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Consumo di suolo e dissesto territoriale: istruzioni per come attuarli

09 Giu 2014
9 Giugno 2014

Un bilancio attento degli esiti dei nuovi piani comunali (dai Piani di assetto del territorio ai Piani degli interventi) nel Veneto – che verrà restituito in un volume di prossima pubblicazione – svolto da un gruppo di ricercatori e docenti (coordinato da chi scrive) del Dipartimento di progettazione e pianificazione in ambienti complessi dell’Università IUAV di Venezia, mette in evidenza come tra i nuovi strumenti urbanistici e i vari Piani Casa deliberati dalla regione ci sia una forte sintonia di intenti, relativamente al primato degli interessi proprietari e, più in generale, del mercato. Ancor più, larga parte dei dispositivi di pianificazione adottati a livello locale supera, in “espedienti”, degrado delle regole e comportamento opportunistico delle istituzioni, il contenuto dei Piani Casa.

Il quadro tracciato, a dieci anni dall’approvazione della legge di governo del territorio regionale (Lr n. 11/2004), non sembra affatto coincidere con quello rappresentato dalle dichiarazioni delle principali figure istituzionali – politiche e tecnico-amministrative – della regione. Queste affermano che il dispositivo “Piano Casa” dovrebbe servire a promuovere quel libero dispiegarsi dell’iniziativa privata, che i piani urbanistici ostacolano, con le loro previsioni decennali affidate a “mastodontici” strumenti. I quali, del resto, sono gli stessi che distinguono la nuova stagione urbanistica avviata con la legge regionale del 2004 e sono stati presentati, con grande propaganda, dai responsabili regionali come strumenti innovativi di governo del territorio finalizzati a garantirne “la tutela dell’integrità fisica e ambientale nonché dell’identità culturale e paesaggistica”. Dall’approvazione della legge si è assistito a una proliferazione di procedure, di atti, molti dei quali derogatori, e ai più svariati contenuti dei piani. Dobbiamo aggiungere che il 90% dei nuovi Piani di assetto del territorio (Pat) è stato redatto in regime di co-pianificazione con la struttura urbanistica della regione, i cui funzionari sono co-progettisti degli strumenti e, per questa funzione, hanno percepito uno specifico compenso aggiuntivo. Quindi, la responsabilità di questo stato dell’arte è essenzialmente dell’istituzione regionale e ne evidenzia il livello di incapacità e inefficienza raggiunto.

In assenza di una nuova legge quadro nazionale e di fronte alla frammentazione dei dispositivi regionali, l’unico quadro unitario è attualmente rappresentato dal Piano Casa di stampo “federalista”, promosso dal governo Berlusconi nel 2009, attuato in modo discrezionale da varie regioni e giunto alla terza edizione nel caso del Veneto.

Si tratta, nella sostanza, di un provvedimento straordinario, come i precedenti, “a sostegno del settore edilizio”, in deroga ai regolamenti e ai piani vigenti, che stabilisce misure “premiali” – dal bonus di cubatura, all’esonero dal pagamento degli oneri – per l’ampliamento degli edifici esistenti e per nuove costruzioni. Con il terzo Piano casa (Lr n. 32/2014), la regione Veneto ha introdotto una “innovazione” rispetto alle edizioni precedenti – già commentata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (sabato 25 gennaio 2014) – esautorando di fatto il ruolo dei governi locali nella gestione del territorio. Per rassicurare la sparuta schiera di sindaci che ha impugnato la legge regionale, il Vice Presidente della Regione con delega all’urbanistica, nonché ex-parlamentare di Forza Italia passato al Nuovo Centro Destra – Marino Zorzato – ha precisato che le disposizioni regionali non prevalgono su tutte le disposizioni, bensì solo su quelle che contrastano con i contenuti della legge! Come meglio commentare: oltre al danno, la beffa.

