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Dopo l’abrogazione del DPR 191/1979 e del DPR 268/1987 è ancora ammesso il rimborso delle spese legali al dipendente dell’ente locale?

03 Ott 2012
3 Ottobre 2012

La disciplina riguardante il rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente pubblico di un ente locale deriva dal combinato disposto dell’art. 16 del D.P.R. 191/1979 secondo cui “L'ente, nella tutela dei propri diritti ed interessi, assicura l'assistenza in sede processuale ai dipendenti che si trovino implicati, in conseguenza di fatti ed atti connessi all'espletamento del servizio ed all'adempimento dei compiti d'ufficio, in procedimenti di responsabilità civile o penale, in ogni stato e grado del giudizio, purché non ci sia conflitto di interesse con l'ente” e dall’art. 67, comma 1 e 2, del D.P.R. 268/1987 secondo cui “1. L'ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. 2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o con colpa grave, l'ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni grado di giudizio”.

Alla luce di ciò il rimborso delle spese legali è legittimo allorquando ricorrano a due condizioni:

               I) l’assoluzione piena del dipendente pubblico che si trova implicato, in conseguenza di atti o fatti connessi all’espletamento del servizio o all’adempimento dei compiti d’ufficio, in un procedimento civile e/o penale;

               II) la mancanza di un conflitto d’interesse con l’ente.

Quanto detto è confermato anche dal parere della Corte dei Conti, sez. reg. di controllo per il Veneto nella deliberazione n. 184/2012/PAR depositata in segreteria il 12.03.2012 concernente le condizioni ed i limiti per il rimborso delle spese legali sostenute da un dirigente comunale sottoposto a giudizio penale e poi assolto con formula piena (perché il fatto non sussiste). Nello specifico la Corte ritiene che “le spese sostenute da amministratori e dipendenti di enti locali per la difesa nell’ambito di un giudizio penale, escluso ogni automatismo nell’accollo delle spese da parte dell’ente, deve risultare - ai fini di una trasparente, efficace ed efficiente amministrazione delle risorse economiche pubbliche” – subordinato ai seguenti presupposti:

a)      l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente sottoposto a giudizio;

b)      il giudizio deve riguardare atti o fatti strettamente connessi all’espletamento dell’attività istituzionale del dipendente;

c)       l’assenza di conflitti di interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza;

d)      che, in caso di proscioglimento con formule diverse da quelle escludenti la materialità dei fatti (il fatto non sussiste e l’imputato non lo ha commesso), non debba sussistere in concreto alcun conflitto di interessi con l’ente;

e)      che, se il rimborso sia chiesto ex post, la spesa deve rispondere a parametri di obiettiva congruità e non deve esservi conflitto d’interessi con l’ente.

Inoltre, la deliberazione n. 245/2012/PAR del 05.04.2012 della Corte dei Conti, sez. reg. di controllo per il Veneto si sofferma sul momento in cui l’ente deve valutare l’assenza del conflitto di interessi tra il dipendente pubblico e l’ente affermando che “l’amministrazione di appartenenza dovrà verificare, all’esito del procedimento (in questo senso “ex post”), che non sussista un conflitto di interessi tra l’attività istituzionale dell’ente e la condotta del lavoratore”.

La verifica, quindi, viene fatta ex post alla conclusione del procedimento civile e/o penale al quale il dipendente ha partecipato ed indipendentemente dall’esito del procedimento civile/penale, come conferma anche la Cassazione laddove stabilisce che l’accertamento del conflitto di interessi deve avvenire valutando il “fatto addebitato” complessivamente e nella sua intrinseca realtà, “a prescindere dalla sussistenza o meno della responsabilità penale” (Cass. civile, sez. lavoro, 12 febbraio 2004, n. 2747).

Con riferimento alla natura di tale rimborso, la Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Veneto, con deliberazione n. 184/2012/PAR che riprende il contenuto della circolare del Ministero dell’Interno del 30.05.2003 – 16.59 chiarisce che il rimborso del dipendente pubblico ha natura indennitaria e non risarcitoria. Questo comporta “l’obbligo di reintegrare il patrimonio del dipendente mediante una prestazione equivalente e non già di eseguire una prestazione pecuniaria nel suo ammontare ab origine” nonché la possibilità che il ristoro economico non corrisponda “ad un rimborso pieno della parcella, specie quando la stessa contenga importi superiori rispetto a quelli previsti dalle tabelle professionali. Infatti la partecipazione dell’ente alla scelta del legale, avrebbe potuto indirizzare la stessa verso un professionista che avesse assunto l’impegno di mantenersi nei limiti di dette tabelle. Si ritiene, pertanto, che l’amministrazione, in assenza della preventiva intesa, possa ridurre il rimborso alla parte della spesa che la stessa avrebbe assunto ove la scelta fosse stata concordata”.

