Aree idonee per il fotovoltaico: in mancanza dei decreti ministeriali, le Regioni non possono disporre alcuna disciplina transitoria

11 Nov 2025
11 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che ai sensi dell’art. 20 d.lgs. 199/2021, l’esercizio del potere legislativo e regolamentare delle Regioni in materia di individuazione delle aree idonee è subordinato all’emanazione di specifici decreti ministeriali, da adottare previa acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni. Sino all’emanazione dei decreti, non v’è alcuno spazio di intervento della Regione, ma trova diretta e automatica applicazione il regime previsto dal comma 8 dell’art. 20 cit., che reca la qualificazione ex lege delle aree idonee. Pertanto, è illegittima la delibera regionale con cui si fissa una disciplina transitoria delle aree idonee e non idonee all’istallazione degli impianti fotovoltaici.

Post di Alberto Antico – avvocato

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Decadenza dagli incentivi energetici

11 Nov 2025
11 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che in materia di decadenza dagli incentivi energetici disposta dal Gestore dei servizi energetici (GSE), nei casi in cui trova applicazione la disciplina transitoria contenuta nell’art. 56, co. 8 d.l. 76/2020, come convertito nella l. 120/2020, il termine di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990 si applica solo a far data dalla sua introduzione e non dall’adozione dell’atto. Ove quello trascorso prima dell’entrata in vigore della novella, da solo o sommato a parte di quello sopravvenuto, sia di per sé già tale da superare il vaglio di «ragionevolezza», è di tutta evidenza che quest’ultimo non può risolversi in una sorta di rimessione in termini di una P.A. lungamente inerte.

In materia di decadenza dagli incentivi energetici, il richiamo ai presupposti di cui all’art. 21-nonies cit., contenuto nell’art. 42, co. 3 d.lgs. 28/2011, è comprensivo anche delle regole sulla autotutela doverosa parziale di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies cit., ma i relativi principi necessitano di un adattamento alle peculiarità del potere di decadenza. In particolare, essi finiscono per assumere una notazione di maggior rigore in ragione della centralità del principio di autoresponsabilità nella produzione di dichiarazioni e di documenti che governa l’accesso agli incentivi.

Ciò comporta la sostanziale neutralità dello scrutinio dell’elemento soggettivo (e quindi dell’eventuale buona fede del dichiarante), nonché l’inconfigurabilità del falso innocuo, non potendo il GSE farsi carico di dimostrare l’intento sotteso alla mancata prospettazione di un quadro reale, salvo rilevarne la conseguenza finale.

La decurtazione percentuale degli incentivi energetici in luogo della decadenza, prevista dall’art. 42, co. 3 cit., presuppone un giudizio aggiuntivo di rilevanza della violazione da parte del GSE e si pone come una sanzione minore rispetto alla decadenza in quanto la salvaguardia, almeno in parte, della situazione riscontrata, è ritenuta compatibile con le esigenze pubblicistiche sottese al potere di vigilanza. Esso riguarda le sole violazioni di minore entità e non quelle rilevanti ai fini dell’ottenimento dell’incentivo

L’artato frazionamento degli impianti costituisce abuso del diritto nello specifico settore dei meccanismi di incentivazione per la produzione di energia da fonti rinnovabili e costituisce una violazione rilevante ai fini della decadenza dagli incentivi energetici, in quanto l’elusione delle regole di settore al fine di conseguire vantaggi non spettanti, quale che ne sia la natura, non può assurgere a fattispecie costitutiva del diritto all’incentivazione (o del diritto a un’incentivazione superiore a quella spettante), in quanto pregiudica gli altri operatori economici che quelle regole hanno rispettato, vanifica l’imposizione di specifici requisiti di potenza per l’ammissione al beneficio e frustra, in ultima analisi, la stessa finalità perseguita attraverso la distribuzione delle risorse, scarse per definizione.

Per «artato frazionamento» deve intendersi la pratica utilizzata dal produttore di energia rinnovabile per ottenere incentivi non dovuti o maggiori rispetto a quelli effettivamente spettanti, o comunque un beneficio, mediante la divisione di un unico impianto in due o più di taglia più piccola, con ciò danneggiando non solo le casse dello Stato ma anche gli altri produttori, giusta la natura limitata delle somme destinate allo scopo.

