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Obbligo di astensione e votazione dello strumento urbanistico per parti separate

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1816 del 2014, riguardante il comune veneto di Arcade.

Si legge nella sentenza: "Nei Comuni di piccole dimensioni, qual è senza dubbio il Comune di Arcade, è legittimo che la votazione dello strumento urbanistico generale sia svolta per parti separate, in modo tale da assicurare il rispetto dell'obbligo di astensione dei consiglieri volta a volta potenzialmente interessati, in via diretta o indiretta, alla disciplina urbanistica di ciascuna zona nella quale essi stessi o loro prossimi congiunti siano titolari di diritti reali. Tale modalità procedimentale non è esclusa né vietata da alcuna disposizione normativa, e non collide con l'esigenza di una finale votazione unitaria sullo strumento urbanistico, nella quale, essendo già intervenuta quella per "settori", atta ad assicurare il formale rispetto dell'obbligo di astensione, il consigliere in potenziale conflitto non è più in grado di influire sulle specifiche scelte di assetto territoriale rispetto alle quali sia in astratta posizione d'interferenza. D'altro canto, tale meccanismo è l'unico in grado di assicurare, ad un tempo, l'osservanza dell'obbligo di astensione e l'esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica in capo all'organo comunale cui essi competono e, quindi, il rispetto del principio di democraticità rappresentativa, laddove, altrimenti, proprio le scelte espressive della pianificazione territoriale più significative e incisive sulla vita della comunità locale dovrebbero essere demandate ad un organo straordinario non elettivo ed estraneo alla comunità, quale il commissario ad acta". 

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1816 del 2014

 

Non si può impugnare la comunicazione di avvio del procedimento

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 17 aprile 2014 n. 523, conferma che la comunicazione di avvio del procedimento, essendo un atto endoprocedimentale, non può essere autonomamente impugnata: “Il ricorso è inammissibile.

Infatti l’assunto della parte ricorrente, secondo il quale l’atto impugnato ha un contenuto provvedimentale, non può essere condivisa.

L’atto impugnato costituisce una mera comunicazione di avvio del procedimento della quale possiede tutti gli elementi formali e sostanziali (il nomen iuris, l’indicazione dell’autorità emanante, dell’oggetto del procedimento, dell’ufficio competente, del responsabile del procedimento, delle conseguenze del medesimo, nonchè del luogo dove è possibile prendere visione degli atti e dei documenti relativi al procedimento).

La circostanza che l’atto contenga anche l’invito a procedere allo sgombero entro il termine di sessanta giorni, non vale di per sé a conferire valenza provvedimentale all’atto, dato che, come sostiene il Comune nelle proprie difese, nel contesto complessivo a tale espressione deve essere riconosciuta la valenza di una mera richiesta ad uno spontaneo adempimento, priva di valore cogente, come si evince dalla circostanza che l’Amministrazione non ha fatto seguire la scadenza del termine da alcuna ulteriore attività provvedi mentale.

Pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse in quanto l’atto impugnato, in base ad una corretta qualificazione che tenga conto del suo effettivo contenuto e di quanto dispone, nonché delle caratteristiche che presenta nella sua concreta attuazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 19 novembre 2012, n. 5848; Tar Lazio, Latina, Sez. I, 22 ottobre 2012, n. 791; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 8828), deve essere qualificato come una comunicazione di avvio del procedimento che ha carattere endoprocedimentale ed è priva di autonoma capacità lesiva”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 523 del 2014

Il TAR Veneto ha ormai una giurisprudenza costante in materia di oneri specifici

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 18 aprile 2014 n. 536, conferma il suo costante orientamento in materia di oneri specifici: “Ritiene il Collegio che la riforma introdotta dal d.l. n. 70/2011 ha, in buona sostanza, riscritto l’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, concependo un nuovo modello procedimentale in cui le disposizioni della lex specialis, di fonte provvedi mentale e le norme giuridiche primarie e secondarie, devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare.

In altri termini la voluntas legis assume, così, una efficacia precettiva immediata, disancorata da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di alterazione delle norme che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa.

Si è, pertanto, superata ed invertita la precedente logica di etero integrazione della legge di gara, perché il procedimento è presidiato cogenti norme giuridiche, rispetto alle quali le determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza possano, in alcun modo, limitare l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi.

L’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 stabilisce che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222.

Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

L’impresa partecipante, pertanto, in sede di offerta ha l’obbligo, non solo di indicare tali oneri di sicurezza, ma deve rappresentarli in modo specifico e puntuale.

Tale adempimento non è stato assolto dalla società resistente.

La rilevata omissione comporta, conseguentemente, la sanzione espulsiva del concorrente,

Non a caso la lettera della norma prevede un formale “dovere” di specifica indicazione dei costi della sicurezza proprio per non posticipare tale riferimento alla fase di verifica dell’anomalia, atteso l’interesse prioritario e preminente del legislatore nella tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Non solo.

Una successivo accertamento della riferita indicazione al momento della verifica della anomalia potrebbe addirittura significare una elusione della previsione normativa, perché si tratta di un subprocedimento non sempre presente nella dinamica del procedimento di gara.

E’ evidente, poi, che la specificazione, nell’offerta, del costo della sicurezza come elemento costitutivo della stessa consente di configurare la proposta contrattuale seria, proprio perché prevede una preventiva valutazione di tutti gli oneri economici ricadenti nell’ambito del rapporto di convenienza e sostenibilità tecnico-economica dell’impegno contrattale che si va ad assumere.

L’art. 86, III comma bis e l’art. 26, VI comma del DLgs n. 81/2008 dispongono, con identica formulazione, che “gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente….al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”, la cui lettura congiunta con l’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006, consente di affermare, proprio in relazione al chiaro dato letterale, che le complesse disposizioni si riferiscono e coinvolgono ogni tipo di appalto.

Questo Tribunale è dell’opinione, costantemente ribadita nella sua giurisprudenza (cfr., da ultimo, sez. I, 10.12.2013 n. 1388, 8.8.2013 n. 1050 e 299/2014), che le imprese partecipanti ad una gara d’appalto, sia essa di servizi, di forniture o di lavori, devono necessariamente includere nell’offerta, in modo analitico, così da consentire l’esatta valutazione della congruità dell’offerta stessa, oltre agli oneri di sicurezza da interferenza, indipendentemente dalla indicazione contenuta nel DURVI, anche gli importi relativi agli oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali), la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica (Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014 n. 348).

Tali importi devono essere puntualmente e specificatamente indicati al momento dell’offerta in modo tale da non ingenerare confusione ovvero possibili contrasti interpretativi.

Non solo.

Conforta tale opzione ermeneutica anche l’orientamento al riguardo assunto dall’AVCP, secondo cui “la mancata indicazione preventiva dei costi per la sicurezza rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente pregnante, alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla pubblica amministrazione un adeguato controllo sulla affidabilità della stessa: in altri termini, l’offerta economica priva dell’indicazione degli oneri di sicurezza manca di un elemento essenziale e costitutivo, con conseguente applicazione della sanzione dell’esclusione dalla gara anche in assenza di una specifica previsione in seno alla lex specialis, attesa la natura immediatamente precettiva della disciplina contenuta nelle norme citate, idonea ad eterointegrare le regole procedurali” (cfr. il parere 9/05/2013 n.77).

Pertanto, gli oneri di sicurezza costituiscono un elemento essenziale dell’offerta, sicchè la loro omessa indicazione deve ritenersi afferente e parte integrante l’elenco delle cause specifiche di esclusione previste dall’art. 46, I comma bis del Dlgs 163/2006.

Né tale omissione potrebbe comportare un ipoteco potere di soccorso della stazione appaltante, in quanto tale ulteriore fase presuppone, in ogni caso, che l’offerta economica sia completa nei suoi elementi essenziali (elementi tra i quali vanno appunto annoverati, come si è detto, i costi relativi alla sicurezza).

Anche perché, se si consentisse tale postuma integrazione, si ammetterebbe, all’evidenza, un'offerta originariamente incompleta, lesiva della par condicio tra i concorrenti (cfr. Cons. di St., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348 cit.).

Ciò è confermato anche dalla recente giurisprudenza, secondo cui “nelle gare pubbliche, considerata la differenza che intercorre fra tra gli oneri di sicurezza per le cc.dd. interferenzee (che sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell'ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto) e gli oneri di sicurezza da rischio specifico o aziendale (la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta), l'omessa indicazione specifica nell'offerta sia dell'una che dell'altra categoria di costi giustifica la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell'offerta e venendo, quindi, a mancare un elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (Adunanza Plenaria 25 febbraio 2014 n. 9; Consiglio di Stato III Sezione 23 gennaio 2014 n.348; Consiglio di Stato III Sezione 3 luglio 2013 n.3565).