Si evidenzia come, incidendo negativamente sul bilancio dell’ente locale, la determinazione del rimborso effettuata dall’ente dovrà osservare i necessari criteri di ragionevolezza, congruità ed adeguatezza in relazione all’importanza dell’attività svolta ed anche alla luce delle valutazioni da effettuarsi a cura dell’Ordine degli Avvocati.

Attualmente, però, il Decreto Legge 09 febbraio 2012 n. 5 (c.d. Semplifica Italia) convertito con modificazioni dalla legge 04 aprile 2012 n. 35 ha abrogato sia il D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191 che il D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268.

Qual è la disciplina normativa che ora regola il rimborso delle spese legale sostenute da un dipendente pubblico di un ente locale che ha partecipato ad un procedimento civile/penale?

Una possibile soluzione è applicare l’art. 28 del C.C.N.L. per il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali del 14.09.2000 il quale prevede che “l’ente, anche a tutela dei propri diritti e interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento.

In caso di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, l’ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado di giudizio.

La disciplina del presente articolo non si applica ai dipendenti assicurati ai sensi dell’art. 43, comma 1”.

Oppure i giudici interpreteranno estensivamente quanto previsto dall’art. 18, comma 1, del D.L. 25 marzo 1997 n. 67 convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997 n. 135 per i dipendenti pubblici statali: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”?

dott. Matteo Acquasaliente

Corte Conti, sez. reg. controllo Veneto PAR 184 2012

Corte Conti, sez. reg. controllo Veneto, PAR 245 2012

L’aumento di superfici utili o di volumi che esclude la sanatoria paesaggistica si configura anche nel caso di opere interrate o che non aumentano il carico urbanistico

02 Ott 2012
2 Ottobre 2012

La precisazione è contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato n. 5066 del 2012.

Scrive il Consiglio di Stato: "Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già affermato con la propria sentenza 20 giugno 2012 n. 3578, la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità
dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo".

Nel caso specifico si trattava di un garage interrato e di una centrale termica: "Il parere negativo emesso dalla Soprintendenza risulta, poi, congruamente motivato ed in linea con l’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004; la lettura della relazione allegata al progetto di sanatoria evidenzia, infatti, chiaramente come fossero state realizzate opere (ampliamento del garage interrato e di una centrale termica) integranti quell’aumento “di superfici utili o volumi” ostativo, ai sensi dell’art. 167, comma 4, codice dei beni culturali e del paesaggio, al rilascio della licenza a sanatoria, nessuna rilevanza potendo assumere - come si evince da quanto sopra esposto sui c.d. volumi tecmici - il richiamo all’orientamento giurisprudenziale (cfr. C.S., sez. V, sent. 1° luglio 2002 n. 3589) escludente rilevanza alle opere interrate: orientamento affermatosi in rapporto alla valutazione del parametro concernente la volumetria della costruzione (onde l’irrilevanza delle costruzioni interrate che, in quanto non utilizzabili al pari di quelle costruite al di sopra del piano di campagna, non aumentino il carico urbanistico) e non applicabile alle ipotesi in cui, al contrario, sia contestata la stessa possibilità di procedere all’edificazione (come nel caso di specie, per la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e non in considerazione della volumetria realizzata)".

sentenza CDS 5066 del 2012

Il costo per il potenziamento della rete idrica non è classificabile quale contributo per opere di urbanizzazione primaria e la giurisdizione non spetta al TAR

01 Ott 2012
1 Ottobre 2012

Il ricorrente ha presentato ricorso al TAR per chiedere l’accertamento del diritto di ripetere la somma di € 28.008,79 pagata all’Azienda Generale Servizi Municipalizzati di Verona per opere di potenziamento della rete idrica comunale e per la conseguente condanna al pagamento in proprio favore della predetta somma.