Sul piano probatorio, ai fini della sussistenza dell’artato frazionamento di un impianto, è sufficiente che esso possa ragionevolmente e non illogicamente desumersi da fatti gravi, precisi e concordanti: nel caso di specie, la sostanziale contestualità di richieste e adempimenti, la contiguità degli impianti (tutti di analoga potenza) e delle particelle di ubicazione, poi confluite in una sola dopo essere rimaste frazionate per il tempo necessario all’inoltro delle singole istanze e l’identità del soggetto responsabile.

Post di Alberto Antico – avvocato

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Cambio d’uso nella Città antica di Venezia: la riforma Salva casa dev’essere interpretata rispettando l’unicità della Serenissima

11 Nov 2025
11 Novembre 2025

Nel caso di specie, il privato presentava al Comune di Venezia una SCIA volta al cambio di destinazione d’uso del suo immobile in Zona A, da residenziale a turistico, ai sensi dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001, nel testo vigente dopo la cd. riforma Salva casa.

Il Comune inibiva il cambio d’uso, ritenendo che i commi 1 ter-quater dell’art. 23-ter cit. facciano salve le normative di settore e le norme degli strumenti urbanistici comunali che fissino specifiche condizioni. Nello specifico, ostava al cambio d’uso il fatto che la scheda del PRG relativa all’immobile non prevedesse la destinazione turistico-ricettiva, nonché che il regolamento edilizio richiedesse un accesso separato per le attività ricettive e determinati obblighi relativi agli scarichi delle acque reflue. Non bastasse, lo strumento urbanistico prevede che l’insediamento e l’ampliamento dell’attività ricettiva alberghiera e complementare siano autorizzati con deliberazione consiliare, ove il Comune ne ravvisi il pubblico interesse.

Il TAR Veneto ha respinto il ricorso del privato.

La richiesta del privato cozzava con lo spirito informatore della novella legislativa che ha condotto alla modifica dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001 e, prima ancora, con il canone della «natura delle cose» (sic), così come inteso da un’autorevolissima dottrina che ne predica l’applicazione anche nel campo del diritto amministrativo.

Siffatto stato delle cose contribuisce a delineare quell’unicità del contesto della realtà veneziana, dove una normativa nazionale – diretta sia a semplificare sia a stimolare un andamento positivo dei valori sia di acquisto che di locazione dei beni immobili ad uso residenziale – è andata ad impattare, misurandosi con disposizioni legislative regionali ovvero regolamentari comunali che, da sempre, mirano a preservare la Città antica di Venezia favorendo, ormai da tempo, l’uso residenziale.

In ambiti di così alto pregio storico-artistico, i fattori che ostano a un’applicazione tranchant della nuova disciplina sono molteplici: la chiara vocazione della riforma Salva casa alla tutela del fabbisogno abitativo; l’esistenza di un ordito normativo stratificatosi nel tempo a presidio dello spopolamento della Città e contro lo sviluppo incontrollato di attività turistico-ricettive; l’ammissibilità di un diverso utilizzo dell’unità immobiliare, per il tramite del mutamento della destinazione d’uso, purché conforme a quello caratterizzante in modo prevalente l’immobile ove la stessa singola unità è ubicata.

Da parte sua, il legislatore regionale ha riscritto l’art. 42-bis l.r. Veneto 11/2004 stabilendo, in sostanza, l’efficacia condizionante degli strumenti urbanistici vigenti (cfr. commi 4 e 8 art. cit.).

In definitiva, tra tutte le opzioni ermeneutiche possibili relative all’art. 23-ter d.P.R. 380/2001, è da preferire, in quanto maggiormente compatibile con lo spirito della norma emendata, quella che fa salve le specifiche prescrizioni contenute nello strumento urbanistico vigente notoriamente finalizzate a salvaguardare l’«assetto territoriale della convivenza» così come disegnato nel tempo, al di là dell’uso in concreto delle singole unità immobiliari destinate alla residenzialità in senso stretto ovvero allo svolgimento di un’attività ricettiva complementare.

Post di Alberto Antico – avvocato

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La vicinitas non basta da impugnare il titolo edilizio del vicino e gli strumenti urbanistici

11 Nov 2025
11 Novembre 2025

Il TAR Veneto ha negato l’interesse ad agire in capo al ricorrente, il cui edificio dista oltre 40 metri da quello del vicino che otteneva il titolo edilizio, tenendo conto che: tra i due complessi immobiliari vi è una strada comunale asfaltata e di larga percorrenza; il fabbricato del vicino è composto da un solo piano (terra), ha un’altezza di soli 2,70 m, e si trova ad una quota inferiore alla pubblica via e a una quota ancor più bassa rispetto ai fabbricati del ricorrente; il confine della proprietà del ricorrente è protetto da una fitta siepe, esistente da decenni, alta oltre 4 metri, che costituisce una barriera visiva impenetrabile, occultando completamente, dal punto di vista della strada, gli edifici presenti sul lato opposto.