Pertanto ed in considerazioni delle suesposte motivazioni il ricorso è fondato e va accolto, in quanto l’aggiudicataria non ha indicato in modo chiaro ed univoco gli oneri per la sicurezza da rischio specifico, mentre ha del tutto omesso quelli da interferenza, con conseguente annullamento degli atti impugnati e risarcimento del danno in forma specifica, in favore della ricorrente, mediante subentro nell’aggiudicazione della gara”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 536 del 2014

L’interesse che giustifica l’accesso agli atti va esaminato caso per caso in concreto e non è collegato solo alla tutela giurisdizionale

24 Apr 2014
24 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1768 del 2014.

Si legge nella sentenza: "rammenta il Collegio che condivisibile giurisprudenza ha già da tempo sganciato il diritto di accesso dalla ristretta nozione di mezzo al fine di esercitare una azione giurisdizionale ed è pervenuta all’affermazione per cui “è sempre consentito l'accesso a documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridicamente tutelati, e la posizione giuridica della ricorrente è riconosciuta come diritto soggettivo a un'informazione qualificata, a fronte del quale l'Amministrazione pone in essere un'attività materiale vincolata, essendo sufficiente che l'istanza di accesso sia sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all'istante da uno specifico nesso” (cfr.: Cons. Stato VI, 19.1.2010 n. 189; T.A.R. Lombarda Brescia II, 11.6.2010 n. 2310); Se è vero che l'accesso non può tradursi in uno strumento surrettizio di sindacato generalizzato sull'azione delle amministrazioni, la multiforme finalità dello stesso non può che dipendere (anche) dalla posizione soggettiva del soggetto che lo aziona e dai compiti e funzioni che lo stesso è chiamato a svolgere nel sistema. Ed è giurisprudenza consolidata (ex aliis T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, 14-03-2011, n. 2260) quella per cui il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell'associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza.”. Il diritto di accesso, quindi, si modula e struttura in forma che può essere differente in relazione alla posizione soggettiva di chi lo vuol fare valere: non si nega ovviamente che la finalizzazione del medesimo verso una iniziativa di natura giurisdizionale possa costituire la evenienza statistica maggiomente verificabile.  Si vuol dire soltanto che, mentre per talune posizioni sostanziali che l’accesso “giustificherebbero” e legittimerebbero, questa potrebbe anche essere l’unica ragione giustificativa ammissibile, in altri casi così non è: il proprietario che vuol conoscere dettagli su una pubblica opera progettata sul fondo limitrofo, vanta una posizione legittimante che sottende un possibile interesse oppositivo. Ove si attivi a distanza di molti anni dall’inizio dei lavori, essendo impossibile la possibilità di esercitare un’azione giurisdizionale, non è arbitrario affermare che, egli non vantando altra “causale” legittimante, l’esercizio dell’accesso si risolverebbe in una mera curiosità non tutelata dall’ordinamento. Non così potrebbe dirsi, però, laddove invece costui paventasse pericoli per la salute a cagione dell’attività che attraverso detta opera si sarebbe dovuta intraprendere: in un simile caso la sua conoscenza potrebbe essere finalizzata alle più varie ragioni (esercitare un’azione inibitoria; risolversi ad alienare il fondo, etc) e potrebbe pertanto pervenirsi a soluzioni diametralmente opposte.

