che: “il giudizio in materia di accesso è strutturato come un giudizio di accertamento, nel quale il giudice è chiamato in via diretta a verificare la fondatezza della pretesa prescindendo dal contenuto del diniego, il che impone al giudicante di verificare direttamente se sussistano o meno i presupposti di legge per ordinare l’esibizione degli atti richiesti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 14 settembre 2010 n. 6696)”, il Collegio precisa che: “il legislatore ha innestato tale giudizio nell’ambito di un rito di tipo prettamente impugnatorio, come si evince dalla previsione di un termine di decadenza di trenta giorni dalla conoscenza della determinazione da impugnare (cfr. art. 116, comma 1. cod. proc. amm., e l’art. 25, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241) e ciò giustifica che, a fronte di un diniego espresso, il ricorrente abbia interesse ad ottenere, mediante l’annullamento del diniego, l’accertamento dell’infondatezza delle motivazioni addotte espressamente dall’Amministrazione, funzionalmente finalizzato all’accertamento della fondatezza della pretesa”.

 Nella medesima sentenza, premesso che “la qualifica di controinteressato non spetta a chiunque sia, a qualsiasi titolo, nominato o comunque coinvolto nei documenti oggetto dell'istanza, ma solo a coloro che, per effetto del suo accoglimento, vedrebbero pregiudicato il proprio diritto alla riservatezza”, il Collegio ritiene che “deve considerarsi frutto di una lettura distorta delle norme sull’accesso un diniego formulato con riferimento alla circostanza che il controinteressato ha manifestato la propria opposizione, come se la definizione della possibilità di accedere agli atti fosse rimessa alla sua disponibilità, quando ormai è un principio pacifico che il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 22, legge 7 agosto 1990, n. 241, trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione e, essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità, può essere escluso soltanto nei casi previsti dalla legge.

L’amministrazione pertanto non può sottrarsi dall’accertare essa stessa, direttamente, se vi sia o meno in capo a tale soggetto la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento, dato che in materia di accesso la veste di controinteressato è una proiezione del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto (cfr. Tar Trentino Alto Adige, Bolzano, sez. I, 8 febbraio 2012, n. 47; Consiglio di Stato, Sez. V, 27 maggio 2011, n. 3190)”.

 Infine, fermo restando che le disposizioni in materia di accesso ai documenti amministrativi non si applicano agli atti riguardanti i procedimenti tributari, ex artt. 13, c. 2 e 24, c. 1, lett. b), l. 241/1990, il T.A.R. Veneto precisa che tale esclusione concerne solamente gli atti tributari preparatori e/o endoprocedimentali, in quanto: “La previsione normativa di esclusione dall'accesso riguarda infatti gli atti preparatori del provvedimento finale, inerenti al potere di verifica fiscale che è strumentale all'accertamento tributario, con la conseguenza che il diritto di accesso deve essere riconosciuto qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR n. 390 del 2013

Norme di semplificazione in materia di igiene, medicina del lavoro, sanità pubblica e altre disposizioni per il settore sanitario

25 Mar 2013
25 Marzo 2013

Sul Bur n. 27 del 22/03/2013 è stata pubblicata la legge regionale del Veneto n. 2 del 19 marzo 2013, recante "Norme di semplificazione in materia di igiene, medicina del lavoro, sanità pubblica e altre disposizioni per il settore sanitario".

Legge regionae Veneto 2 del 2013

Il vincolo cimiteriale comporta inedificabilità assoluta?

22 Mar 2013
22 Marzo 2013

Nella sentenza del T.A.R. Veneto n. 1352/2012, pubblicata il 12 novembre 2012, si evidenziava che il vincolo cimiteriale determina l’inedificabilità assoluta.