Post di Alberto Antico – avvocato

Pubblichiamo inoltre alte due recenti sentenze del TAR veneto sul tema della vicinitas.

  1. Una riguarda l'impugnazione degli strumenti urbanistici: in materia di impugnazione di strumenti urbanistici, generali e attuativi la sollecitazione del sindacato giurisdizionale è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili.
  2. In un'altra sentenza ol TAR Veneto ha riconosciuto la legittimazione e l’interesse a ricorrere avverso il titolo edilizio del vicino in capo al privato, in quanto nel caso di specie erano piuttosto evidenti gli effetti che potrebbero riverberarsi sul privato in conseguenza della realizzazione di un piazzale di logistica parzialmente a confine e comunque in prossimità dell’intero compendio immobiliare di sua proprietà (terreno e fabbricato), il quale per ciò solo potrebbe potenzialmente subire una perdita di valore.

    A seguire, il TAR ha accolto il ricorso: il permesso di costruire impugnato era illegittimo nella parte in cui assentiva la trasformazione di una “area verde” in “parcheggio-piazzale” al servizio dell’attività di logistica e trasporto del controinteressato. L’area verde rappresentava la dotazione stabilita a suo tempo dal PRG per concedere l’ampliamento di un’attività produttiva in una zona agricola che, per tale motivo, era stata qualificata zona impropria.

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I chiarimenti del Consiglio di Stato sulla nozione di ristrutturazione edilizia

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che l’evoluzione della normativa (tra cui la riscrittura a più riprese dell’art. 3, co. 1, lett. d d.P.R. 380/2001) ha portato all’individuazione di tre distinte ipotesi di ristrutturazione edilizia, che possono tutte portare «ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»: una prima ipotesi, spesso definita “ristrutturazione conservativa”, che non comporta la demolizione del preesistente fabbricato e che può apportarvi anche modifiche di significativo impatto, compresi, in linea generale, l’inserimento di nuovi volumi o la modifica della sagoma; nonché una seconda e una terza ipotesi, definite anche “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione”, caratterizzate, rispettivamente, dalla demolizione e ricostruzione di un edificio e dal ripristino di un fabbricato crollato o demolito.

In caso di demo-ricostruzione il proprietario può sfruttare il volume dell’edificio demolito, mentre nell’ipotesi di nuova costruzione può utilizzare solo la volumetria espressa dall’area di edificazione. Inoltre, la ri-costruzione è consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti (come oggi codificato nell’art. 2-bis, co. 1-ter d.P.R. 380/2001), mentre i nuovi edifici devono rispettare i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dall’art. 9 d.m. 1444/1968.

L’evoluzione dell’art. 3, co. 1, lett. d d.P.R. 380/2001 è innegabilmente caratterizzata da un progressivo allontanamento dall’obbligo originario della fedele ricostruzione, mediante l’eliminazione dei vari vincoli e la conseguente estensione della nozione di ristrutturazione edilizia.

Il requisito del “nesso di continuità” tra il fabbricato preesistente e quello risultante dall’intervento, se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’ultimo testo della lett. d cit., sul quale il legislatore è intervenuto nel 2020 con l’intenzione – ricavabile oggettivamente dalle modifiche apportate (l’espressa puntualizzazione che possono mutare «sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche») ed esplicitato nei lavori parlamentari (in particolare, nella relazione illustrativa al Senato), e nella circolare congiunta del MIT e del Ministero per la P.A. del 2 dicembre 2020 – di ricomprendere, per gli immobili non vincolati, qualsiasi intervento di demolizione e ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvo il limite della volumetria.

Tuttavia, da un’altra prospettiva, un’esegesi che sia rispettosa della lettera e della logica della disposizione non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi – di per sé sola e in assenza di specifiche previsioni di legge o degli strumenti urbanistici – una sorta di “credito volumetrico” che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della ristrutturazione edilizia, dovendo quest’ultima rispettare una serie di limiti e condizioni, che si ricavano dalla lett. d cit. e ai quali deve essere ricondotta ogni pretesa di “continuità”.

In primo luogo, l’intervento deve avere a oggetto un unico edificio, nel senso che nella fase di ricostruzione è precluso – meglio, esorbita dall’ambito della ristrutturazione ricostruttiva – l’accorpamento di volumi precedentemente espressi da manufatti diversi ovvero il frazionamento di un volume originario in più edifici di nuova realizzazione. Ciò vale anche se uno dei due edifici che si volessero accorpare fosse una pertinenza.