4. Avendo quale punto di partenza detta relatività e la dipendenza di  quest’ultima dalla posizione (anche ordinamentale) del richiedente, è sufficiente interrogarsi in ordine alla natura dell’ente comunale che tale richiesta ha proposto ed alle funzioni allo stesso spettanti, per pervenire a conclusioni in linea con quelle raggiunte dal Tar. Si evidenzia in proposito che sia le funzioni qualificate come "fondamentali" (la cui elencazione è contenuta nell'art. 14, comma 27, del D.L. n. 78/2010, come modificato dall'art. 19 del D.L. n. 95/2012 e dall'art. 1, comma 305, della legge n. 228/2012), sia le funzioni amministrative radicate nell'art. 118 della Cost. e, a livello di legislazione  ordinaria, negli artt. 3 e 13 del D.Lgs. n. 267/2000 (Tuel) danno agevolmente conto di tale affermazione. Stabilisce il detto comma 27 che, “ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; (185) g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;  i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica . Il combinato disposto degli artt. 3 (“ Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome. Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo. La provincia, ente locale intermedio tra comune e regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo. I comuni e le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell'ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.”) e 13 (“Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.  Il comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri comuni e con la provincia”) del Tuel concorre, poi, a comporre detto quadro organico. Solo per incidens, si ricorda peraltro che l’art. 43 del predetto d.Lgs n. 267/2000 prevede una forma “speciale” di accesso da parte del Consigliere comunale (e provinciale), che qualificata giurisprudenza (T.A.R. Emilia-Romagna Bologna Sez. II, 04-12-2006, n. 3107) ha interpretato nella massima ampiezza, ricollegandolo alla funzione “esponenziale” da questi esercitata: “In tema di diritto di accesso agli atti da parte di consiglieri comunali (o provinciali) l'orientamento giurisprudenziale è consolidato nel senso di riconoscerne il fondamento nell'art. 43 comma 2 del T.U. n. 267/2000 e di qualificarlo come espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, direttamente funzionale non tanto a un interesse personale del consigliere medesimo, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito; in tale quadro i consiglieri comunali e provinciali risultano titolari di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità per l'espletamento del loro mandato e in ciò il diritto di accesso riconosciuto ai rappresentanti del corpo elettorale locale ha una ratio diversa e più ampia di quella che contraddistingue il diritto di accesso riconosciuto a tutti i cittadini dal medesimo T.U.E.L. (art. 10), nonché dagli artt. 22 ss. della L. n. 241/1990; per cui da un lato il consigliere può accedere non solo ai "documenti" ma, in genere, a qualsiasi "notizia" o " informazione " utili all'esercizio delle funzioni consiliari,  ma non è neppure tenuto a motivare la sua richiesta, né l' ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, perché altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire l'ambito del controllo consiliare sul proprio operato; ed è per questo, infine, che il diritto in questione non incontra neppure limiti derivanti dalla natura riservata agli atti richiesti, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto”.

4. Elementari ragioni di coerenza sistematica (oltreché il dettato espresso degli artt. 13 e 3 del Tuel) impediscono, ovviamente, anche
soltanto di ipotizzare che la funzione “esponenziale” propria del singolo consigliere comunale non componga, come parte del tutto, quella a propria volta esercitata dall’Ente rispetto alla comunità dei cittadini dallo stesso amministrata.

4.1. Ma se così è, non può negarsi che tra i poteri/doveri del Comune rientri anche quello di fornire dettagliata informazione ai propri
amministrati delle attività destinate a svolgersi sul proprio territorio; che tale potestà sussiste e prescinde dalla possibile futura intrapresa di azioni giurisdizionali; che anche indipendentemente dalla detta esigenza, il comune ha, a tacer d’altro, il diritto di conoscere in che modo si andrà in concreto a strutturare un’attività in corso di svolgimento sul proprio territorio, al fine di potere organizzare e modulare, rispetto a quest’ultima, le attività proprie (quali, esemplificativamente: il potenziamento della raccolta di rifiuti in un dato sito, la organizzazione di misure per l’eventuale snellimento del traffico di automezzi funzionale alla esecuzione dei lavori che verrebbe a crearsi in una data zona, etc). 

5. Per altro verso, e quanto alle ulteriori critiche appellatorie riposanti nella “terzietà” dell’amministrazione comunale appellata rispetto agli atti (ad es: il contratto di affidamento a contraente generale stipulato tra SAT e SAT Lavori in data 30 marzo 2012), più direttamente disciplinanti il quomodo di effettuazione delle attività, rammenta il Collegio che già da tempo risalente la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare la insussistenza di alcun argomento preclusivo alla ammissibilità dell’accesso avverso simile od assimilabile documentazione.