In occasione di alcuni lavori edilizi, il ricorrente aveva richiesto all’Azienda Generale Servizi Municipali di Verona (di seguito AGSM) il preventivo per la fornitura di acqua e gas per le utenze domestiche dei blocchi C1 e C2 e per l’allacciamento fognario.  A seguito della suddetta richiesta, l’AGSM forniva per i blocchi C1 e C2 tre preventivi di cui uno per l’allacciamento e i contatori per usi domestici (prev. n. 864853), uno per l’uso dell’acqua antincendio (prev. n. 872043) e uno per il potenziamento della rete idrica da realizzare  pari a € 25.462,54 (prev. n. 872813), con la precisazione che il contestuale pagamento di tutti e tre i preventivi sarebbe stata condizione imprescindibile per l’inizio dei lavori di allacciamento.

Secondo il ricorrente, la richiesta dell’AGSM di incamerare la somma di € 25.462,54 (più IVA) per il potenziamento della rete idrica comunale (cfr. prev. n. 872813), peraltro adempiuta con riserva di ripetere quanto versato, sarebbe illegittima perché riguardante lavori pubblici di esclusivo interesse della collettività che avrebbero dovuto essere realizzati a spese dell’ente locale.

Il TAR, con la sentenza n. 1220 del 2012, ha ritenuto di non avere giurisdizione in materia: "Osserva, ai fini del decidere, il Collegio, che con Conferenza di Servizi intercorsa tra il Comune di Verona e l’AGSM in data 14.01.2003, è stato appurato che la somma di cui parte ricorrente chiede la restituzione non è classificabile quale contributo per opere di urbanizzazione primaria le cui controversie, in ordine al quantum, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.
11.3. Dal verbale della conferenza risulta, infatti, che il potenziamento della rete idrica, in ragione del quale la predetta Azienda municipalizzata ha chiesto alla ricorrente il pagamento della somma di € 25.462,54, più IVA, (cfr. prev. n. 872813), “si è reso necessario per l’allacciamento dell’immobile della Victoria Costruzioni s.p.a. (SK n. 2977/99), per le esigenze specifiche della Società stessa (es. bocca antincendio) e non per l’interesse della collettività”.
11.4. Conseguentemente, deve ritenersi corretta la valutazione operata dal Comune di Verona il quale, con nota datata 19.02.2003, prot. n. 23467, ha rappresentato alla ricorrente l’impossibilità di restituire la predetta somma, a scomputo di quanto pagato a titolo di contributo di concessione, anche in considerazione del fatto che non era stato preventivamente richiesto l’assenso all’Amministrazione comunale in relazione alle opere realizzate dall’AGSM.
11.5. In conclusione, non essendo la somma richiesta dalla ricorrente classificabile quale contributo di urbanizzazione e risultando, invero, i lavori effettuati dall’AGSM parte integrante dell’allacciamento concernente le bocche antincendio degli immobili oggetto d’intervento, il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione".

sentenza TAR Veneto 1220 del 2012

Il procuratore speciale di una società può presentare offerte tanto quanto il legale rappresentante di cui all’art. 2384 c.c.

01 Ott 2012
1 Ottobre 2012

La sentenza del TAR Veneto n. 1222 del 2012 si occupa, tra l'altro, dei poteri del procuratore speciale di una società di presentare offerte, dicendo che: "Privo di pregio appare, infine, la dedotta carenza di rappresentanza legale in capo al predetto procuratore speciale avendo la giurisprudenza, in proposito, definitivamente chiarito che non vi è “alcuna valida ragione per considerare, sul piano delle garanzie procedimentali, meno affidabile o meno impegnativa una dichiarazione proveniente da un procuratore rispetto a quella proveniente dal rappresentante legale di cui all’art. 2384 c.c.. Né, in senso contrario, è decisivo affermare che la maggiore stabilità della figura del rappresentante legale, sui cui poteri può incidersi solamente con delibera assembleare, comporti una migliore tutela dell’interesse sostanziale della P.A. alla certezza dell’identità dei suoi interlocutori, essendo la complessiva disciplina di gara idonea di per sé a garantire sufficientemente, nelle articolazioni
dell’evidenza pubblica, l’interesse dell’Amministrazione alla certezza dell’identità degli interlocutori” (cfr. Cons. St., sez. V, 31 ottobre 2001, n. 5691)."

sentenza TAR Veneto 1222 del 2012

La prescrizione che richiede per edificare il preventivo piano particolareggiato è un vincolo strumentale soggetto a decadenza quinquennale

28 Set 2012
28 Settembre 2012

Sulla questione torna la sentenza del Consiglio di Stato n. 5088 del 2012.