 Seppure la giurisprudenza maggioritaria confermi ciò, parte minoritaria ritine che la sussistenza di un vincolo cimiteriale non ostata ex se all’accoglimento della domanda di sanatoria: “Ritiene il Collegio tuttavia di aderire all’opposto orientamento giurisprudenziale, di recente confermato, secondo cui “In sede di condono di opere insistenti su fascia di rispetto cimiteriale l’Amministrazione è tenuta a valutare se ed in quale misura l’opera in questione venga effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le opere da sanare possano aggravare il peso insediativo dell’area con la realizzazione di volumi edilizi tali da considerarsi nuove costruzioni” (cfr. T.A.R. Genova Liguria sez. I, 20 giugno 2008, n. 1388). Tale lettura interpretativa si fonda, esattamente, sulle finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo cimiteriale, che sono sostanzialmente tre: garantire la futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri (cfr. T.A.R. Liguria, 1^, 25 marzo 2004 n. 290; id., 9 luglio 1998 n. 373; id., 6 novembre 1995 n. 320; da ultimo Cons. Stato, V, 3 maggio 2007 n. 1933). Risultano quindi fondate le deduzioni di parte, con le quali si lamenta che l’Amministrazione si è limitata a rilevare la presenza del vincolo cimiteriale senza indulgere ad alcuna ulteriore considerazione attinente ai suddetti profili, tenuto anche conto di quanto denunciato dal ricorrente, senza contestazioni di controparte, a proposito della presenza sull’area interessata dalla fascia di rispetto cimiteriale di numerosi altri manufatti” (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 06.03.2013, n. 128).

Anche il T.A.R. Veneto, nella sentenza n. 417/2013 commentata nel post del 21 marzo 2013, considera “relativa” e non “assoluta” tale inedificabilità: “6. Quanto alla asserita violazione della fascia di rispetto cimiteriale di 200 metri, il Collegio evidenzia che, come condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza maggioritaria, la fascia di rispetto in questione risponde, da un lato, all'esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare decoro ai luoghi di sepoltura.

6.1. Il suddetto vincolo riguarda, pertanto, quelle costruzioni incompatibili con la funzione cimiteriale, in quanto destinate ad ospitare stabilmente l’uomo, quali: le abitazioni, gli alberghi, gli ospedali, le scuole. Tale vincolo non è quindi suscettibile di un’applicazione estensiva nei confronti della realizzazione di altri manufatti privi invece di tale funzione come nel caso, che qui interessa, delle strade e dei parcheggi.

6.2. Questa interpretazione è del resto avvalorata anche dal dato letterale della disposizione che vieta specificamente la realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione di una qualsiasi opera (cfr. in termini TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.09.2011 n. 2295)”.

TAR Friuli-Venezia Giulia n. 128 del 2013

I rapporti tra la variante urbanistica ed il PI

21 Mar 2013
21 Marzo 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 19 marzo 2013 n. 417, si occupa dei rapporti tra gli strumenti urbanistici: il ricorrente contesta la legittimità della procedura di adozione della variante urbanistica per la realizzazione dell’anello circonvallatorio a Nord della città di Verona, in quanto adottata tramite una modifica al P.R.G., a sua volta divenuto inefficace in seguito all’adozione del PAT. In particolare, “secondo i ricorrenti, la declaratoria di illegittimità della variante de qua vizierebbe, caducandolo, il Piano degli Interventi adottato nelle more del giudizio in quanto si tratterebbe di un atto meramente confermativo della variante medesima e privo di una propria natura autonoma”.

 Chiarito che: “successivamente alla proposizione dell’odierno gravame, il Comune di Verona ha adottato e approvato il Piano degli interventi, che completa lo strumento urbanistico comunale in attuazione delle previsioni del piano di assetto del territorio (PAT) con deliberazione del Consiglio comunale n. 91 del 23.12.2011, divenuta efficace il 13.3.2012”, il Collegio ritiene che: “2.4. L’esame del rapporto fra gli strumenti urbanistici in questione non consente di assegnare al Piano degli Interventi, in ragione del recepimento medesimo, natura meramente confermativa della variante urbanistica n. 305, dovendosi pertanto escludere un eventuale effetto caducante dell’annullamento di quest’ultima nei confronti del Piano medesimo.