Il terzo Piano Casa intende l’aumento del volume del costruito quale modo più idoneo per contenere il consumo di suolo. Ciò non è una novità. Alcuni comuni del Veneto hanno da decenni praticato la “densificazione” del tessuto edilizio esistente, aumentando significativamente gli indici edificatori in modo indiscriminato e consentendo permute di volume tra lotti attigui. Nessuna valutazione è stata finora svolta sugli esiti perversi di queste trasformazioni del patrimonio edilizio esistente in termini di esternalità negative (tra le quali l’inadeguatezza delle reti infrastrutturali, il peggioramento della qualità urbana, il danneggiamento o il consumo di beni pubblici essenziali) e di conseguenti maggiori costi fatti gravare sulla collettività.

Diversi sono gli esempi che consentono di verificare cosa ha prodotto la densificazione, applicata in modo indiscriminato, e di denunciare lo stato di degrado istituzionale in materia di governo del territorio. Il più emblematico è quello di uno dei capoluoghi provinciali – il comune di Vicenza – che dispone sia di un Piano di assetto del territorio, redatto in co-pianificazione con la Regione, e di un più recente Piano degli interventi, lo strumento operativo, il solo di carattere conformativo, non soggetto a verifiche di istituzioni sovraordinate. Esaminando entrambi gli strumenti e soprattutto le modifiche introdotte nel Piano degli interventi dall’amministrazione comunale, si può a ragione sostenere che ci sia una sostanziale continuità, tra l’amministrazione di centro-destra precedente e quella attuale, nell’uso strumentale dei piani come dispositivi che meglio permettono di mobilitare l’interesse proprietario a fini elettoralistici. È evidente che si sia attuata una metamorfosi profonda dell’interesse generale, del tutto sostituito con l’interesse particolare o proprietario.

Per favorire discrezionalmente gli interessi particolari e aggirare il controllo del consumo di suolo, diversi sono gli “espedienti” utilizzati. Tra questi i più significativi sono i seguenti. In primo luogo la delimitazione disinvolta, nel Piano di assetto del territorio, delle aree di urbanizzazione “consolidata”, comprendente, oltre alle zone residenziali previste dal piano regolatore non ancora attuate, anche ampie aree agricole inedificate che possono così essere interessate da trasformazione edilizia in assenza di piani di lottizzazione. Quindi, la previsione – nel Piano degli interventi – di nuovi volumi edificabili, in gran parte aggiuntivi alle previsioni del Pat, per 470 nuove costruzioni “a volumetria definita” di 600 mc su lotti “virtuali” di 400 mq. Di dubbia legittimità in relazione all’effettivo consumo di suolo, queste nuove cubature sono disseminate nelle aree agricole di frangia e del tessuto disperso nonché in aree previste a standard e in zone di fragilità idraulica. Complessivamente si tratta di una volumetria aggiuntiva di 270.000 mc, che aumenta la dispersione insediativa, corrode in larga parte il territorio agricolo e occulta il consumo di suolo reale.

In sintesi: nessun Piano Casa riuscirebbe a “scardinare il vecchio modo di fare urbanistica” – come auspica il dirigente dell’urbanistica regionale, dimenticando che questo è il modo introdotto dalla legge urbanistica del 2004 – più di quanto dimostra di saperlo fare la “nuova stagione urbanistica” nel Veneto. In questo contesto, i governi locali che vogliono reagire a questa incultura urbanistica e si prefiggono di attuare un governo responsabile del territorio incontrano sempre maggiori difficoltà e sono spesso costretti a ricorrere presso i massimi organi di tutela giuridico-amministrativa per difendersi dai provvedimenti dell’istituzione sovraordinata.

Chiara Mazzoleni

docente di Urbanistica, Università Iuav di Venezia

Didascalia dell’immagine allegata:

Stralcio del Piano degli interventi di Vicenza. L’asterisco rosso contrassegna le nuove costruzioni a volumetria definita di 600 mc, su lotti “virtuali” di 400 mq.

Sintesi dei risultati della consultazione pubblica sui 44 punti della riforma della pubblica amministrazione

09 Giu 2014
9 Giugno 2014

Sono giunte, alla data del 30 maggio 2014, 39.343 e-mail all’account rivoluzione@governo.it che discutono i 44 punti della riforma della pubblica amministrazione sui quali è stata lanciata una consultazione pubblica, lo scorso 30 aprile, con una lettera aperta ai dipendenti pubblici e ai cittadini.