Scrive il Consiglio: "Non è contestato che il vincolo edificatorio, che subordinava l’edificabilità della zona D del comune di Lucera all’adozione di un piano particolareggiato, sia decaduto a seguito dell’inutile decorso del termine quinquennale.
L’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (come prima l'art. 2, comma 1, della legge 19 novembre 1968 n. 1187) fissa in cinque anni la durata del vincolo preordinato all’esproprio. La disposizione ora vigente, al pari di quella che l’ha preceduta, si riferisce ai vincoli che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l'ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all'entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo. La decadenza del vincolo strumentale - per esso intendendosi quello che subordina l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo - non ha luogo nella sola ipotesi (peraltro estranea alla vicenda in oggetto, per la mancanza del PUG, cui la normativa regionale subordina l’iniziativa privata) in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore generale la possibilità di ricorso a un piano di lottizzazione redatto dal privato: in questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata esclude la configurabilità dello schema ablatorio e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo (cfr. Cons. Stato, 24 marzo 2011, n, 615).
La decadenza del vincolo per decorso del quinquennio di efficacia non equivale ad annullamento della previsione di piano in vigore e dunque le aree divengono prive di disciplina urbanistica - salvo quanto previsto dall'art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (c.d. zone bianche) – fino all'adozione da parte del Comune di nuove, specifiche prescrizioni (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 615)".

sentenza CDS 5088 del 2012

L’aggiudicazione può essere revocata anche dopo l’affidamento provvisorio e anticipato del servizio rispetto alla stipula del contratto

26 Set 2012
26 Settembre 2012

La sentenza del TAR Veneto n. 1202 del 2012 si occupa di un caso nel quale la società risultata aggiudicaria definitiva di un appalto di servizi, la quale aveva ricevuto l'affidamento provvisorio e anticipato del servizio rispetto alla stipula del contratto, si era resa responsabile di una serie di inadempimenti.

In particolare, le contestazioni riguardavano: le modalità di svolgimento del servizio, l’efficienza dello stesso, la tenuta della documentazione relativa alla rendicontazione della movimentazione dei rifiuti, l’omessa comunicazione alla stazione appaltante della disponibilità di un Centro servizi in uno dei Comuni soci, qualificato come “unità locale” (comprendente la rimessa di automezzi, magazzini ricambi e attrezzature, sistemi e dotazioni di sicurezza, spogliatoi e servizi per i dipendenti, recapito telefonico telex e posta elettronica, secondo quanto previsto dall’art. 33 del capitolato speciale d’appalto), nonché l’omessa indicazione in merito alla ripartizione dei servizi all’interno dell’ATI capeggiata dalla ricorrente.

Allora la stazione appaltante ha revocato  "l'affidamento del servizio".

Il TAR ha ritenuto che si sia trattato della revoca della aggiudicazione, dicendo che: " l’atto impugnato non può, quindi, essere qualificato né come recesso né come risoluzione di un rapporto contrattuale, non ancora sorto, ma come esercizio del potere di autotutela della stazione appaltante sul provvedimento di aggiudicazione".

Scrive il TAR: "Con il provvedimento impugnato, infatti, la stazione appaltante ha inteso esercitare il proprio potere di riesame in via di autotutela in conseguenza di una serie di disservizi e di contestazioni che, sebbene sorte durante l’esecuzione anticipata di una porzione specifica del servizio oggetto di gara (riguardando il servizio di raccolta differenziata dei rifiuti nel solo Comune di Arcugnano), hanno determinato una rivalutazione delle ragioni di pubblico interesse sottese all’originario provvedimento di aggiudicazione in ragione della riconsiderazione dell’idoneità organizzativa e tecnica della ATI ricorrente a divenire affidataria definitiva del servizio oggetto di gara.
7.3. Secondo un principio pacificamente affermato in giurisprudenza e condiviso dal Collegio, infatti, «nei contratti d’appalto l’Amministrazione aggiudicatrice non è obbligata a stipulare il contratto con il soggetto aggiudicatario ed essa ben può rimuovere gli effetti dell’atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione amministrativa sia condotta coi necessari crismi della legittimità» (T.A.R. Torino Piemonte, II, 3 aprile 2012, n. 385; T.A.R. Toscana, II, 1 settembre 2011, n. 1372; conforme T.A.R. Sicilia, Catania, I, 25 febbraio 2011, n. 463)".

