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Il giudice amministrativo non ha giurisdizione sul processo verbale di contestazione tributario

18 Apr 2014
18 Aprile 2014

La ricorrente ha impugnato davanti al TAR un processo verbale di constatazione, formato da funzionari dell'Agenzia delle Entrate - Direzione regionale dell'Abruzzo, in data 27 dicembre 2007, relativo ad una verifica fiscale, deducendone l'illegittimità.

Con la sentenza n. n. 84 del 25 gennaio 2013 il T.A.R. per l'Abruzzo ha dichiarato inammissibile il ricorso per carenza di giurisdizione amministrativa in favore della giurisdizione tributaria, in base ai rilievi di seguito testualmente riportati: "... in disparte il fatto che le censure dedotte avverso il suddetto processo verbale di contestazione sono state poi integralmente reiterate nel successivo ricorso proposto avverso il conseguente avviso di accertamento (ricorso rigettato dalla Commissione Tributaria Provinciale, e in sede di appello, dalla Commissione Tributaria Regionale, e ora pendente in Cassazione), deve ritenersi assorbente il fatto che la Giurisprudenza ha da tempo chiarito che la giurisdizione delle Commissioni Tributarie, essendo piena ed esclusiva, si estende non soltanto all'impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento e che a seguito della riforma di cui all'articolo 12 della legge 28 dicembre 2001 n.448, la giurisdizione del Giudice Tributario, si estende ormai a qualunque controversia in materia di imposte tasse che non attenga al momento  della esecuzione in senso stretto (Cassazione civile, sezioni unite, 14 marzo 2011, ordinanza n.5928; Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana 28 luglio 2011 n. 523)". Con appello notificato il 24 aprile 2013 e depositato l'8 maggio 2013, la sentenza è stata impugnata deducendone l'erroneità, quanto alla declaratoria di difetto di giurisdizione amministrativa, rilevando, in sintesi,sul che il processo verbale di constatazione è atto preparatorio e istruttorio, privo di effetti tributari diretti, non impugnabile in via autonoma dinanzi al giudice tributario, né ricompreso nell'elencazione degli atti impugnabili nel processo tributario, con riproposizione delle censure già dedotte con il ricorso in primo grado.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n.  1821 del 2014, ha riconfermato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con la seguente motivazione: "Il processo verbale di constatazione è l'atto in cui si condensano le risultanze degli accessi nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, finalizzati a "... ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni...", da parte di funzionari dell'amministrazione finanziaria (ora dell'Agenzia delle Entrate) e/o muniti di apposita autorizzazione; dal medesimo debbono risultare "...le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute" e "...deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione", fermo il diritto del contribuente di ottenerne copia (art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, applicabile anche in materia di imposte dirette sui redditi ai sensi dell'art. 33 comma 1 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. E' evidente che trattasi di atto privo di contenuto ed effetti provvedimentali, dal quale può eventualmente scaturire l'emanazione di un accertamento tributario, privo pero ex se di effetti tributari e di efficacia lesiva, e in quanto tale, appunto, non impugnabile in via diretta e autonoma dinanzi alle commissioni tributarie, secondo giurisprudenza affatto pacifica (Cass. civile, Sez. Trib., 29 maggio 2006, n. 12789; id., 20 gennaio 2004, n. 787, che rileva come esso sia atto endoprocedimentale, sfornito di rilevanza giuridica esterna e di valore impositivo; id., 30 ottobre 2002, n. 15305, che ha altresì negato che la non impugnabilità -da escludere ai sensi del previgente art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, e ora dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546- configuri profili d'illegittimità costituzionale). E' altresì chiaro che la non immediata impugnabilità non preclude che eventuali vizi del processo verbale, che infirmino l'efficacia probatoria del medesimo, quanto alle modalità dell'accesso e/o all'acquisizione dei documenti, possono comunque essere fatti valere in relazione all'impugnazione dell'atto di accertamento, e in tal senso, come osservato dal giudice amministrativo abruzzese, non è senza significato  che "...le censure dedotte avverso il suddetto processo verbale di contestazione sono state poi integralmente reiterate nel successivo ricorso proposto avverso il conseguente avviso di accertamento...", ancorché il relativo ricorso tributario sia stato rigettato dalla commissione tributaria provinciale con sentenza confermata dalla commissione tributaria regionale, pendendo, all'epoca dell'emanazione della sentenza gravata nella presente sede, ricorso per cassazione. D'altro canto, questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che atti che si pongano quali presupposti di attività ispettiva e acquisitiva prodromica all'accertamento sono sindacabili dinanzi alla giurisdizione tributaria ed esulano dalla giurisdizione amministrativa (nella specie l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica alla perquisizione del domicilio del contribuente o del legale che lo rappresenta: Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2008, n. 6045)".