5.1. Si fa presente, in proposito, che, muovendo in passato dal consolidato approdo secondo il quale la disciplina legale della
estensibilità dei documenti amministrativi pone anzitutto, sul piano oggettivo, un rapporto di regola/eccezione, nel senso che la regola è  data dall'accesso, mentre le specifiche eccezioni, analiticamente indicate, costituiscono ipotesi derogatorie (la cui comune ratio è data dall'essere le stesse preordinate alla protezione di dati riservati in possesso dell'amministrazione, capaci, se divulgati, di recare pregiudizio alla tutela di interessi superindividual, ovvero alla protezione della riservatezza di soggetti terzi), il Consiglio di Stato ha affermato che “la ditta subappaltatrice dell'impresa titolare di un contratto di appalto di opere pubbliche (nella specie, lavori di ristrutturazione del centro storico di un  comune), ha diritto di accesso, ai sensi dell'art. 22 l. 7 agosto 1990 n. 241, alla copia del registro di contabilità, trattandosi di documentazione che, pure se afferente a rapporti interni tra Stazione appaltante e appaltatore, e quindi formalmente privatistica, cionondimeno attiene al contratto e all' esecuzione dei lavori, e quindi ad un ambito di rilevanza  pubblicistica, giacché attraverso l' esecuzione delle opere, l'amministrazione mira essenzialmente a perseguire le proprie finalità istituzionali” (Cons. Stato Sez. V, 08-06-2000, n. 3253). Sulla stessa linea di tendenza si è collocata la giurisprudenza di merito (ex aliis T.A.R. Sicilia Palermo Sez. I, 18-01-2011, n. 68; T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, 11-02-2010, n. 373; T.A.R. Lombardia Milano, Sez. I, 08 febbraio 2007 n. 209). Se quindi, può affermarsi che, in via generale, in base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss. L n. 241/90, il diritto di accesso può esercitarsi anche rispetto a documenti di natura privatistica (tale opinamento risulta in linea con quanto in passato affermato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, 22 aprile 1999, n. 4, dove si è ritenuto che, “ai sensi del citato art. 22 sono soggette all'accesso tutte le tipologie di attività delle pubbliche amministrazioni e, quindi, anche gli atti disciplinati dal diritto privato, atteso che essi rientrano nell'attività di amministrazione in senso stretto degli interessi della collettività e che la legge non ha introdotto alcuna deroga alla generale operatività dei principi della trasparenza e dell'imparzialità e non ha garantito alcuna "zona franca" nei confronti dell'attività disciplinata dal diritto privato”), purché concernenti attività di pubblico interesse, la risposta che in passato la giurisprudenza ha specificamente fornito è quella per cui tale sia l’attività esecutiva di un appalto. D’altro canto, l'attività amministrativa, soggetta all'applicazione dei principi di imparzialità e di buon andamento, è configurabile non solo quando l'Amministrazione esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa persegue le proprie finalità  istituzionali e provvede alla cura concreta di pubblici interessi mediante un'attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra privati (cfr. 6 dicembre 1999, n. 2046; vedi anche A.P. n. 4/99 cit.). Con decisione della Sezione IV, che il Collegio condivide, è stato, inoltre, ritenuto che il diritto di accesso agli atti amministrativi previsti dalla legge n. 241/1990 si estende anche alla relazione riservata del collaudatore dei lavori pubblici appaltati dall'Amministrazione, prevista  nell'art.100 del R.D. 25 maggio 1895, n. 350 (27 aprile 1999, n. 743)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1768 del 2014

La Corte Costituzionale sul contenimento della fauna selvatica nei territori preclusi alla attività venatoria nella Regione Veneto

24 Apr 2014
24 Aprile 2014

Con la Sentenza n. 107 del 18 aprile 2014, la Corte Costituzione ha affrontato le questioni di legittimità sollevate dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito ai metodi ecologici di carattere selettivo per il controllo della fauna selvatica nelle zone vietate alla caccia nella Regione Veneto e, ove accertata la loro inefficacia, ai relativi piani di abbattimento.

Nello caso specifico, censurato dal Ricorrente Presidente del Consiglio dei Ministri è “anzitutto, l’art. 2, comma 1, della legge regionale n. 6 del 2013, perché, in difformità dall’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, non stabilisce che l’inefficacia dei metodi ecologici volti al controllo della fauna debba essere accertata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, prima che si possa procedere con il più invasivo strumento dei piani di abbattimento. L’art. 2, comma 2, della medesima legge regionale, conferisce al Presidente della Giunta regionale un potere sostitutivo, nei confronti degli enti titolari delle funzioni di gestione faunistica, chiamati ad attuare gli interventi di contenimento della fauna. Il ricorrente sostiene che, in tal modo, la legge impugnata ha ampliato le ipotesi di piani di abbattimento, anche con riguardo alle aree naturali protette nazionali e regionali, rispetto alle quali l’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, e gli artt. 11, comma 3, lettera a), e 22, comma 6, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), disciplinerebbero una procedura speciale per l’abbattimento selettivo. Infine, l’art. 2, comma 3, della legge impugnata, abilita all’esecuzione dei piani di abbattimento non solo le persone indicate dall’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, ma anche i cacciatori residenti negli ambiti territoriali di caccia”.