In secondo luogo la norma affronta due ipotesi di ristrutturazione ricostruttiva, a seconda che l’edificio di partenza esista, oppure sia crollato o demolito. Nel primo caso, si presuppone necessariamente una contestualità temporale tra la demolizione e la ricostruzione, dando luogo ad una “unitarietà” dell’intervento, nel senso, dunque, che entrambe debbono essere legittimate dal medesimo titolo. Nel secondo caso, la continuità che si perde sul piano temporale viene recuperata, dal legislatore, con la reintroduzione del limite costituito dal rispetto della preesistente consistenza del fabbricato non più esistente, cioè la necessità di rispettare, nel nuovo fabbricato, la volumetria del fabbricato crollato o demolito. La differenza tra le due ipotesi si coglie soprattutto sui presupposti per la legittimità dell’intervento: nel primo, l’edificio è ancora presente nel momento in cui il privato instaura il rapporto con la P.A., presentando l’istanza di rilascio del PdC ovvero la SCIA alternativa allo stesso, cosicché la sua consistenza può essere verificata dalla P.A., nell’istruttoria preordinata al rilascio del titolo abilitativo ovvero ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri inibitori, repressivi e conformativi di cui all’art. 19, co. 3 l. 241/1990; nel secondo, il privato deve dimostrarne la “preesistente consistenza”, onere che logicamente non può essere assolto unicamente mediante i rilievi e le asseverazioni del tecnico di fiducia – i quali devono a loro volta essere verificabili – ma deve esserlo mediante elementi oggettivi, quali gli atti di fabbrica o i titoli edilizi che hanno interessato il precedente fabbricato, ovvero le planimetrie catastali, purché da essi siano ricavabili in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire, poiché solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili. La demolizione e la ricostruzione devono essere realizzate in forza di un unico titolo legittimante (anche al fine di consentire al Comune di verificare l’esatta consistenza del fabbricato preesistente prima che ne inizi la demolizione).

In terzo e ultimo luogo, il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché la lett. d cit. stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali». Devono ritenersi escluse – meglio, conducono a qualificare l’intervento come nuova costruzione – tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di ristrutturazione ricostruttiva che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica.

Come espressamente stabilito dal comma 2 dell’art. 3 d.P.R. 380/2001, le definizioni contenute al precedente comma 1 prevalgono sugli strumenti urbanistici e sui regolamenti edilizi.

Post di Alberto Antico – avvocato

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Titolo edilizio necessario al cambio d’uso, dopo la cd. riforma Salva casa

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che, con riferimento agli interventi che comportino il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, l’art. 23-ter, co. 1-quinquies d.P.R. 380/2001 richiede la SCIA ordinaria per i cambiamenti senza opere (o con opere rientranti nell’edilizia libera ex art. 6 d.P.R. cit., ovvero soggette a CILA ai sensi del successivo art. 6-bis), mentre in caso di esecuzione di opere prevede che il titolo richiesto per la loro realizzazione legittimi anche il cambio di destinazione.

Post di Alberto Antico – avvocato

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Condizioni dell’azione nei ricorsi avverso titoli edilizi

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che il pregiudizio per il ricorrente, la cui eliminazione mediante annullamento del provvedimento che lo determina rappresenta l’utilità ricavabile dal processo, in caso di un intervento edilizio (che si assume) illegittimo è collegato al valore ovvero al godimento del proprio immobile e discende dalla compromissione dei beni della salute e dell’ambiente oppure dalle menomazioni di valori urbanistici e dalle degradazioni dell’ambiente in conseguenza dell’aumentato carico urbanistico in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento, aumento del traffico.

Nel caso di specie, il proprietario di un ex laboratorio poi dismesso, formato da due corpi di fabbrica, presentava una SCIA che mirava, riqualificato il sito e demolito il fabbricato con bonifica del terreno, alla ricostruzione di un edificio a uso residenziale di due piani fuori terra, destinato a ospitare quattro unità abitative, nonché un piano cantine con garage interrati per sette posti auto.

È stata riconosciuta la legittimazione e l’interesse ad impugnare l’atto con cui il Comune sanciva la regolarità edilizia dell’operazione di risulta sia in capo ai vicini, sia in capo all’amministratore del supercondominio di cui il fabbricato preesistente faceva parte.