2.5. Ed invero, deve rilevarsi sul punto che nell’ambito del fenomeno generale dell’invalidità derivata, va distinta la figura dell’ “invalidità caducante” da quella dell’invalidità “ad effetto viziante”, potendosi realizzare la prima solo quando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali, esecutivi e meramente confermativi, sicché il suo venir meno travolgerebbe automaticamente – e cioè senza che occorra un’ulteriore specifica impugnativa – tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto.

2.6. Si ha invece un’invalidità ad effetto solo viziante in tutte le diverse ipotesi nelle quali si è in presenza di provvedimenti presupponenti solo genericamente o indirettamente connessi a quello presupposto, di guisa che, proprio per la rilevata assenza di uno specifico legame di dipendenza e/o di presupposizione, tali atti successivi non rimangono travolti ipso iure dall’invalidità dell’atto presupposto, occorrendo per la loro eliminazione una esplicita pronuncia giurisdizionale di annullamento (a seguito, ovviamente, o della loro contestuale impugnazione con lo stesso ricorso principale o della loro successiva impugnazione con i motivi aggiunti o con autonomo ricorso).

2.7. Orbene, l’annullamento in sede giurisdizionale dell’atto di approvazione della variante n. 305 non produrrebbe certamente effetti “caducanti” nei confronti del PI, atteso che quest’ultimo atto, ancorché collegato al precedente, è senz’altro frutto di una nuova valutazione di interessi avente carattere innovativo”.

 Di conseguenza: nel caso di specie, sussisteva senz’altro l’onere di impugnare il successivo atto di pianificazione urbanistica, ancorché fosse già impugnato quello oggetto di recepimento, in quanto i due provvedimenti non risultano legati da un rapporto di presupposizione o consequenzialità diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente”.

 Con specifico riferimento ai rapporti tra la variante de qua ed il PI, il T.A.R. Veneto altresì aggiunge che i vizi contestati con riguardo alla variante urbanistica non si producono -in via derivata - anche sul PI, atteso che: “4.2. Deve, al riguardo, rilevarsi che i due strumenti urbanistici, oltre a non essere fra loro collegati da un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica, non risultano avvinti da un nesso procedimentale né diretto né indiretto, poiché il PI è normativamente legato, quale suo completamento, al Piano di Assetto Territoriale.

4.3. A ciò deve aggiungersi che il recepimento della variante n. 305 ad opera del PI, per quanto in esso non espressamente previsto, non è idoneo a trasferire su quest’ultimo i vizi eventualmente sussistenti nella originaria procedura di adozione della variante medesima: detto recepimento opera infatti un rinvio recettizio al “contenuto” dell’atto richiamato e non già un rinvio alla “fonte” normativa utilizzata per l’adozione di esso.

4.4. Alla stregua di tali considerazioni deve quindi ritenersi che l’adozione del Piano degli Interventi rende in ogni caso improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso introduttivo relativamente a tutte le censure svolte nei confronti della specifica procedura di adozione della variante in esso recepita, poiché attinenti alla “fonte” di essa, allo stato non più rilevante in quanto totalmente sostituita dall’esercizio del nuovo potere pianificatorio”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 417 del 2013

Nel ricorso amministrativo vi è l’obbligo di indicare i motivi di diritto in modo specifico

21 Mar 2013
21 Marzo 2013

L’art. 40, c.p.a., come modificato dall’art. 1, c. 1, lett. f), D. Lgs. 160/2012 recita: “1. Il ricorso deve contenere distintamente:

a) gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto;

b) l'indicazione dell'oggetto della domanda, ivi compreso l'atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza;

c) l'esposizione sommaria dei fatti;

d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso;

e) l'indicazione dei mezzi di prova;

f) l'indicazione dei provvedimenti chiesti al giudice;

g) la sottoscrizione del ricorrente, se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione, in questo caso, della procura speciale.