La Corte ha stabilito che la questione di illegittimità in merito all’art.2 comma 1, non è fondata in quanto “la censura dell’Avvocatura erariale si basa su un erroneo presupposto interpretativo, posto che nella Regione Veneto è tuttora in vigore l’art. 17, comma 2, della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio). Tale disposizione specifica che, nell’ambito del controllo della fauna selvatica, la Provincia può autorizzare i piani di abbattimento solo se l’Istituto nazionale per la fauna selvatica ha prima verificato l’inefficacia dei metodi ecologici. È perciò chiaro che l’art. 2, comma 1, impugnato, regola la fattispecie unitamente all’art. 17, comma 2, della legge regionale n. 50 del 1993, e dunque, quanto ai poteri dell’ISPRA, in termini del tutto analoghi a quelli dell’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, invocato dalla parte ricorrente”.

In merito all’art. 2 comma 2, il ricorrente sostiene che in tal modo la Regione Veneto ha ampliato le ipotesi di piani di abbattimento nelle aree naturali protette nazionali e regionali, in contrasto con i divieti espressi dall’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, e dagli artt. 11, comma 3, lettera a), e 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991, ma ciò non è fondato secondo la Corte. Anche in questo caso, infatti, il ricorso appare infondato perchè “muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la norma impugnata estenda, per mezzo del potere sostitutivo, i casi in cui la legislazione permette la caccia al fine di controllare la fauna selvatica. È invece evidente che la sostituzione dell’ente inadempiente potrà venire disposta al solo fine di esercitare una funzione che a quest’ultimo è già attribuita dalla legge, e nel rispetto delle prescrizioni stabilite da quest’ultima. Non è, perciò, ravvisabile alcun margine di contrasto, anche solo potenziale, rispetto ai divieti menzionati dalla difesa erariale.Né la disposizione impugnata consente di ipotizzare, come sembra paventare il ricorrente, che il potere sostitutivo possa venire esercitato rispetto ad ambiti riservati alla competenza dello Stato (sentenza n. 67 del 2013), dato che esso ha espressamente per oggetto gli atti relativi all’attuazione della legge regionale n. 6 del 2013, ovvero un insieme di funzioni imputabili al sistema regionale in ragione dello stesso art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992.”

All’art. 2 comma 3, vengono individuate le persone idonee ad eseguire gli interventi di contenimento della fauna selvatica, aggiungendo all’elenco contenuto nell’art. 17 della legge regionale n. 50 del 1993, anche i cacciatori residenti nei relativi ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini, abilitati ai sensi dell’art. 15 della legge regionale n. 50 del 1993. La Corte Costituzionale ha dichiarato fondata la censura mossa dal ricorrente, ove si evidenzia il contrasto di quest’ultima previsione con l’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, a norma del quale i piani di abbattimento devono essere attuati esclusivamente dalle guardie venatorie provinciali, dai proprietari e conduttori dei fondi e dalle guardie forestali e comunali.

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge della Regione Veneto 23 aprile 2013, n. 6 (Iniziative per la gestione della fauna selvatica nel territorio regionale precluso all’esercizio della attività venatoria), limitatamente alle parole «e i cacciatori residenti nei relativi ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini e abilitati ai sensi dell’articolo 15 della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50», ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto n. 6 del 2013, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

dott.sa Giada Scuccato

La decadenza del permesso di costruire è incompatibile con la sua proroga

24 Apr 2014
24 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 28 marzo 2014 n. 399 conferma che l’istanza di proroga di un permesso di costruire è incompatibile con la dichiarazione di decadenza dello stesso emessa dal Comune: “I due citati procedimenti, di richiesta di proroga e di dichiarazione di decadenza, sono, sicuramente connessi tra loro ed è evidente che la formale dichiarazione di decadenza del permesso di costruire dichiarata in data 18.12.2013 è incompatibile con l’accoglimento della richiesta di proroga della data per l’inizio dei lavori. L’intervenuta dichiarazione di decadenza esclude implicitamente la violazione da parte dell'Amministrazione dell'obbligo di provvedere ai sensi dell'art. 2 della L. n. 241/1990, in relazione all'istanza di proroga del termine per l'inizio lavori perché è evidente che, in presenza di circostanze che l’amministrazione riteneva dimostrative dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire, la stessa non poteva ritenersi tenuta a provvedere in ordine all’istanza di proroga. La proroga, infatti , non è un diritto del richiedente ed implica sempre una valutazione discrezionale dell’autorità comunale in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 15 d.lgs 380/01 ed al loro apprezzamento ed è, ovviamente, aprioristicamente esclusa dalla già intervenuta decadenza del titolo per essere stata proposta dopo il decorso dell’anno.