Quanto ai primi, l’esistenza di una servitù di passaggio, pedonale e carrabile, attraverso gli androni condominiali induce a ritenere che, in ragione del completamento dell’immobile oggetto della SCIA con la realizzazione di garage interrati con sette posti auto (in luogo dell’edificio preesistente che, oltre a essere stato ormai demolito, era comunque privo di parcheggi interni), vi sarà un maggior traffico, dunque un aggravio sulle parti comuni. I vicini vantano anche un interesse meritevole di tutela a salvaguardare la visuale e la salubrità degli ambienti in cui vivono, comunque incise dall’edificazione.

Quanto al secondo, l’amministratore può agire, anche in autonomia e in assenza di autorizzazione assembleare, per compiere atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio, ai sensi degli artt. 1131 e 1130, co. 1, n. 4 c.c., missione che deve interpretarsi estensivamente nel senso che, oltre agli atti conservativi necessari ad evitare pregiudizi a questa o a quella parte comune, l’amministratore ha il potere-dovere di compiere analoghi atti per la salvaguardia dei diritti concernenti l’edificio condominiale unitariamente considerato.

Una volta accertata la sussistenza dell’interesse ad agire, ossia dell’utilità dell’annullamento del provvedimento lesivo di una posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela del ricorrente, in linea di principio non è necessario dimostrare uno specifico interesse rispetto alle singole censure dedotte, nella misura in cui il loro accoglimento si traduca comunque nella caducazione integrale dell’atto impugnato (quindi, nella tutela del diritto o interesse legittimo dell’attore).

Post di Alberto Antico – avvocato

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L’azione risarcitoria nei confronti della P.A., in materia edilizia

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che in sede di domanda di risarcimento dei danni nei confronti della P.A. ex art. 2043 c.c., al pari di quanto avviene in generale nel giudizio civile, il ricorrente ha l’onere di allegare e provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, e fra questi anche l’evento dannoso (inteso come pregiudizio a interessi meritevoli di tutela di cui l’attore è titolare), oltre alla condotta illecita della P.A., all’elemento soggettivo e al nesso causale tra condotta ed evento dannoso. Infatti, nell’azione di responsabilità per danni dinanzi al G.A. il principio dispositivo dell’art. 2697, co. 1 c.c. opera con pienezza, senza il temperamento del metodo acquisitivo caratteristico dell’azione giurisdizionale di annullamento.

In materia edilizia, mentre la lesione dell’interesse alla qualità dell’insediamento abitativo dei vicini-condòmini, dovuta alla riduzione di aria e luce nel cortile, e l’aumento del traffico attraverso le parti comuni, a causa delle opere realizzate dal confinante, sono sufficienti a sorreggere l’interesse alla domanda di annullamento, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria occorre un elemento ulteriore, consistente nella prova dei danni derivanti dall’attività edilizia legittimata dal Comune.

Post di Alberto Antico – avvocato

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La decadenza del permesso di costruire (PdC)

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il TAR Veneto ha affermato che se un PdC viene dichiarato decaduto per mancato effettivo inizio lavori e mancata loro conclusione entro il termine di tre anni, qualsiasi intervento che sia stato eventualmente realizzato in forza di tale titolo dovrebbe essere qualificato ex post come realizzato in assenza di titolo, e dunque abuso.

Post di Alberto Antico – avvocato

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Processo amministrativo: di fronte alla notifica di un appello, è obbligatorio proporre appello incidentale, o si può proporre appello in via autonoma?

10 Nov 2025
10 Novembre 2025

Il Consiglio di Stato ha affermato che, sebbene l’art. 333 c.p.c., richiamato dall’art. 96, co. 3 c.p.a., stabilisca che la parte che abbia ricevuto la notificazione dell’appello abbia l’onere d’impugnare la sentenza in via incidentale, non vi è alcuna sanzione diretta a carico della parte soccombente in prime cure che abbia proposto il proprio appello in forma autonoma, anziché incidentale, soccorrendo in ogni caso il potere-dovere del giudice di riunire gli appelli proposti avverso la medesima sentenza, come previsto dallo stesso art. 96 c.p.a.

Tale parte che abbia proposto appello in via autonoma (a seguito della notifica dell’appello principale) può inserirvi la riproposizione dei motivi del ricorso di primo grado assorbiti o comunque non esaminati, in quanto l’art. 101, co. 2 c.p.a., nell’esigere che tale adempimento avvenga «con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio», si riferisce espressamente «alle parti diverse dall’appellante» (non solo quello principale, quindi).

Post di Alberto Antico – avvocato

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