Dario Meneguzzo - avvocato

 sentenza CDS n. 1821 del 2014

 

 

Secondo il Consiglio di Stato la “pergotenda” è un elemento di arredo che non comporta aumenti di volume

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

La circolare di Roma Capitale n. 19137 del 9 marzo 2012 – definisce la ‘pergotenda’ quale manufatto rientrante nell’attività edilizia libera, come «struttura di arredo, installata su pareti esterni dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio, costituito da struttura leggera e amovibilie, caratterizzata da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione».

Dalla lettura della sentenza del Consiglio di Stato n. 1777 del 2014 sembrerebbe che a fare la differenza sia l'ancoraggio oppure no al pavimento del terrazzo pertinenziale dell’appartamento dei pali di sostegno della struttura: se manca l'ancoraggio l'opera non costituisce aumento di volume o di superficie e rientra nell'attività edilizia libera. 

Che poi a me non sia tanto chiaro cosa renda ontologicamente diversa una struttura ancorata al pavimento da una ancorata alle pareti esterne forse è indizio di scarsa vocazione per le sfumature. 

Scrive il Consiglio di Stato:  "Merita, in primo luogo, accoglimento il motivo di error in iudicando costituito dall’erronea valutazione delle caratteristiche di fatto connotanti l’opera in oggetto, atteso il mancato ancoraggio – invece erroneamente supposto dal T.a.r. – dei pali di sostegno della struttura in esame al pavimento del terrazzo pertinenziale dell’appartamento dell’appellante (infatti, nel verbale di sopralluogo della Polizia municipale, posto a base degli impugnati provvedimenti, si discorre di pali «poggiati sul pavimento», e non già di pali ancorativi in modo fisso; v., altresì, la documentazione fotografica, in atti), con conseguente facile amovibilità della struttura medesima. La struttura in esame, quale descritta sopra sub § 1. – costituita da due pali dello spessore di 8,50 cm x 11,50 cm poggiati sul pavimento del terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in PVC della superficie di 15 mq e dell’altezza variabile da 2,80 m a 2,10 m, ancorata al sovrastante balcone e munita di una copertura rigida di 0,80 (in aggetto) x 5,00 m a riparo del telo retraibile (v. il citato verbale e la documentazione fotografica) –, non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua facile e  completa rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della facile rimuovibilità della copertura orizzontale (addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico). La stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001. Ne consegue la fondatezza del motivo d’appello, di erronea reiezione della censura di violazione degli artt. 3, 6, 10 e 33 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e 14 e 16 l. reg. - Lazio 11 agosto 2008, n. 15, avendo gli impugnati provvedimenti erroneamente qualificato l’opera in oggetto come intervento di «ristrutturazione edilizia e/o cambio di destinazione d’uso da una categoria all’altra», anziché come semplice intervento di natura manutentiva rientrante nell’attività edilizia c.d. libera".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1777 del 2014

La sanatoria non si applica alle opere precarie

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 28 marzo 2014 n. 410 afferma che non si può ottenere la sanatoria edilizia di un immobile precario in quanto: “2.2 Preso atto del carattere assolutamente precario del manufatto di cui si tratta, consistente in un’opera costituita da tetto e muri perimetrali in legno, è del tutto evidente come l’Amministrazione comunale non avrebbe potuto che denegare l’istanza di cui si tratta.

2.3 Si è infatti affermato, con un orientamento giurisprudenziale consolidato e risalente al tempo in cui gli atti venivano emanati (si veda sul punto Cons. Stato Sez. V, 04-02-1998, n. 131), che “ai sensi dell'art. 31 l. 28 febbraio 1985 n. 47, non può essere rilasciata concessione edilizia in sanatoria per opere di carattere assolutamente precario, carattere che va valutato dal punto di vista funzionale, cioè con riferimento all'uso cui le opere sono destinate (nel caso di specie, il manufatto precario, costituito da un prefabbricato, era temporalmente destinato a soddisfare le esigenze di funzionalità di un cantiere edile, e, quindi, ad essere rimosso insieme con questo una volta conclusi i lavori di costruzione di alcune palazzine)”.

2.4 Analogamente è, altresì, noto (T.A.R. Campania Napoli Sez. II Sent., 24-01-2008, n. 403) come non sia ammissibile la realizzazione di opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo e, ciò, in ragione del carattere dello stesso manufatto che, in quanto tale, non può impedire in alcun modo l’attività sanzionatoria del Comune diretta a reprimere l'opera abusiva nella sua interezza”.

 Per quanto concerne l’ordinanza di demolizione si legge: “5. E’ possibile rigettare anche l’impugnazione proposta (nel ricorso RG 1471/97) avverso l’ordinanza di demolizione n.16 del 20/02/1997 e, ciò, considerando come non sussistano i vizi di illegittimità derivata con riferimento ai provvedimenti di diniego sopra citati e ora dichiarati legittimi.

5.1 Non sussiste nemmeno la dedotta violazione dell’art. 92 della L. reg. n. 61/1985, nell’ambito della quale parte ricorrente sostiene che l’Amministrazione comunale non avrebbe evidenziato le disposizioni urbanistiche in contrasto con il mantenimento in essere del manufatto di cui si tratta.