Dato che il presente ricorso ha ad oggetto il supposto inadempimento rispetto all’obbligo di provvedere sull’istanza di proroga è quindi evidente che si deve concludere per il rigetto dello stesso, essendo evidente, come già accennato, che il fatto stesso che l’amministrazione avesse già ritenuto e preannunciato di dover dichiarare l’intervenuta decadenza del titolo edilizio escludeva di per sé qualunque obbligo di provvedere sull’istanza di proroga”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 399 del 2014

Per la Corte dei Conti sezione Autonomie il compenso incentivante è dovuto solo se la pianificazione è strettamente connessa alla realizzazione di un’opera pubblica

23 Apr 2014
23 Aprile 2014

Pubblichiamo la pronuncia di orientamento generale della Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 6/2014 del 21 gennaio 2014, in merito alla corretta interpretazione delle disposizione  contenute nel comma 6 dell'articolo 92 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ed, in particolare, della definizione ivi riportata "atto di pianificazione comunque denominato".

Scrive la Corte: "Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio".

geom. Daniele Iselle

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La giurisdizione del giudice amministrativo in materia di silenzio sulla stipulazione di contratti di vendita di beni pubblici a seguito di aggiudicazione

23 Apr 2014
23 Aprile 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 1781 del 2014.

Il caso riguarda la mancata stipulazione del contratto di compravendita di immobili aggiudicati all'asta.

Il TAR Liguria, con la sentenza n. 5500 del 2013, aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione perché “la posizione giuridica fatta valere dalla società ricorrente ha consistenza di diritto soggettivo, più specificamente trattandosi di pretesa volta alla stipula di contratto di compravendita fondata su pregressa procedura amministrativa, tuttavia definita proprio con l’aggiudicazione del citato lotto n. 94 alla odierna ricorrente”. “È essenziale che il silenzio rifiuto riguardi l’esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come interesse legittimo, con la conseguenza che il detto ricorso è inammissibile allorché, come nella specie, la posizione giuridica azionata dal ricorrente consiste in un diritto soggettivo”.

Il Consiglio di Stato, però, è di parere opposto: "4.1.. Il ricorso in appello è fondato alla luce della giurisprudenza richiamata dalla medesima società ricorrente. 6, n. 308), in vicenda analoga a quella in trattazione, ha ritenuto che: “La controversia in esame resterebbe validamente radicata davanti al giudice adito se ed in quanto possa intendersi riferita alla giurisdizione generale di legittimità, agevolmente riconoscibile nell’esercizio della funzione della contrattazione della pubblica amministrazione con i privati, dalla quale esulano i soli atti o comportamenti, relativi alla fase propriamente esecutiva del rapporto generato dalla stipula del contratto (fase peraltro non configurabile ontologicamente nella materia delle dismissioni di beni pubblici,

posto che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o dell’impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di rivendita, che produce i relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà e che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore segmento del rapporto da sottrarre alla cognizione del giudice amministrativo)”.

4.2. La Corte di cassazione (SS.UU. 12 marzo 2007, n. 5593) ha affermato che: “Rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie riguardanti le procedure di «rivendita» di beni pubblici previste dall’art. 3 d.l. n. 351 del 2001 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare), conv. con modif. nella l. n. 410 del 2001, nell’ambito del procedimento di cartolarizzazione degli immobili pubblici”.

4.3. E più di recente (Cass. SS.UU. 11 gennaio 2011, n. 391) è stato statuito che: “Nelle procedure connotate da concorsualità aventi ad oggetto la conclusione di contratti da parte della p.a. spetta al giudice amministrativo la  cognizione dei comportamenti ed atti assunti prima dell'aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto”.

4.4. Alla luce di tali concordi orientamenti giurisprudenziali anche la stipulazione del contratto rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. 