2. I motivi proposti in violazione del comma 1, lettera d), sono inammissibili”.

Recentemente il T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, con la sentenza del 14 dicembre 2012 n. 1213, ha affermato che: “giova ricordare che nel ricorso presentato al giudice amministrativo i motivi di gravame, pur se non rubricati in modo puntuale né espressi con formulazione giuridica assolutamente rigorosa, devono essere però esposti con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a supporto della domanda finale (per tutte Consiglio di Stato, sez. VI, 9 luglio 2012, n. 4006), oltre che per rispondere ad esigenze di certezza e garanzia, così come espressamente chiarito e prescritto dal vigente articolo 40 del D.Lgs 2 luglio 2010, n. 104 (recante il codice del processo amministrativo), formulato sulla base della normativa (art. 6 n. 3, R.D. 17 agosto 1907 n. 642, applicabile ai ricorsi dinanzi ai Tar per effetto dell’art. 19 comma 1, legge 6 dicembre 1971 n. 1034) e dell’esperienza giurisdizionale pregresse, nel quale si richiede l’esposizione “dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso”;

conseguentemente, deve ritenersi inammissibile il ricorso che, in violazione del citato art. 40 CPA, non contenga l’esposizione dei “motivi specifici” su cui il ricorso medesimo trova giustificazione e fondamento (TAR Toscana, sez. III, 11 novembre 2011, n. 1675);

giova, altresì, rilevare che, il citato art. 40 CPA è stato modificato dall’art. 1, comma 1, lett. f) del D. Lgs. 14 settembre 2012, n. 160 (c.d. secondo correttivo), applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, in forza del quale il ricorso deve contenere “distintamente” i motivi “specifici” su cui si fonda;

è stato osservato, in particolare, che la novella, pur senza modificare il contenuto del ricorso rispetto alla disciplina precedente, ha chiarito ulteriormente che i motivi sui quali esso si fonda devono essere “specifici” e che eventuali motivi proposti in violazione di detta regola sono inammissibili;

detta inammissibilità consegue non solo al difetto di specificità dei motivi, ma altresì all’ipotesi in cui la loro indicazione non avvenga “distintamente”;

pertanto, i motivi devono essere contenuti nell’apposita parte del ricorso ad essi dedicata, e devono essere specifici, a pena di inammissibilità;

lo scopo della disposizione è di incentivare la redazione di ricorsi “chiari”, a fronte di una prassi in cui i ricorsi non contengono una esatta suddivisione tra fatto e motivi, con conseguente frequente rischio dei c.d. “motivi intrusi”, ossia inseriti in parti del ricorso dedicate al fatto (Consiglio di Stato, sez. VI, 24 giugno 2010 n. 4016);

a tale proposito, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che se il ricorso amministrativo viene diviso in "fatto" e "diritto", i motivi di censura devono essere contenuti nella parte in diritto, e sono per l’effetto inammissibili i motivi intrusi, contenuti cioè nella parte in fatto, principio questo codificato dal ricordato secondo correttivo del codice del processo amministrativo, in sede di novella dell’art. 40 (Consiglio di Stato sez. VI, 25 ottobre 2012, n. 5469);

passando al caso in esame e facendo applicazione degli esposti principi, si deve rilevare che parte ricorrente omette di formulare i motivi di ricorso nei termini sopra precisati, cioè in termini “specifici”, limitandosi ad esporre una sorta di “forte protesta” per la condotta tenuta dalla Capitaneria di Porto di Crotone, la quale, peraltro, ha assunto il provvedimento contestato con innegabile ritardo;

in particolare, nella parte dedicata al “diritto”, la ditta ricorrente si duole genericamente di come la Capitaneria di Porto non abbia osservato alcun articolo o precetto delle leggi n. 241/1990 e n.15/2005, ma detta doglianza risulta espressa in modo del tutto generico ed inidoneo a chiarire, precisare e specificare i vizi effettivamente denunciati e che inficerebbero il provvedimento di diniego impugnato;

altrettanto è a dirsi per la parte del ricorso che –per quanto non espressamente indicato –dovrebbe riguardare il “fatto” della questione, nella quale la ricorrente ripercorre la tortuosa vicenda in discussione, senza peraltro specificare in maniera puntuale i vizi del provvedimento contestato, con la conseguenza che detti argomenti risultano inammissibili non solo in quanto “motivi intrusi” nel senso sopra chiarito, ma anche e soprattutto, in quanto espressi in maniera del tutto generica ed approssimativa, difettando, quindi, del requisito della “specificità”;

oltre tutto, dalle conclusione formulate in ricorso non emerge nemmeno con chiarezza se parte ricorrente ha inteso chiedere l’annullamento, previa sospensione cautelare, del provvedimento impugnato, ovvero abbia inteso agire con il rito speciale del silenzio ex artt. 31 e 117 CPA;

in definitiva, per tutte le esposte ragioni, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile”.