5.2 Sul punto va rilevato come l'ordinanza di demolizione” (n.d.r. l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo) “costituisca un atto dovuto e meramente consequenziale all'ordinanza di demolizione (T.A.R.Liguria sez. I del 04/12/2013 n. 1467).

5.3 E', altresì, noto che presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso (T.A.R. Campania, sez. III del 05/12/2013 n. 5620).

5.4 Deve ritenersi insussistente, altresì, la violazione dell’art. 92 della L. reg. 61/1985, sotto altro presupposto, e per quanto attiene la mancanza del parere della Commissione edilizia previsto dalla disposizione sopra citata.

5.5 Sul punto va ricordato che questo Tribunale ha già avuto modo di precisare (si veda TAR Veneto Sez. II, sent. n. 534 del 07-03-2006) che il provvedimento che ordina la demolizione dell'opera abusiva, nell’eventualità in cui sia stato preceduto dal diniego di concessione in sanatoria, integra la fattispecie di un provvedimento dovuto (da ultimo, CdS, IV, 8.3.2005 n. 1662), in relazione al quale non residua alcun margine di discrezionalità.

5.6 Ne consegue che deve ritenersi “superflua l'acquisizione di qualsiasi parere ovvero l'accertamento dell'incompatibilità dell'opera con la normativa edilizio-urbanistica: in questo caso, infatti, la sussistenza del contrasto con la disciplina urbanistica, nonchè il parere della commissione edilizia - previsti dall'art. 92, IV comma della L.R. n. 61/1985 quali presupposti di legittimità della demolizione non preceduta dal diniego di concessione - vengono assunti a monte, nell'ambito della fase propedeutica concernente l'istruttoria per il rilascio della concessione in sanatoria””.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 410 del 2014

 

Quando bisogna impugnare a pena di improcedibilità del ricorso anche il contratto conseguente alla aggiudicazione di una gara?

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 424 afferma che, con riferimento ad una procedura concorsuale avente ad oggetto la concessione di un bene demaniale, la mancata impugnazione dell’atto di concessione determina l’improcedibilità del ricorso perché: “In linea generale, nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all’interno di un più ampio contesto procedimentale (come quello di evidenza pubblica), occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante: nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto conseguenziale senza bisogno che quest’ultimo sia stato autonomamente impugnato, mentre in caso di illegittimità ad effetto viziante l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto.

Tale ricostruzione si basa, in materia di procedure concorsuali, sul condivisibile assunto che non è necessario impugnare l’atto finale, quando sia stato già impugnato quello preparatorio, solo quando fra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti: diversamente, quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi ovvero adempimenti dell’aggiudicatario (nel caso di specie, in particolare, l’adempimento relativo alla prestazione della cauzione definitiva), la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale, pena la improcedibilità del ricorso.

Che è esattamente quanto accade avuto riguardo alla natura del contratto di concessione, che non va considerato atto meramente esecutivo, ma atto che, anche quando recepisca i risultati dell’aggiudicazione, comporta comunque una autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti e, comunque, l’accertamento degli adempimenti a cui l’aggiudicatario è tenuto.

Ciò stante, il gravame proposto avverso i provvedimenti con i quali un concorrente è stato escluso dalla gara per la concessione di un’area demaniale e la gara stessa è stata aggiudicata al controinteressato diventa improcedibile nel caso di mancata impugnazione del contratto successivamente stipulato con l’aggiudicatario, in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale attributivo dell’utilitas all’aggiudicatario stesso: giacchè anche qualora il ricorrente fosse riammesso in gara in virtù dell’accoglimento delle censure proposte avverso l’esclusione, ciò non di meno non gli deriverebbe alcun vantaggio, in quanto non potrebbe mai aspirare alla concessione del bene oggetto della procedura concorsuale.

Negli stessi termini, peraltro, si è già espresso questo Tribunale laddove, in una fattispecie affatto analoga, ha affermato che “la mancata impugnazione di tale ulteriore atto, conclusivo della procedura e soprattutto costitutivo della concessione demaniale costituisce causa di improcedibilità del ricorso….per carenza di interesse. In proposito, deve essere ricordato che la costituzione di diritti reali su beni demaniali può avvenire soltanto attraverso uno specifico atto di concessione, avente propriamente natura costitutiva, tanto è vero che, fino all'emissione di tale provvedimento, il soggetto interessato non può comunque vantare alcun titolo legittimo alla fruizione con modalità differenziate rispetto alla generalità dei cittadini di un qualsiasi bene appartenente al demanio”.