5. Il ricorso va quindi accolto e, per l’effetto, ai sensi dell’art. 105, comma 1, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, la causa va rimessa al giudice di primo grado rientrando la controversia in esame nella giurisdizione del giudice amministrativo".

Dario Meneguzzo- avvocato

sentenza CDS 1781 del 2014

 

Il Comune può scegliere discrezionalmente come attuare le previsioni di P.R.G.

23 Apr 2014
23 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 27 marzo 2014 n. 391 stabilisce che il Comune può scegliere discrezionalmente come attuare le previsioni del Piano Regolatore Generale: “Deve, infine, essere rigettata la quarta e ultima doglianza con cui si contesta la decisione di acquisire il terreno di proprietà della ricorrente mediante l’espletamento dell’impugnata procedura ablativa, abbandonando al contempo all’attuazione del piano di recupero originariamente previsto, atteso che la scelta da parte dell’amministrazione comunale di optare tra i vari mezzi a disposizione ai fini dell’attuazione delle previsioni del piano regolatore generale è valutazione di merito che, in quanto caratterizzata da ampi profili di discrezionalità, sfugge al sindacato di legittimità proprio del giudice amministrativo, eccetto che nei casi di manifesta illogicità, irragionevolezza o travisamento dei fatti (cfr., ex plurimis, T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 2.11.2001, n. 4825), i quali, tuttavia, non si rinvengono nella fattispecie in esame, avendo l’intimata amministrazione dato puntuale riscontro delle ragioni sottese a tale scelta, come risulta dalla nota prot. p.g.n. 101213 dd.06.03.2012 dimessa agli atti di causa”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 391 del 2014

Gli accordi ex art. 6 L. R. Veneto n. 11/2004 rientrano negli accordi integrativi ex art. 11 della L. n. 241/1990

23 Apr 2014
23 Aprile 2014

Nella sentenza del TAR Veneto del 28 marzo 2014 n. 419, con riferimento all’accordo ex art. 6 L. R. Veneto n. 11/2004 secondo cui: “1. I comuni, le province e la Regione, nei limiti delle competenze di cui alla presente legge, possono concludere accordi con soggetti privati per assumere nella pianificazione proposte di progetti ed iniziative di rilevante interesse pubblico.

2. Gli accordi di cui al comma 1 sono finalizzati alla determinazione di alcune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale ed urbanistica, nel rispetto della legislazione e della pianificazione sovraordinata, senza pregiudizio dei diritti dei terzi.

3. L’accordo costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede ed è soggetto alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione. L’accordo è recepito con il provvedimento di adozione dello strumento di pianificazione ed è condizionato alla conferma delle sue previsioni nel piano approvato.

4. Per quanto non disciplinato dalla presente legge, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 11, commi 2 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” e successive modificazioni”, si legge che lo stesso è attratto nella categoria degli accordi integrativi ex art. 11 della L. n. 241/1990: “2.1. L’accordo in questione ha natura di accordo procedimentale, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990 richiamato dal comma 4 dell’art. 6 della L.R. n. 11/2004, ed in particolare di accordo integrativo, essendo finalizzato alla determinazione delle previsioni discrezionali dell’atto di pianificazione urbanistica, ed inserendosi nella serie procedimentale di adozione e di approvazione di tale atto senza concluderla. Tale tipo di accordo, a differenza degli accordi sostitutivi, esaurisce la sua funzione nel momento in cui viene recepito dallo strumento pianificatorio, nella fattispecie dal P.A.T. e poi dal P.I. . Da tale momento in poi varrà la previsione (avente natura di indirizzo, di coordinamento, strategica o operativa) del P.A.T. e del P.I. recettiva e sostitutiva dell’accordo.

2.2. L’accordo procedimentale introdotto dall’art. 6 L.R. n. 11/2004 ha natura strumentale, essendo finalizzato infatti a garantire la condivisione e dunque la concreta attuabilità di alcune scelte urbanistiche, ma una volta che queste ultime sono state adottate con l’approvazione dell’atto di pianificazione e programmazione, per ciò che riguarda l’attuazione di tale scelte riprende vigore il potere discrezionale dell’amministrazione di pianificazione e di programmazione degli interventi attuativi. E tale fase di attuazione delle trasformazioni non è direttamente regolata dall’accordo ex art. 6 che invece ha esaurito la sua efficacia, viceversa saranno le previsioni programmatorie degli strumenti urbanistici generali ad indirizzarla”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 419 del 2014

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