Pubblichiamo la sintesi dei risultati

rivoluzione_report

La Giunta comunale può regolamentare le concessioni di suolo pubblico?

09 Giu 2014
9 Giugno 2014

Sembrerebbe proprio di sì, ma solo a determinate condizioni.

Nella sentenza del 03 giugno 2014 n. 744, infatti, il T.A.R. Veneto si occupa degli atti che rientrano nella competenza della Giunta e/o del Consiglio comunale specificando che, se il Consiglio ha già fissato i principi da seguire in materia di occupazione di suolo pubblico, la Giunta può adottare le disposizioni programmatiche susseguenti: “Quanto alla dedotta incompetenza della giunta comunale a deliberare i criteri regolamentari per la concessione di suolo pubblico, il Collegio non può far altro che evidenziare che ai sensi dell’art. 42, comma 1, del T.U. n. 267/2000 “il Consiglio comunale, organo di indirizzo e di controllo politico – amministrativo, ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali ad emanare: ”a) statuti dell'ente e delle aziende speciali, regolamenti salva l'ipotesi di cui all'articolo 48 comma 3, criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi”.

Discende da quanto sopra rilevato che se è vero che in base al combinato disposto di cui agli artt. 42 e 48 del T.U. Enti Locali la competenza regolamentare spetta all’organo consiliare, mentre alla giunta tale competenza è attribuita solo per la limitata materia dell’ordinamento degli uffici e dei servizi, è altrettanto vero che quest’ultima può approvare atti che siano espressione di autonomia normativa laddove a monte vi sia un provvedimento consiliare che abbia prefissato in modo preciso e chiaro i principi da seguire.

In definitiva, sulla scorta delle predette argomentazioni, non può ritenersi sussistente, nella fattispecie in esame, come peraltro già affermato da questo stesso Tribunale con sentenza n. 1754/2007, il dedotto vizio di incompetenza, atteso che l’art. 5 del Regolamento C.O.S.A.P., approvato con delibera del Consiglio Comunale, demanda espressamente ai Consigli di Quartiere la formulazione dei “criteri in base ai quali concedere le occupazioni permanenti di pubblici esercizi legate al commercio” per individuare “i luoghi ove si intende favorire, limitare o escludere l’occupazione di suolo pubblico e le attività da incentivare o da disincentivare attraverso lo strumento dell’occupazione di suolo pubblico”; del resto tale scelta, a differenza di quanto affermato dai ricorrenti, non risponde tanto alla logica della delega, quanto piuttosto a quella della sussidiarietà verticale secondo la quale la regolamentazione dell’interesse pubblico è tendenzialmente affidata all’organo più vicino allo stesso.”(cfr. questo Tribunale, sentenza n. 597/09)”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 744 del 2014

L’avvalimento a cascata è vietato

09 Giu 2014
9 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 03 giugno 2014 n. 749, dichiara l’illegittimità dell’avvalimento a cascata: “Tale operazione, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, integra un’ipotesi di avvalimento a cascata [in cui la mandante “Busolin” si è avvalsa dei requisiti di “Eco Green” che, a propria volta ha utilizzato i requisiti di un altro soggetto (“Il Verde”)], in quanto tale vietata poiché elide il necessario rapporto diretto che deve intercorrere fra ausiliaria e ausiliata (cfr. da ultimo Cons. di Stato, Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251), senza che possa rilevare, in senso contrario, la circostanza che le imprese citate risultassero raggruppate in ATI”.

Nella medesima sentenza, inoltre, i Giudici si soffermano sulla natura giuridica del consorzio statuendo che: “10.1. Ed invero, il fatto che il Consorzio DZ, ai fini della qualificazione per il servizio in esame, abbia dichiarato di avvalersi dei requisiti di capacità tecnico-professionale maturati dalla consorziata De Zottis spa, indicata come esecutrice dell’appalto, è rispettoso del dato normativo (art. 277, comma 3, del DPR n. 207/2010), nonché dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia secondo cui il consorzio può qualificarsi con requisiti posseduti in proprio ovvero mediante il cumulo con quelli delle consorziate (secondo il criterio della sommatoria), senza dover ricorrere allo strumento dell’avvalimento.