Né può essere accreditata la tesi del ricorrente secondo cui non sarebbe sorto l’onere di impugnare il contratto in quanto avrebbe giammai ricevuto la formale comunicazione ex art. 79, V comma del DLgs n. 163/2006 relativa alla sua avvenuta stipulazione: premesso, invero, che in mancanza di comunicazione individuale il termine per l’impugnazione degli atti di gara decorre comunque dalla loro conoscenza (cfr., ex pluribus, CdS, V, 31.10.2012 n. 5565; VI, 13.12.2011 n. 6531; III, 12.5.2011 n. 2842; TAR veneto, I, 23.4.2013 n. 613), l’odierno ricorrente ha senz’altro avuto contezza del contratto in questione quanto meno in data 27 gennaio 2014, con la sua produzione in giudizio da parte della difesa della controinteressata (cfr. il doc. 3).

Orbene, così delineata la portata dell’eccezione, essa va accolta, atteso che nel corso del giudizio il ricorrente non ha impugnato con motivi aggiunti l’atto di concessione del bene demaniale stipulato inter partes, neppure dopo averne avuto piena conoscenza in ordine ai suoi dati identificativi e ai suoi contenuti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR veneto n. 424 del 2014

Differenza tra sopravvenuta carenza di interesse e cessazione della materia del contendere

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1825 del 2014: "2. Costituisce jus receptum il risalente principio secondo il quale l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 475/92).  Di recente, (Cons. Stato Sez. IV, 06-08-2013, n. 4145) questa Sezione del Consiglio di Stato ha ribadito il detto principio e tracciato i criteri differenziali tra forme di improcedibilità sopravvenute del gravame a torto assai spesso ritenute assimilabili, stabilendo che “la sopravvenuta carenza di interesse - figura, di stretta elaborazione giurisprudenziale ed ora espressamente prevista all'art. 35, comma 1 lett. c), c.p.a. (D.Lgs. n. 104/2010) - è accomunata a quella limitrofa della cessazione della materia del contendere per la disciplina, che determina in entrambi i casi l'improcedibilità del ricorso, e per la tipologia di fatto di origine, che è sempre un ulteriore provvedimento della pubblica  amministrazione che interviene nel rapporto in contestazione. Le due figure si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell'interesse leso. La sopravvenuta carenza di interesse, infatti, opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato.”. Non ignora il Collegio che tale declaratoria sia preclusa allorchè il ricorrente manifesti una qualche forma di residuo interesse alla trattazione del mezzo (di recente la giurisprudenza ha talvolta affermato che esso possa rinvenirsi anche in interessi di natura morale) ovvero che l’accertamento possa essere finalizzato all’esercizio dell’azione risarcitoria.  Ancora in passato, peraltro, si era detto che (Cons. Stato Sez. IV, 04-12- 2012, n. 6190) “la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al Giudice Amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi e, in particolare, in modo che la declaratoria d'improcedibilità non si traduca in una sostanziale elusione dell'obbligo del giudice di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, perché l'interesse residuo alla pronuncia del merito della controversia va inteso in senso assai ampio, ossia alla luce degli effetti conformativi e ripristinatori dell'eventuale sentenza d'accoglimento - la quale, oltre all'efficacia meramente caducatoria dell'atto impugnato, si riverbera e condiziona la futura attività amministrativa - in quanto la persistenza dell'interesse va valutata considerando anche le possibili ulteriori iniziative attivate o attivabili dal ricorrente per ottenere la soddisfazione della di lui pretesa, potendo la predetta sentenza costituire il presupposto per l'accoglimento dei gravami contro gli atti consequenziali o per esercitare l'azione risarcitoria contro la P.A. emanante”. Di converso, però è stato colto dalla giurisprudenza della Sezione (decisione n. 3458/2013 ) che detta forma “residua” di interesse è connotato essenziale del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va dichiarato inammissibile od improcedibile e che non possa allegarsi per la prima volta in secondo grado posto che nel processo di appello vige il divieto di nuove domande, nuove allegazioni, e nuove prove (art. 345 c.p.c., oggi si veda art. 104 del c.p.a.).  2.1. Orbene, parte appellante supporta la propria critica appellatoria con la presentazione della domanda risarcitoria: ma nella incontestata considerazione che i provvedimenti “sostitutivi” erano stati adottati a seguito di una nuova delibazione che aveva portato ad un nuovo assetto di interessi, che essa aveva già ottenuto la restituzione dell’area in data 5 maggio 1998, e che con deliberazione 8 ottobre 1997 n. 1702 si era provveduto alla riapprovazione ex articolo 1 della legge 1 del 1978 del progetto esecutivo per il recupero e sistemazione dell’area da destinare a parco giochi, dette valutazioni in ordine alla permanenza dell’interesse vanno parenteticamente verificate in concreto alla stregua delle circostanze di fatto, anche sopravvenute rispetto alla proposizione del gravame.