L’obbligo di motivare, a pena di inammissibilità, i motivi di diritto in modo chiaro, specifico e separato è confermato anche dall’articolo di Gaetano Ciccia “Processo amministrativo, la p.a. non avrà più vie di fuga”, pubblicato su Italia Oggi il 24.09.2012.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Catanzaro n. 1213 del 2012

Il divieto di accedere a manifestazioni sportive riguarda anche il c.d. pericolo della lesione dell’ordine pubblico

21 Mar 2013
21 Marzo 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza del 18 marzo 2013 n. 388, si occupa del divieto di accedere a luoghi ove si tengono le manifestazioni sportive disciplinato dall’art. 6, l. 13.12.1989 n. 401, - il cui comma 1 recita: “1. Nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all'articolo 4, primo e  secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, all'articolo 6-bis, commi 1 e 2, e all'articolo 6-ter, della presente legge, ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto di accesso ai  luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché' a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime. Il divieto di cui al presente comma può  essere  disposto anche per le manifestazioni sportive che si  svolgono  all'estero, specificamente indicate, ovvero dalle competenti Autorità degli altri Stati membri dell'Unione europea per le manifestazioni sportive che si svolgono in Italia. Il divieto di cui al presente comma può essere, altresì, disposto nei confronti di chi, sulla base di elementi oggettivi, risulta avere tenuto una condotta  finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse”, - stabilendo che: “Come è noto l’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, ha previsto l’esercizio di un potere interdittivo esercitabile nei confronti di chiunque, in occasione o a causa di manifestazioni sportive, tenga una condotta comunque tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica, sicché la misura di divieto di accesso a impianti sportivi può essere disposta non solo nel caso di accertata lesione, ma anche in caso di pericolo di lesione dell'ordine pubblico, come nel caso di semplici condotte che comportano o agevolano situazioni di allarme e di pericolo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 dicembre 2010, n. 9074).

Infatti dopo le modifiche apportate dal sopra menzionato art. 2 del decreto legge 8 febbraio 2007, n. 8, il divieto può essere legittimamente disposto anche nei confronti di chi, sulla base di elementi oggettivi, risulti aver tenuto una condotta tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni sportive (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 23 ottobre 2012, n. 1282; Tar Trentino Alto Adige, Bolzano, 1 settembre 2008, n. 309; per parte della giurisprudenza il requisito della rilevanza penale del fatto e della previa denuncia non erano necessari neppure prima della novella legislativa: cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 giugno 2006, n. 3532; Tar Toscana, Sez. I, 20 marzo 2008, n. 419; Tar Umbria, 10 novembre 2006, n. 552), e ciò anche in assenza di una denuncia per un reato”.

dott. Matteo Acquasaliente

 TAR n. 388 del 2013

L’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione per le opere pubbliche o di interesse generale, realizzate dagli enti istituzionalmente competenti, ai sensi dell’art. 17 n. 3 lett. C del D.P.R. n. 380/2001