10.2. Peraltro non appare revocabile in dubbio, in considerazione della forma giuridica di Società cooperativa consortile, la natura di “consorzio stabile” del controinteressato, posto che esso soddisfa le caratteristiche essenziali a tal fine richieste dall’art. 36 del d.lgs. n. 163 del 2006, e non potendosi in alcun modo dedurre il difetto di un’autonoma organizzazione di impresa né dallo scopo mutualistico della società né dal suddetto “prestito dei requisiti” da parte della consorziata”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 749 del 2014

I ricorsi contro il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (art. 58 del D.L. n. 112/2008) hanno i termini dimidiati

09 Giu 2014
9 Giugno 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 696 del 2014.

Si legge nella sentenza: "In base all’art. 119, primo comma lettera c) e secondo comma, nelle ipotesi ivi contemplate è prevista la dimidiazione di tutti i termini processuali, fatta eccezione per quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti, per quanto riguarda il giudizio di primo grado. Ne consegue che in tali casi il termine per il deposito del ricorso risulta ridotto dagli ordinari 30 giorni a 15 giorni dalla notificazione. Per quanto riguarda la fattispecie in esame è quindi necessario stabilire se la stessa possa esser ricondotta nell’ambito di una delle ipotesi  contemplate dall’art. 119 (e in particolare dalla lettera c) , onde stabilire se per la proposizione del ricorso ed ai fini della sua ricevibilità sia necessario osservare il termine ordinario o quello dimidiato. Il rito abbreviato di cui all’art. 119 si applica, fra le altre, alle ipotesi di “provvedimenti relativi a procedure di privatizzazione o di dismissione…di beni pubblici..”. Quindi, la disposizione trova applicazione per i ricorsi proposti avverso tutti quei provvedimenti che si incardinano nell’ambito del più complesso iter procedimentale (“procedure”) che porta all’individuazione dei beni appartenenti al patrimonio degli enti locali al fine della loro dismissione e quindi alienazione, all’evidente scopo di risanare le finanze degli enti alienanti. La disciplina di tale procedura è stata dettata a livello nazionale dal D.L. n. 112/2008, art. 58, poi convertito in L. 133/2008 e a livello regionale è stata recepita con la legge regionale n. 11/2010, art. 35, dettante disposizioni relative al piano di alienazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regione, province e comuni. La complessa procedura trae origine dall’approvazione del Piano delle alienazioni, per effetto del quale è possibile anche apportare varianti urbanistiche agli strumenti vigenti, così come espressamente previsto dall’art. 58 del D.L. 112/08 e dall’art. 35 della L.r.11/10, che, per specifiche situazioni, prevedono che tali delibere di variante possano essere assunte mediante procedure semplificate (ossia , come avvenuto nel caso in esame, mediante approvazione da parte dello stesso Consiglio comunale).  Ciò premesso, il caso in esame è riconducibile all’ipotesi disciplinata dalle normative nazionali e regionali richiamate, trattandosi di una variante direttamente collegata e funzionale all’espletamento della procedura di dismissione di alcuni beni del patrimonio comunale, già inseriti in precedenza nel piano delle alienazioni per l’anno 2011, successivamente confermati per l’anno 2012. La stessa formulazione della delibera impugnata non consente dubbi in merito essendo espressamente riferita alla peculiare previsione di cui all’art. 58 del D.L. 112/08 ed essendo stata assunta – così come peraltro ritenuto dalla stessa Provincia che era stata inizialmente investita della questione secondo la procedura ordinaria – seguendo l’iter semplificato, così come previsto espressamente dal secondo comma dell’art. 35 della legge regionale. Se quindi, in linea di principio, va condiviso quanto espressamente affermato nella pronuncia richiamata da parte ricorrente nella propria memoria conclusiva (C.d.S., , V, 17.9.2012, n. 4905), ove è stato ribadito che “…la dimidiazione dei termini nell’ipotesi di dismissione del patrimonio pubblico, debba ragionevolmente trovare applicazione solo per le procedure che espressamente il legislatore disciplina per la dismissione di specifici beni o classi di beni pubblici, e non per un singolo bene al di fuori di tali procedure legalmente tipizzate, come nel caso di specie. Diversamente ritenendo, infatti, ogni asta effettuata per la vendita di beni di proprietà pubblica configurerebbe una dismissione di beni pubblici, venendo con ciò meno la “ratio” sottesa alla instaurazione di un processo celere, dato atto che non ogni compravendita di beni  pubblici si regge su esigenze di urgenza e di organico intervento espresso in un programma di risanamento del bilancio dell’ente interessato.”, è altrettanto indubitabile che nel caso in esame non si è in presenza di una mera alienazione di un bene appartenente al patrimonio comunale, bensì ad un provvedimento (variante urbanistica) che appartiene alla più complessa ed articolata procedura che attiene alla dismissione di beni inseriti nell’ambito del Piano delle alienazioni e disciplinata secondo le peculiari scansioni dettate dal legislatore, nazionale e regionale. Appare quindi non pertinente il richiamo giurisprudenziale effettuato dalla ricorrente, non essendo tale precedente riconducibile al caso in esame, per il quale, diversi essendo i presupposti di fatto e di diritto, trova applicazione la più volte richiamata procedura di dismissione e quindi la conseguente applicazione della specifica, eccezionale, norma processuale sulla dimidiazione dei termini per il deposito del ricorso. Essendo quindi incontestato che il presente ricorso è stato depositato oltre il termine di 15 giorni dalla notifica, ne consegue necessariamente la sua irricevibilità".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 696 del 2014