3. A tal proposito, rileva il Collegio che non residua dubbio in ordine alla circostanza che, allo stato, tale interesse, non sussistesse al
momento della decisione del T.A.R., e che in ogni caso certamente giammai esso potrebbe ravvisarsi persistente oggi. 
3.1. Dalla produzione di parte appellante risulta infatti che il Giudice Ordinario, in primo grado, ha pacificamente ritenuto illegittima la
attività dell’amministrazione comunale sino al momento della emissione degli atti per cui è causa nell’odierno processo, e sino comunque al 1998; che il comune (vedasi il quinto motivo dell’atto di appello innanzi alla Corte di Appello di Bologna) non ha contestato detta declaratoria di illegittimità/illiceità della condotta, dalla quale il Tribunale di Modena ha fatto discendere la condanna risarcitoria pronunciata in primo grado, ma, semmai, le censure si sono incentrate sulla quantificazione del quantum liquidato e sul preteso errore materiale contenuto nella sentenza  di primo grado del Tribunale di Modena; che nessuna delle problematiche sollevate innanzi alla Corte di Appello dal Comune interferisce con quelle dell’odierno giudizio e che peraltro, la causa d’appello è stata rinviata per precisazione delle conclusioni, di guisa che nessun ulteriore tema (ammesso che comunque lo fosse, ex art. 345 c.p.c.) sarebbe sollevabile in detto giudizio, ed in particolare non sarebbe ivi possibile rimettere in discussione, da parte dell’appellante amministrazione comunale, la sussistenza della propria responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.. Va rilevato altresì che il segmento successivo dell’azione amministrativa ha formato oggetto di distinto gravame, prospettato dalla odierna appellante innanzi al competente T.A.R. territoriale per l’Emilia-Romagna, e che quest’ultimo ha respinto il petitum con la sentenza n. 00451/2012 impugnata innanzi a questo Consiglio di Stato (ric. n. 5373/2012 tuttora pendente) di guisa che neppure sotto tale profilo permane in capo all’odierna appellante alcun interesse apprezzabile alla coltivazione del presente gravame. Quest’ultimo ricorso, quindi, deve essere respinto, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso".

sentenza CDS 1825 del 2014.

 

La convenzione urbanistica che preveda l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione non è disciplinata dal codice degli appalti

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Scrive il TAR Veneto nella sentenza n. 505 del 2014: "2.1. In ordine ai vizi formali e procedurali della dichiarazione di risoluzione della convenzione, adottata dal Comune con la nota del 7 settembre 2011, il Collegio rileva innanzitutto come il caso in esame di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione, da parte del privato, in attuazione di una convenzione urbanistica, non sia in alcun modo equiparabile all’esecuzione di un appalto di opere pubbliche, con la conseguenza che non possono trovare applicazione alla fattispecie in questione le norme del codice dei contratti pubblici (art. 136 D.lgs n. 163/2006), ed in particolare quelle relative allo specifico procedimento previsto per addivenire alla risoluzione di un tale tipo di contratto.  Piuttosto può essere utile osservare in proposito che l’obbligo della gara pubblica per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione è stato espressamente escluso - dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in L. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha introdotto un comma 2 bis all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 - per le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria (come sono nel caso in esame) la cui esecuzione “è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

La controversia sull’escussione di una polizza fideiussoria relativa a una convenzione urbanistica non spetta al giudice amministrativo

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Lo afferma il TAR Veneto nella sentenza n. 505 del 2014.

Scrive il TAR: "1. Preliminarmente, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa del Comune, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo alla (seconda) domanda di accertamento dell’infondatezza della pretesa del Comune di Conegliano di escutere la polizza fideiussoria. Tale pretesa dell’amministrazione è infatti basata sul contratto di garanzia, collegato, ma autonomo rispetto alla convenzione urbanistica (in ordine alla quale, invece, pacificamente sussiste la giurisdizione esclusiva del G.A.), e non implica l’esercizio di pubblici poteri da parte della P.A., bensì l’attivazione di un diritto soggettivo nell'ambito di un rapporto privatistico-paritetico (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 27 marzo 2012, n. 343; Cass. civ. Sez. Unite, 23 febbraio 2010, n. 4319). Va peraltro osservato che il giudizio avente ad oggetto l’escussione della polizza fideiussoria da parte del Comune di Conegliano, al quale ha partecipato anche la Montedil s.r.l., è stato già deciso in primo grado con sentenza del Tribunale di Treviso di conferma del decreto ingiuntivo emesso nei confronti della Assicurazioni Generali".

La questione appare chiara e indubbia quando la controversia sorga tra l'assicurazione e il Comune (proprio per l'autonomia del contratto), mentre è meno intuitiva quando sia il soggetto attuatore che contesti il diritto del Comune di escutere la polizza, perchè sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla convenzione urbanistica.

Dario Meneguzzo - avvocato

 sentenza TAR Veneto n. 505 del 2014

Servizi pubblici: è competente il G.O. od il G.A.?