20 Mar 2013
20 Marzo 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 296 del 2013: "viene in discussione la tematica dell’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione per le opere pubbliche o di interesse generale, realizzate dagli enti istituzionalmente competenti, ai sensi dell’art. 17 n. 3 lett. C del D.P.R. n. 380/2001. Lo sgravio contributivo in esame esige il concorso di due presupposti, e cioè, uno oggettivo, ovvero l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l’altro soggettivo, ovvero l’esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico, purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio (Cons. Stato n. 2226/2005).
Il fine dell’applicazione della norma, fondata dunque sul presupposto oggettivo della natura delle opere e su quello soggettivo della qualità dell’ente realizzatore, è chiaramente quello di assicurare una ricaduta del beneficio dello sgravio a vantaggio della collettività, nel senso che la gratuità della concessione si traduce in un abbattimento dei costi, a cui corrisponde, in definitiva, un minore aggravio di oneri per il contribuente. Va poi evidenziato che la disposizione sopra riportata deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce ipotesi di deroga alla regola generale (art. 16 del D.P.R. n. 380/2001) che assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio, in relazione agli oneri che la collettività, in dipendenza di esse, è chiamata a sopportare. Le opere per cui può ipotizzarsi lo sgravio dagli oneri concessorii devono, dunque, rivelare innanzitutto un carattere direttamente satisfattivo dell’interesse della collettività, di per sè stesse – poiché destinate ad uso pubblico o collettivo – o in quanto strumentali rispetto ad opere del genere anzidetto, o comunque perché immediatamente collegate con le funzioni di pubblico servizio espletate dall’ente realizzatore. Il beneficio della gratuità della concessione richiede poi che l'opera avente le suddette caratteristiche sia realizzata da un soggetto istituzionalmente competente, sia cioè realizzata dall'ente per il perseguimento dei suoi fini istituzionali, e cioè per la cura di quegli interessi a lui affidati e che ne rappresentano la ragion d'essere. Ciò premesso, nel caso di specie, entrambi i requisiti di ordine soggettivo e oggettivo non appaiono sufficientemente integrati. Quanto al requisito di ordine soggettivo, si è detto che il legislatore richiede che le opere – ammesse allo sgravio contributivo - siano realizzate dagli enti istituzionalmente competenti, con la conseguente necessità che sussista un ben preciso vincolo relazionale tra il soggetto abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale esecutore della costruzione: la giurisprudenza prevalente ha identificato tale vincolo nella concessione di costruzione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie. Deve cioè trattarsi di attività compiuta da un concessionario, o più in generale da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di attività d'interesse generale. Ebbene, nel caso in esame, i permessi di costruire in questione sono stati rilasciati, in attuazione del piano integrato di riqualificazione urbanistica edilizia ed ambientale (P.I.R.U.E.A.), per la realizzazione, a totale cura e spese della Fondazione Cassamarca, in area di sua proprietà, della c.d. “cittadella delle istituzioni”, ovvero di un complesso edilizio composto da edifici di varia destinazione, fra cui, per quanto interessa il presente ricorso, da edifici da destinare ad “uffici di enti p ubblici anche economici, uffici di aziende speciali per la gestione dei servizi pubblici locali, uffici di società di capitali costituite o partecipate da enti pubblici”.
Ora, innanzitutto, la Fondazione Cassamarca, in quanto fondazione, è un soggetto dotato di personalità giuridica di diritto privato, che secondo il vigente ordinamento, sebbene privo di scopo di lucro, non è preposto alla realizzazione di opere pubbliche, persegue interessi non pubblici ma privatistici, e non agisce per conto di alcun ente pubblico, difettando qualsiasi collegamento organizzativo-funzionale o giuridicamente rilevante con l’apparato della Pubblica Amministrazione.  In proposito il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3774/2005, ha stabilito che le fondazioni, per tali ragioni, di regola, non possono beneficiare dell’esonero dal contributo di costruzione a norma dell’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001. In particolare, poi, la Fondazione Cassamarca persegue, in base al suo statuto, “scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico preminentemente nei settori della ricerca scientifica, dell’istruzione, dell’arte, della sanità, della conservazione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, delle attività culturali..dell’immigrazione”. Considerata la natura degli scopi perseguiti, appare difficile farvi rientrare la realizzazione di opere pubbliche, ed è ancor più arduo cogliere un nesso con la realizzazione di edifici da destinare a sedi di pubbliche amministrazioni. Per cui non risulta che la Fondazione Cassamarca possa vantare una “competenza istituzionale” specifica con riferimento alla realizzazione di opere pubbliche o di opere edilizie del tipo di quelle realizzate nel caso di specie.
Inoltre, tra il Comune di Treviso e la Fondazione Cassamarca non è configurabile l’esistenza di un rapporto neppure latamente assimilabile ad una concessione o ad un appalto di opera pubblica, in quanto, come condivisibilmente osservato dalla difesa dell’amministrazione, la Fondazione non ha ricevuto un previo incarico da parte di un ente pubblico per realizzare per suo conto una nuova sede istituzionale, avendo invece, prima realizzato una determinata volumetria con  destinazione “direzionale pubblico”, in attuazione di un progetto di P.I.R.U.E.A. adottato su sua proposta, e poi ricercato gli occupanti (nel caso di specie, Prefettura, Questura, Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate, Polizia di Stato, etc.) ai quali sono stati concessi in locazione i locali. Infine, si osserva che l’applicazione dell’esenzione dal contributo di costruzione al caso in esame, non sarebbe coerente con lo scopo dell’esenzione che, come detto, è quello di non far gravare sulla collettività il peso di tale contributo attraverso un maggior costo dell’opera pubblica. Viceversa, nel caso di specie, il costo dell’opera, compreso il contributo di costruzione, rimane interamente a carico di Appiani s.r.l. e della Fondazione Cassamarca. Non si tratta, dunque, di spese che possono ricadere sulla collettività. Deve concludersi, pertanto, che, quantomeno sotto il profilo soggettivo, non sussiste nel caso in esame il presupposto della speciale qualità dell’ente realizzatore, richiesto dalla legge per la concessione del beneficio invocato".