Solo gli architetti possono realizzare interventi sulle opere di interesse storico-artistico

06 Giu 2014
6 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 03 giugno 2014 n. 743, conferma che la legittimità dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che riconosce una riserva a favore degli architetti laddove si tratta di affidare dei lavori edilizi che riguardano immobili storici o di pregio artistico-architettonico: “La questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, assai dibattuta e oggetto in passato di pronunce di segno diametralmente opposto, è stata definitivamente affrontata e risolta dal Consiglio di Stato (sentenza n. 21/2014 cit.), il quale, nel pronunciarsi su gravami presentati avverso due divergenti pronunce di questo stesso Tribunale (sentenze n. 3630/2007 e n. 3651/2008), ha tracciato precisi canoni interpretativi in ordine alla applicabilità (e, quindi, alla compatibilità con il diritto comunitario) del citato art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925.

Per fare ciò, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto necessario investire la Corte di Giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 del TFUE; in particolare, è stato chiesto: (a) se la ricordata direttiva n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica il più volte menzionato art. 52, che riservi specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di “architetto” ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nei settori dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva; (b) se tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52 del R.D. n. 2357/1925.

La Corte di Giustizia ha definito la questione con sentenza del 21.2.2013, nella quale ha precisato che gli artt. 10 e 11 della direttiva 85/384/CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno stato membro diverso dallo Stato membro ospitante -titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato art. 11 – possono svolgere, in questo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere qualifiche nel settore dei beni culturali.

Ciò posto, il Consiglio di Stato, richiamati gli approdi giurisprudenziali che sono giunti a soluzioni condivise circa l’insussistenza di profili di incompatibilità della parziale riserva di cui al ricordato art. 52 R.D. 2537/1925 con i dettami del diritto comunitario (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 maggio 2006, n. 2776, id., 11 settembre 2006, n. 5239, id., 24 ottobre 2006, n. 6343), ha affrontato la questione relativa alla possibilità che il suddetto art. 52 possa determinare –in danno degli ingegneri italiani nei confronti di ingegneri di un qualunque altro Paese dell’Unione Europea - un fenomeno di “discriminazione alla rovescia”, da accertarsi, in via esclusiva, da parte del giudice nazionale.