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza n. 434 del 2014, dopo aver chiarito che in materia di tariffe sanitarie: “va osservato che, come correttamente osserva l’Amministrazione resistente, ai sensi degli artt. 8 sexies e 8 octies del Dlgs. 30 dicembre 1992, n. 502, spetta alla Regione e non all’Ulss il potere di fissare le tariffe sanitarie e di coordinare, con direttive vincolanti, l’esercizio dei controlli sull’appropriatezza delle prestazioni erogate e sulla loro corretta codifica, e in tal senso dispone anche l’allegato alla deliberazione della Giunta regionale n. 2609 del 7 agosto 2007”, indica che nel settore dei servizi pubblici vi è la competenza dell’Autorità Giudiziaria Amministrativa soltanto se si impugnano dei provvedimenti di carattere autoritativo: “E’ vero, come afferma la parte ricorrente, che la controversia verte in una materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo perché si versa nell’ambito di un servizio pubblico.

Va tuttavia ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, laddove prevedeva una giurisdizione esclusiva estensivamente riferita a tutte le controversie in tema dei pubblici servizi anziché alle sole controversie "relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi....", e il principio è stato recepito dall’art. 133, comma 1, lett. c) cod. proc. amm.. ai sensi del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo”.

Nel caso di specie, come sopra precisato, la domanda proposta ha ad oggetto una pretesa patrimoniale nei confronti dell’Ulss che riguarda una fase che precede, prescindendone, l’esercizio di poteri autoritativi in materia di fissazione delle tariffe sanitarie che competono - così come le funzioni in materia di coordinamento, con direttive vincolanti, dei controlli sull’appropriatezza delle prestazioni erogate e sulla loro corretta codifica - solo alla Regione.

La controversia non riguarda pertanto provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ma corrispettivi che prescindono dall’intermediazione di una atto provvedimentale, e per tale ragione esula dalla cognizione del giudice amministrativo e spetta a quella del giudice ordinario (cfr. Cass. Sez. Un. 26 gennaio 2011, nn. 1771,1772 e 1773; id. 20 giugno 2012, n. 10149)”.

 Anche nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 432 il T.A.R. Veneto, sez. III, giunge alle medesime conclusioni ove, dopo aver chiarito che cos’è il finanziamento a funzione: “il finanziamento a funzione costituisce una modalità eccezionale e derogatoria dell’ordinario sistema di remunerazione a prestazione, che è volto a garantire lo svolgimento di servizi relativi ad attività caratterizzate da aleatorietà circa il numero di casi trattati, non prevedibili o programmabili, o in situazioni temporanee e contingenti caratterizzate da momentanei deficit organizzativi che non rendano possibile stabilire in via ordinaria un congruo parametro retributivo delle prestazioni erogate (per le conseguenze derivanti da riassetti organizzativi, da interventi legislativi o nuove soluzioni tecnologiche e sanitarie), o per incentivare l’applicazione di determinate metodiche o servizi il cui costo di impianto può risultare diseconomico rispetto al regime delle prestazioni correnti.

L’eccezionalità e il carattere derogatorio dal sistema di remunerazione a prestazione, risulta chiaramente dalla circostanza che, benché il sistema di finanziamento a funzione sia stato introdotto con deliberazione della Giunta regionale n. 4081 del 22 dicembre 2000, e che l’attività di angiologia sia stata ricompresa fin dall’inizio, non tutte le strutture sono state ammesse al finanziamento a funzione relativamente all’attività di angiologia” afferma che: “E’ vero, come afferma la ricorrente, che la controversia si inquadra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo perché si versa nell’ambito di un pubblico servizio.

Va tuttavia ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, laddove prevedeva una giurisdizione esclusiva estensivamente riferita a tutte le controversie in tema dei pubblici servizi anziché alle sole controversie "relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi....", e il principio è stato recepito dall’art. 133, comma 1, lett. c) cod. proc. amm..

Nel caso di specie la domanda proposta ha ad oggetto una pretesa patrimoniale che prescinde dall’esercizio di poteri autoritativi, non riguarda provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, e per tale ragione esula dalla cognizione del giudice amministrativo e spetta al giudice ordinario (cfr. Cass. Sez. Un. 26 gennaio 2011, nn. 1771,1772 e 1773; id. 20 giugno 2012, n. 10149; con riferimento alle concessioni di beni cfr. Cass. Sez. Un. 5 marzo 2008, n. 5912)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 432 del 2014

TAR Veneto n. 434 del 2014

Il TAR Liguria dichiara legittimo (almeno per ora) il Registro delle unioni civili

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Il T.A.R, Liguria, Genova, sez. I, nella sentenza del 04 aprile 2014 n. 518 dichiara legittima la delibera del Consiglio comunale di Genova n. 31/2013 che approva il Regolamento di istituzione del Registro amministrativo delle unioni civili delle persone che, indipendentemente dal sesso, sono legate da vincoli affettivi e di reciproca solidarietà, sono conviventi e hanno lo loro dimora abituale nel Comune di Genova. Questo registro, in sostanza, equipara le coppie sposate alle coppie conviventi soltanto nei rapporti tra i cittadini ed il Comune.