E aggiunge: "A conferma della natura pubblicistica del provvedimento impugnato, soccorre, peraltro, anche il chiaro tenore letterale dell’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui «l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta», dovendosi così escludere che con l’aggiudicazione medesima sorga il rapporto contrattuale. Coerentemente con tale assunto, il successivo comma 9 fa espressamente salvo, una volta «divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva», «l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti».
7.7. La condotta dell’ATI aggiudicataria successiva alla consegna anticipata del servizio e precedente alla stipula del contratto è stata, dunque, valutata dall’amministrazione al solo fine di rimuovere il provvedimento di aggiudicazione e determinare, quindi, un diverso esito della gara con conseguente aggiudicazione ad altro soggetto; l’atto impugnato non può, quindi, essere qualificato né come recesso né come risoluzione di un rapporto contrattuale, non ancora sorto, ma come esercizio del potere di autotutela della stazione appaltante sul provvedimento di aggiudicazione.
7.8. In definitiva, l’Amministrazione, con l’atto impugnato, ha rimesso in discussione l’esito della fase pubblicistica volta alla scelta del contraente prima della stipula del contratto. Pertanto, conformemente a quanto affermato dal Consiglio di Stato, «spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione di comportamenti ed atti assunti prima dell’aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l’aggiudicazione e la stipula dei singoli contratti» (così Consiglio di Stato, sez. V., 21 aprile 2010, n. 2254), ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera e), del c.p.a.".

sentenza TAR Veneto 1202 del 2012

Regolamento sulla utilizzazione delle terre e rocce da scavo

25 Set 2012
25 Settembre 2012

Il Ministero  dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare ha emanato il decreto 10 agosto 2012 , n. 161 (in vigore dal 6 ottobre 2012), recante la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo.

Regolamento terre e rocce da scavo Dm 10 agosto 2012

Un condomino può sopprimere una porzione del tetto per realizzare una terrazza esclusiva?

24 Set 2012
24 Settembre 2012

La questione è stata esaminata dalla sentenza della Cassazione civile n. 14107 del 3 agosto 2012, che ha dato risposta positiva.

Scrive la Corte: "Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sé alterazione della destinazione della cosa.

La risposta deve essere negativa, perché per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.

Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardate diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.

Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione".

Evidenziamo che in passato la Corte aveva affermato il contrario: ciò che affascina nelle sentenze è l'attitudine a supportare indifferentemente una verità e anche quella opposta.

Insomma, c'è speranza per tutti, ma bisogna almeno provarci.

Dario Meneguzzo

Cass. civ. sez. II 03 agosto 2012 n. 14107

Il Consiglio di Stato individua i casi nei quali non serve la comunicazione di avvio del procedimento

21 Set 2012
21 Settembre 2012

Nella sentenza n. 4925 del 2012 il Consiglio di Stato specifica quali sono i casi nei quali la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 241 del 1990 è superflua.

Dice il Consiglio di Stato: "Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici).”. (Consiglio Stato , sez. IV, 30 settembre 2002, n. 5003)".