In tale prospettiva, anche sulla base dei chiarimenti della stessa Corte di Giustizia - rilasciati non solo con la ricordata pronuncia del 21.2.2013 resa su rinvio dello Stesso Consiglio di Stato, ma anche, in precedenza, con ordinanza del 5.4.2004, su ricorso C-3/02, resa a seguito dell’ordinanza di rimessione del TAR Veneto, nell’ambito del procedimento che ha condotto alla sentenza n. 3630/2007 - è stato rilevato che la direttiva 85/394/CEE ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, ma non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né le disposizioni in essa contenute hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere; in buona sostanza, la richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’art. 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia.

Impostati in tal modo i termini della questione, il Consiglio di Stato ha concluso, con argomentazioni che il Collegio ritiene di condividere, nel senso che non siano ravvisabili i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno degli ingegneri italiani.

In particolare, è stato osservato che, se si esamina il contenuto minimo obbligatorio che la ricordata direttiva impone affinché un determinato percorso formativo sia incluso fra quelli che consentono di invocare il mutuo riconoscimento, ci si avvede che tali requisiti sono pienamente compatibili con il ricordato orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925. Invero, la giurisprudenza del supremo Consesso amministrativo ha giustificato la detta parziale riserva considerando che, per quanto non manchino approfondimenti anche nel settore dell’architettura nel corso di studi degli ingegneri civili, comunque all’architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, in conseguenza di maggiori approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di affrontare problematiche e sottese valutazioni tecniche relative agli immobili di rilevanza artistica. Il Consiglio di Stato ha, quindi, sottolineato che “l’approccio in questione risulta del tutto compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva 85/384/CEE la quale ….ammette l’esercizio in regime di mutuo riconoscimento e di libera circolazione delle attività tipiche della professione di architetto a condizione che il professionista in questione possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel settore dei beni storici e di interesse culturale. Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso formativo che legittima un professionista ad invocare il regime di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della storia e delle teorie dell’architettura nonché della arti, tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono influire sulla qualità della concezione architettonica”. Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione secondo l’approccio sostanzialistico proprio dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in tutto coincidente con quello fatto proprio dalla giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato”.

Il Consiglio di Stato ha, dunque, concluso precisando che non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi dell’UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico-artistico), ma, al contrario, giusta la normativa comunitaria, l’esercizio di tali attività –in regime di mutuo riconoscimento – sarà consentito ai soli professionisti che (al di là del nomen iuris del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto; pertanto, anche volendo ammettere che un professionista non italiano con titolo di ingegnere sia legittimato, in base alla normativa del paese d’origine, a svolgere attività rientranti tra quelle abitualmente esercitate con il titolo di architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex se una “discriminazione alla rovescia”, atteso che, in forza della direttiva 85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere, ma) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo di architetto (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 21 cit.).

La conclusione cui giunge il supremo Consesso amministrativo –e dalla quale non vi è motivo per discostarsi- è, dunque, nel senso di ritenere che non sia possibile affermare che la previsione di parziale riserva in favore degli architetti di cui all’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925 sia idonea a determinare, in danno degli ingegneri italiani, un effetto di “discriminazione alla rovescia””. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 743 del 2014

Ancora sull’obbligo di indicare gli oneri da rischio specifico

06 Giu 2014
6 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 03 giugno 2014 n. 746, conferma l’obbligo di indicare gli oneri aziendali di sicurezza stabilendo che: “8.6. Ritiene il Collegio che tale modus operandi abbia senz’altro violato l’onere dichiarativo previsto dal combinato disposto degli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 che impone, per ogni tipo di appalto, la specificazione già in sede di offerta dei costi di sicurezza aziendali, non potendosi ritenere a tal fine utile la dichiarazione resa dalle imprese di gara ai sensi della lettera B, punto 17, del disciplinare di gara (sopra riportata) che si limita a richiedere al concorrente un generico impegno ad aver valutato tutti gli elementi incidenti sulla propria offerta.