Nello specifico il T.A.R. Liguria dichiara inammissibile il ricorso proposta dall’Associazione Essere Famiglia e da due persone fisiche che agiscono “in riferimento al proprio stato familiare, ritenuto leso dal regolamento impugnato e dalla prevista equiparazione” perché, essendosi impugnato un atto regolamentare a carattere generale ed astratto, non vi sarebbe stata alcuna attuale lesione: “In primo luogo, trattandosi di atto regolamentare, nel caso di specie non sussistono i limitati ed eccezionali presupposti per l’impugnativa di tale tipologia di atto normativo.

In proposito, costituisce jus receptum il principio a mente del quale il regolamento non è di per sé impugnabile, in quanto esso è privo di disposizioni immediatamente lesive, proprio per il suo contenuto normativo, astratto e programmatico, a nulla rilevando che le dette disposizioni possano prefigurare un’incisione futura sulla sfera giuridica di chi ne risulterà in concreto destinatario. Conseguentemente, esso potrà formare oggetto di impugnazione solo insieme agli atti applicativi, perché è attraverso tali atti che si realizza il pregiudizio della sfera soggettiva degli effettivi destinatari e, quindi, si attualizza l’interesse a ricorrere. Soltanto se il regolamento contenga anche disposizioni immediatamente lesive, incidendo direttamente e unilateralmente sulla sfera giuridica di uno o più soggetti individuati, esso sarà immediatamente impugnabile, emergendo allora un contenuto provvedimentale.

Invero, la costante giurisprudenza amministrativa (condivisa dal Collegio) ha sempre escluso, di norma, l'impugnabilità diretta dei regolamenti, le cui prescrizioni sono caratterizzate da generalità ed astrattezza (cfr., ad es.: C.d.S., sez. VI, 12 febbraio 2001 n. 663; sez. IV, 12 febbraio 2012 n. 812; id., 18 novembre 2013, n. 5451, Tar Trento, sez. I 16 dicembre 2013 n. 408).

Le relative previsioni regolamentari, riguardano, di solito (ed all’evidenza anche nella specie), una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (neppure potendosi, nel caso de quo rispetto ad altri, circoscrivere alcune categorie di esse), il che ne determina, appunto, la "generalità".

Inoltre, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilità, in quanto applicabili ad un numero indefinito di casi concreti, il che ne determina l'astrattezza.

Quanto al regime di impugnazione, per tradizionale affermazione giurisprudenziale - fondata proprio sulle anzidette caratteristiche dell'atto - il regolamento non è di per sé impugnabile, in quanto, come detto, privo di disposizioni immediatamente lesive, proprio per il suo contenuto normativo, astratto e programmatico, a nulla rilevando che le dette disposizioni possano prefigurare una incisione futura sulla sfera giuridica di chi ne risulterà in concreto destinatario

Nella specie non vi è alcuna disposizione immediatamente lesiva di situazioni giuridiche ma solo affermazioni di principio e generali, la cui condivisibilità ed opinabilità costituisce questione latu sensu politica e di valore, tale da oltrepassare ampiamente i limiti propri del giudizio di legittimità, come si avrà modo di evidenziare anche oltre”.

 Alla luce di ciò il T.A.R. conclude affermando che: “In proposito, curiosamente, deve evidenziarsi come i fini indicati nelle premesse del regolamento coincidano con quelli dell’associazione: lo sviluppo della persona. Ciò conferma come si tratti di visioni generali, politiche e di valori, indipendenti quindi da scelte di legittimità amministrativa rispetto alle quali la problematica si porrà, eventualmente, in sede applicativa e gestionale. Anche di atti amministrativi generali, ma pur sempre di carattere latu sensu gestionale, non normativo e libero nei fini come nella specie, in cui ci si trova dinanzi a scelte normative, più o meno opinabili o condivisibili che siano” ed ancora che: “Non vi è un interesse diretto, mancando un riflesso diretto sulla sfera giuridica del ricorrente; infatti, la norma contestata (in quanto previsione generale ed astratta) allo stato non ha effetto diretto su tale sfera nè, conseguentemente, può averne il relativo annullamento. Non vi è un interesse attuale, essendo il paventato vantaggio unicamente prospettico, in relazione alle future (e allo stato non individuabili, anche a cagione della genericità ed astrattezza delle previsioni regolamentari in contestazione) applicazioni in sede amministrativa.

L’interesse morale, invocato da parte ricorrente nei propri scritti difensivi, risulta peraltro riferito ai ben distinti casi in cui si pone la questione della permanenza di un interesse alla decisione in relazione al sopravvenire di eventi successivi alla instaurazione del giudizio, dovendo in tali casi essere esclusa l'utilità dell'atto impugnato, ancorché meramente strumentale o morale, ovvero che sia chiara e certa l'inutilità di una pronuncia di annullamento dell'atto impugnato (cfr. da ultimo Consiglio di Stato sent. n. 70\2014).