sentenza TAR Veneto 296 del 2013

La garanzia fideiussoria non si applica agli acquisti in economia

20 Mar 2013
20 Marzo 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 14 marzo 2013 n. 379, ritiene che l’affidamento di un servizio in economia non necessità della garanzia fideiussoria prevista dell’art. 75, c. 8, D. Lgs. 163/2006 il quale prevede che: “L'offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui all'articolo 113, qualora l'offerente risultasse affidatario”.

Il Collegio, infatti, osserva che: “nel caso in cui, come quello di specie, si tratti di un appalto sotto soglia da aggiudicarsi mediante l’espletamento di procedure di acquisizione in economia di servizi e forniture, la stazione appaltante non è obbligata a richiedere l’inclusione nelle domande di partecipazione alla gara di una garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto, atteso che l’art. 125 del codice dei contratti pubblici, recante la disciplina delle menzionate procedure in economia e per cottimo fiduciario, non contiene alcun rinvio alla garanzia di cui all’art. 75, comma 8, del d.lgs. 163/2006, la quale può trovare applicazione soltanto nel caso in cui, ma non è quello di specie, la stazione appaltante l’abbia espressamente richiamata nella lex specialis di gara”.

Nella medesima sentenza il T.A.R. si sofferma sulla possibile commistione tra i criteri soggettivi di ammissione alla gara ed i criteri di valutazione del merito tecnico: come già evidenziato nel post del 04 marzo 2013, il Collegio li ritiene ammissibili (negli appalti di servizi) atteso che: “nel caso in cui l’offerta tecnica abbia ad oggetto non un progetto o un prodotto, bensì un facere da valutare sulla base di criteri quali-quantitativi tra cui la pregressa esperienza dell’operatore e la solidità ed estensione della sua organizzazione imprenditoriale, il divieto generale di commistione tra le caratteristiche oggettive dell’offerta (criteri di selezione dell’offerta) e i requisiti soggettivi dell’impresa concorrente (criteri di selezione dell’offerente), assume una valenza attenuata, nel senso che dagli aspetti organizzativi d’impresa e dall’esperienza maturata da un concorrente ben possono trarsi indici significativi dell’affidabilità dell’incarico e della qualità delle prestazioni professionali richiesti dalla stazione appaltante (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 02.10. 2009, n. 6002 e Cons. St., sez. IV, 25.11.2008, n. 5808)”, giungendo a ritenere che: “In conclusione, posto che l’offerta tecnica oggetto dell’impugnato capitolato speciale d’appalto consiste essenzialmente in un facere, le doglianze dedotte avverso l’inserimento di parametri imprenditoriali soggettivi all’interno degli elementi oggettivi di valutazione dell’offerta tecnica, non possono trovare accoglimento”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 379 del 2013

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