Per una migliore comprensione della questione, riportiamo l'intero passo che tratta l'argomento: "L’incombente di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990, nel caso di specie, lungi dallo svolgere la garantistica funzione prevista ex lege avrebbe avuto, unicamente, l’effetto di dilatare vieppiù i tempi di definizione del procedimento: uno strumentale abuso della garanzia procedimentale priva di ogni rispondenza al concreto interesse della parte.
2.1. Si osserva al riguardo che la necessità della comunicazione dell’avvio del procedimento ai destinatari dell’atto finale è stata prevista in generale dal menzionato art. 7 non soltanto per i procedimenti complessi che si articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed integrativa dell’efficacia), ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono direttamente con l’adozione dell’atto finale, i quali comunque comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che il legislatore stesso (art 7, 1° comma, ed art. 13 L. 241/90) si è premurato di apportare delle specifiche deroghe ( speciali esigenze di celerità,, atti normativi, atti generali, atti di pianificazione e di programmazione, procedimenti tributari) all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, con la conseguenza che negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non avrebbe potuto essere diverso anche se fosse stata osservata la relativa formalità ( cfr. CdS, sez. V n.2823 del 22.5.2001 e n. 516 del 4.2.2003; sez. VI n.686 del 7.2.2002).
Ha dato luogo a contrasti, in dottrina ed in giurisprudenza, la risposta al quesito relativo alla possibilità che la fase procedimentale indicata possa essere omessa o compressa per il fatto che si sia in presenza di provvedimento a contenuto vincolato.
Deve rilevarsi in proposito che parte della giurisprudenza ha affermato la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio del procedimento anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (cfr. CdS sez. VI 20.4.2000 n. 2443; CdS 2953/2004; 2307/2004 e
396/2004). Secondo tale tesi, invero, non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria.
In definitiva, quello che rileva è la complessità dell’accertamento da effettuare (V. CdS, sez. VI n.686 del 7.2.2002).
Secondo altra prospettazione, invece, “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua - con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa - quando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti. In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere - in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento - l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione. Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici).”. (Consiglio Stato , sez. IV, 30 settembre 2002, n. 5003)
Tale orientamento da ultimo esposto appare al Collegio condivisibile, in quanto rispettoso delle garanzie procedimentali avulse da meccanicistiche applicazioni a natura essenzialmente formalistica.
Sotto altro profilo, conforto a tale interpretazione si rinviene in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21 octies legge 15/2005, specificamente riferita alla violazione procedimentale dell’articolo 7, ed applicabile tanto alla ipotesi di atto vincolato che a quella di atto discrezionale: la novella legislativa ha previsto che l’amministrazione può dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato , così superando la censura di carattere formale (per una recente ricostruzione del sistema alla luce della “novella”, si veda Consiglio Stato , sez. VI, 07 gennaio 2008, n. 19).
Essa è applicabile in astratto ratione temporis anche alle controversie pendenti stante la natura processuale della norma (
L'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, il quale stabilisce che il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato, costituisce disposizione di carattere processuale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della l. n. 15 del 2005. L'orientamento in questione poggia sistematicamente sull'evidente ratio della disposizione da ultimo richiamata, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione. (Consiglio Stato , sez. VI, 18 febbraio 2011 , n. 1040).
Orbene: se si pone mente alla circostanza che nessuna contestazione in punto di fatto è stata avanzata dall’appellante in ordine al mancato versamento degli oneri di urbanizzazione, e che le altre censure – come si è prima chiarito - si incentravano su circostanze di natura giuridica e confutavano – peraltro assai genericamente- una interpretazione di disposizioni di legge effettuata dall’Amministrazione e ben nota all’appellante anche in virtù del precedente contenzioso intercorso tra le parti, appare evidente che l’omissione dell’avviso non ha arrecato alcun vulnus né alla posizione dell’appellante, né tampoco all’azione amministrativa.
2.2. Nel caso di specie la superfluità dell’incombente non dipende (soltanto) dalla natura dell’atto di determinazione degli oneri inosservato, ed è superfluo immorare – come confusoriamente è dato riscontrare nell’atto di appello- sulla natura paritetica od autoritativa dello stesso.
La concreta situazione infraprocedimentale, il reiterato inadempimento dell’appellante, il pregresso contenzioso, sovrapponibile nei contenuti, rendeva la stessa pacificamente edotta delle conseguenze della propria omissione".

sentenza CDS 4925 del 2012

In Italia il riconoscimento delle unioni civili viene spinto dai comuni

20 Set 2012
20 Settembre 2012

Pubblichiamo la deliberazione consiliare n. 30 del 26 luglio 2012 del Comune di Milano, con la quale è stato approvato il regolamento per il riconoscimento delle unioni civili, eterosessuali o omosessuali.

Sembra, dunque, che in Italia siano i comuni a spingere sul tema del riconoscimento dei diritti civili.

L'articolo 3 del regolamento disciplina il rilascio dell'attestato di unione civile basata su vincoli affettivi.

Segnaliamo i commi 2 e 3 dell'articolo 2

“2. Il Comune provvede, attraverso singoli atti e disposizioni degli Assessorati e degli Uffici competenti, a tutelare e sostenere le unioni civili, al fine di superare situazioni di discriminazione e favorirne l'integrazione e lo sviluppo nel contesto sociale, culturale ed economico del territorio.
3. Le aree tematiche entro le quali gli interventi sono da considerarsi prioritari sono:
a) casa;
b) sanità e servizi sociali;
c) giovani, genitori e anziani;
d) sport e tempo libero;
e) formazione, scuola e servizi educativi;
f) diritti e partecipazione;
g) trasporti.
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