8.7. Di tali costi l’ordinamento prevede l’indicazione con norme immediatamente precettive (cfr. i citati artt. 86, comma 3-bis, del d. lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, del d. lgs. n. 81/2008) e tali da eterointegrare, in virtù del loro carattere imperativo (in ragione degli interessi di ordine pubblico che tutelano, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori), ogni diversa disciplina di gara (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, sez. III, 18 ottobre 2013, n. 5070 e sez.III, 3 luglio 2013, n. 3565).

8.8. L’indicazione degli oneri aziendali costituisce pertanto un elemento essenziale dell’offerta, la cui mancanza rileva (quale specifica di esclusione) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del d. lgs. n. 163/2006 determina un’insanabile incompletezza dell’offerta medesima “in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa” (così TAR Veneto, sez. I, n. 228 del 17.02.2014; nonché in senso conforme: TAR Lombardia Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso, tra le più recenti, TAR Lazio Roma, sez. II ter, 7.01.2013, n. 66; TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 14.01.2013 n. 56).

8.9. A fronte di tale lacuna, dunque, non poteva essere attivato alcun soccorso istruttorio, dal momento che con esso si sarebbe determinata, come in effetti è accaduto nella fattispecie sottoposta a scrutinio, l’integrazione/modificazione ex post di un elemento essenziale dell’offerta in violazione del fondamentale principio della par condicio dei concorrenti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 746 del 2014

Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo

06 Giu 2014
6 Giugno 2014

DECRETO-LEGGE 31 maggio 2014, n. 83 

Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo.

Si richiama in particolare l'attenzione sui seguenti articoli:

 - Art. 12 Misure urgenti per la semplificazione in materia  di beni culturali e paesaggistici;
 
- Art. 13 Misure urgenti per la semplificazione degli  adempimenti  burocratici al fine di favorire l'imprenditorialita' turistica.
 
geom. Daniele Iselle
 

Il condono edilizio non poteva più essere chiesto una volta scaduto il termine per demolire le opere abusive

05 Giu 2014
5 Giugno 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 27 maggio 2014 n. 2755 si occupa del c.d. primo condono edilizio chiarendo la natura perentoria del termine per richiedere questa c.d. sanatoria straordinaria: “6.1. L’articolo 13 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (ora trasfuso nell’art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), su cui è stata fondata l’istanza di concessione in sanatoria dell’abuso edilizio, negata col provvedimento impugnato in primo grado, stabilisce che il responsabile dell’abuso possa ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria, quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda, “fino alla scadenza del termine di cui all’art. 7, terzo comma, per i casi di opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con varianti essenziali, o dei termini stabiliti nell’ordinanza del sindaco di cui al primo comma dell’art. 9, nonché, nei casi di parziale difformità, nel termine di cui al primo comma dell’art. 12, ovvero nel caso di opere eseguite in assenza di autorizzazione ai sensi dell’art. 10 o comunque fino alla irrogazione delle sanzioni”.

La particolare sanatoria prevista dall’articolo in esame non può pertanto essere più richiesta quando sia definitivamente decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative.

Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i contrapposti interessi in conflitto, subordinando la sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la violazione dello stesso, stante invece la sua doppia conformità edilizia ed urbanistica (al momento della realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al mancato definitivo consolidarsi del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia stata effettivamente già portata ad esecuzione (sul rapporto di consequenzialità tra provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime rispetto all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e sulla loro non autonoma impugnabilità in mancanza di tempestiva impugnazione dell'atto con cui era stata ingiunta la demolizione, tra le tante Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2007, n. 40).

Da ciò deriva la natura perentoria dei termini sopra indicati.

6.2. Nel caso di specie non è contestato che la richiesta di concessione in sanatoria ai sensi dell’articolo 13 della legge n. 47 del 1985 sia stata presentata dall’interessato in data 9 novembre 2002 (prot. 1085) quando era ormai diventata definitiva l’ordinanza di demolizione dello stesso abuso di cui si discute, in relazione al quale con la sentenza n. 197 del 31 gennaio 2002 il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sez. I, aveva ritenuto legittimo il diniego (ordinanza 5/2001 del 27 ottobre 2001) di rilascio della concessione in sanatoria (pure ex art. 13 della legge n. 47 del 1985).