Nel caso de quo l’interesse morale – vantato per l’instaurazione al giudizio - assume connotati in senso lato politici e di valore che, pur laddove reputati condivisibili, fuoriescono all’evidenza dagli ambiti propri del giudizio di legittimità amministrativa. Il concetto di morale viene in questo caso forzato e, in termini giuridici di interesse al ricorso, stravolto: nel senso che è reputato morale il sostenere un’idea di famiglia e di sviluppo della persona – fondata sul matrimonio - a scapito di una visione diversa e più ampia (quale quella che sarebbe sottesa alla scelta politica del Consiglio comunale), che quindi assumerebbe i connotati dell’amoralità o comunque della non moralità, del contrasto con l’interesse morale sussistente in capo ai ricorrenti; orbene, pur nel comprendere le ragioni portate a sostegno della nozione di famiglia nucleare fondata sul matrimonio, il concetto di moralità nei termini assolutisti proposti da parte ricorrente non alberga nel giudizio di legittimità, così come inteso dalla costante giurisprudenza invocata, laddove l’invocato interesse morale ad avere comunque la decisione di un ricorso (inizialmente sorretto da un interesse diretto concreto ed attuale) concerne il distinto caso dell’ottenimento del riconoscimento dell’originaria fondatezza delle ragioni addotte a sostegno del gravame proposto”.

 Particolarmente interessante è anche l’excursus giurisprudenziale affrontato dal Collegio in materia di famiglia: “La stessa giurisprudenza invocata da parte ricorrente (Tar Veneto 2786\2007) evidenzia l’ampiezza del concetto di famiglia nell’ordinamento, in cui a quello di famiglia nucleare o civile si accompagna quello di famiglia anagrafica (per la quale i requisiti sono individuati dalla presenza fra i membri di un vincolo familiare o affettivo e la coabitazione o dimora abituale nella stessa abitazione. Analogamente, altra condivisibile giurisprudenza (Tar Toscana 1041\2001) evidenzia come la stessa Costituzione non escluda la sussistenza di altre formazioni sociali, espressamente tutelate dall’art. 2 Cost., tanto che la giurisprudenza della Corte costituzionale ( cfr. ad es. sentenze nn. 237/86, 281/94, 8/96. 138/2010) ha riconosciuto l'ambito di operatività dell'art.2 Cost., ai sensi del quale anche un consolidato rapporto di fatto può essere tutelato come espressione del principio solidaristico del quale è permeato l'ordinamento giuridico, e il principio di eguaglianza espresso nell'art. 3 Cost. impone a tutti i soggetti istituzionali della "Repubblica", e quindi anche ai Comuni (arg. ex art. 5 Cost.), di eliminare qualsiasi ostacolo che si frapponga al rispetto della persona umana da tutelare anche nella sua diversità. E lo statuto dell’associazione pare proprio muoversi nell’ottica dello sviluppo della persona, in ogni ambito familiare e sociale; in termini quindi tanto condivisibili quanto ben più ampi e non coincidenti con quelli ben più ristretti azionati in ricorso.

Incidentalmente, merita un espresso richiamo quanto evidenziato dalla Consulta nella sentenza del 2010: “L'art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento - che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”. Ciò quindi non esclude che le cc.dd. unioni civili possano assumere rilievo in termini generali di famiglia, come confermato dal concetto di famiglia anagrafica”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Liguria n. 518 del 2014

Il Comune di Asiago: il piano casa può comportare consumo di suolo a fini speculativi

15 Apr 2014
15 Aprile 2014
Trasmetto a Venetoius copia della lettera a firma del Sindaco, inviata al Vicepresidente della Regione Zorzato, su una richiesta di Piano Casa presentato in Comune di Asiago, che evidenzia come l'applicazione consentita in zona agricola di fatto generi nuova occupazione di aree inedificate con conseguente consumo di suolo unita a finalità speculative, trattandosi di comune turistico (assenza di vincoli sul numero delle unità abitative ed assenza di indicazioni prescrittive sulla destinazione d'uso a residenza permanente).
Volevo evidenziare che il disposto dell'art. 3bis comma 3 in realtà rende possibile una situazione ancora peggiore di quella riportata nel caso illustrato, in quanto si precisa che non solo l'ampliamento calcolato sulla volumetria massima assentibile può essere realizzato sul corpo separato, ma anche l'eventuale ampliamento previsto dall'art. 44 comma della LR 11/2004: nel nostro caso, quindi, avremmo non solo il 45% di 800 mc, ma anche la differenza di volumetria tra il volume attuale e gli 800 mc. stessi, cioè altri 725 mc!
Il nuovo fabbricato (ampliamento dell'esistente) potrebbe raggiungere i 1000 mc. con realizzazione di 5-6 alloggi: di fatto un condominio in zona agricola.
Non ritengo che questo fosse lo spirito della legge e poco ha a che fare anche con la finalità di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
 
Architetto Donatella Michelazzo - Comune di Asiago
 
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