Correttamente pertanto i primi giudici hanno ritenuto tardiva la nuova domanda di concessione in sanatoria (risultando infondato il richiamo operato dall’appellante alla pretesa mancata irrogazione delle sanzioni amministrative), tardività che preclude l’esame delle altre censure”.

Nella stessa sentenza il Massimo Organo della Giustizia Amministrativa ricorda il principio della c.d. doppia conformità secondo cui: “Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17 marzo 2014, n. 1324; Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3235; Sez. V, 17 settembre 2012, n. 4914; Sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1126; Sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2306).

Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29 maggio 2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.

Come rilevato da questo Consiglio (Sez. V, 17 marzo 2014, n.- 1324, cit.), tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:

a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);

b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2755 del 2014

La differenza tra modifiche e innovazioni della cosa comune ai fini della necessità del consenso del condominio per ottenere un titolo edilizio

05 Giu 2014
5 Giugno 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR  Veneto n. 614 del 2014: "Premesso che il provvedimento impugnato, nel denegare il rilascio del permesso di costruire un’altana sul tetto dell’edificio, è basato su due ordini di ragioni che, in punto di diritto, sono ostative al rilascio del titolo richiesto; premesso altresì che nella specie, trattandosi di edificio unico, seppure articolato in scala A e scala B, questo ha come copertura un unico tetto, il cui utilizzo – salva diversa configurazione della proprietà - riguarda tutti i condomini e non solo parte di essi; considerato che il provvedimento può ritenersi legittimamente assunto anche se sostenuto da una sola delle motivazioni addotte; ritiene il Collegio che, sulla scorta dei principi dettati dal Codice Civile in materia di uso della cosa comune, il ricorso sia infondato; invero, pur essendo generalmente riconosciuto che, in caso di realizzazione di un’opera da parte di un singolo su parti comuni  dell’edificio, la quale sia tuttavia strettamente pertinenziale alla propria unità immobiliare, vale il principio dettato dall’art. 1102 c.c., in base al quale “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non ne impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”; che, sulla scorta di tale disposizione, è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione il principio generale per cui il singolo condomino può apportare, nel proprio interesse ed a proprie spese, modifiche alle parti comuni al fine di conseguire un’utilità maggiore e più intensa del proprio immobile, a patto che dette modifiche non alterino la normale destinazione della cosa comune e non ne impediscano l’altrui pari uso (cfr. C.Cass. 10453/2001; 12569/2002; 8830/2003); che quindi, nell’ipotesi in cui l’intervento non sia riconducibile all’ipotesi contemplata dall’art. 1102, comma 1, l’intervento deve essere qualificato come innovazione, come tale comportante un mutamento della sostanza o l’alterazione della destinazione delle parti comuni, in quanto ne rende impossibile l’utilizzazione secondo la funzione originaria; che , conseguentemente, in tali diverse ipotesi – quale è quella in esame, ove una porzione del tetto verrà coperta dall’altana e quindi risulterà di uso esclusivo dei fruitori della stessa – deve essere manifestata la volontà dell’assemblea dei condomini, coinvolgendo tutti i partecipanti alla cosa comune e quindi sia i condomini della scala A che quelli della scala B, con la maggioranza calcolata ai sensi dell’art. 1136, comma 5, così come disposto dall’art. 1120 c.c.; osservato, altresì, attese le considerazioni svolte in ricorso, che l’ipotesi in esame è ben diversa da quella in cui vengono aperti sul tetto degli  abbaini o delle finestre per dare aria e luce alla proprietà sottostante, in quanto tali opere, sempreché eseguite a regola d’arte e tali da non pregiudicare la funzione di copertura propria del tetto, né da impedire l’esercizio da parte degli altri condomini dei propri diritti sulla cosa comune, costituiscono soltanto modifiche e non innovazioni della cosa comune, non necessitando di conseguenza della previa approvazione dell’assemblea dell’edifico in condominio ex artt. 1120 e 1136 c.c. per detti motivi, ritenuta la legittimità del diniego opposto dall’amministrazione, il ricorso deve essere respinto".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 641 del 2014

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