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Documento preliminare per aggiornamento del Piano di gestione del distretto idrografico delle Alpi Orientali

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Il Segretario Generale dell'Autorità di bacino in data odierna pubblica sul sito internet il documento preliminare per aggiornamento del Piano di gestione del distretto idrografico delle Alpi Orientali.

Documento preliminare

La normativa in materia di terre e rocce da scavo

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, nella sentenza del 10 giugno 2014 n. 6187, si occupa di numerose questioni in materia di terre e rocce da scavo che verranno riportate nei seguenti post.

Le questioni, in particolare, vertono sul contenuto e sull’interpretazione del Decreto del Ministero dell’Ambiente del Territorio e del Mare del 10.08.2012 n. 161, con cui sono stati stabiliti i criteri qualitativi e quantitativi da soddisfare affinché i materiali da scavo possano essere utilizzati come sottoprodotti, sulla base delle condizioni previste dall’art. 184-bis del D. Lgs. n. 152/2006.

 Innanzitutto i Giudici si soffermano sulla disciplina delle terre e rocce da scavo succedutasi nel tempo: “Le terre e rocce da scavo – ovvero come è evincibile dalla stessa dizione letterale, provenienti da escavazione - in un primo tempo risultavano escluse dall’applicazione del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi) ai sensi dell’art. 10 della l. 93 del 2001, successivamente confermato dall’art. 1 commi 17, 18 e19, l. n. 443 del 2001 (c.d. legge Lunardi).

Con la legge comunitaria n. 306 del 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee) in modifica all’art. 1 della 443/01, erano definite le condizioni per tale esclusione delle terre e rocce da scavo dalla materia dei rifiuti; in particolare, prevedendosi a tal fine che il loro riutilizzo sia “certo ed autorizzato secondo le modalità previste dal progetto di VIA o, in mancanza, secondo le indicazioni date dalle competenti autorità amministrative”.

L’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti veniva in seguito regolamentata dall’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Lo stesso decreto d.lgs 4 del 2008 (correttivo del d.lgs 152/06), entrato in vigore il 13 febbraio 2008, consentiva di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati. La novella introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modificava il precedente testo normativo, in particolare introducendo gli artt. 184 bis e 184 ter al d.lgs. n. 152.

L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183 comma 1, lett. “qq”, infatti, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso.

L’art. 184 ter, d’altro canto, nel definire la cessazione della qualifica di rifiuto, stabilisce i termini da soddisfare affinché ciò accada, fissando il presupposto che il materiale sia stato sottoposto ad una operazione di recupero e abbia di conseguenza acquisito caratteristiche effettive di utilizzabilità e collocabilità sul mercato.

Il d.l. n 1 del 2012, convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 49 ha previsto l’emanazione entro 60 gg. del d.m. di armonizzazione della disciplina di riferimento, di cui si verte, con l’art. 184 bis sui sottoprodotti, con la contemporanea abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Il Regolamento è entrato in vigore il 6 ottobre 2012.

II - In primo luogo, dunque, risulta necessario definire l’ambito di applicazione del decreto impugnato, ad esito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 ed, in particolare, del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, al fine di delimitare l’oggetto della presente controversia.

In vero, l’art. 49, del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 disponeva che “….L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”.

In sede di conversione, la legge n. 27 del 2012, modificava detto articolo nei seguenti termini:

- “L'utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti [da adottarsi entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto].” (comma 1);

- “Il decreto di cui al comma precedente, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006”. (comma 1 bis);

- “All'articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, il primo periodo è sostituito dal seguente: "Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, è abrogato l'articolo 186”. (comma 1 ter);

L’art. 49, dunque, come sopra modificato, disponeva l’abrogazione dell’art. 186 del T.U. A., di cui all’art. 39, del d.lgs. 205/2010 (“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”) alla “data di entrata in vigore del decreto ministeriale” di regolamentazione dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo (previsto dall’art. 184 bis, comma 2, T.U. cit.).

Per un verso, è chiaro, dunque, che la l. n. 27 del 2012 di conversione del d.l. n. 1 del 2012, secondo il meccanismo della ‘delegificazione’, ha demandato la disciplina dell’uso delle terre e rocce, come sottoprodotti, alla fonte regolamentare, autorizzando specificamente il Governo ad adottare la norma secondaria e abrogando l’art. 186 cit..

Tuttavia, in fase di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. ‘Decreto del Fare’) è stata operata una rilevante modifica sul regime delle terre e rocce da scavo.

Infatti, la l. 9 agosto 2013 n. 98 (pubblicata in G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 – Suppl. Ordinario n. 63) ha introdotto un nuovo art. 41 bis nel contesto del d.l. n. 69/2013.

Ne è derivato che, quanto all’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012, risulta confermata l’interpretazione iniziale che vedeva la complessa disciplina dettata dal decreto limitata alla gestione dei materiali da scavo che derivano dalle “grandi opere”.

Infatti, in forza dell’art. 184 bis, comma 2 bis, d.lgs. n. 152 del 2006 – di cui all’art. 41, comma 2, d.l. n. 69/2013 - l’ambito di applicazione del Regolamento in esame è circoscritto esplicitamente solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale”.

 In considerazione di quanto esposto i giudici ritengono che i cantieri di piccole dimensioni sono sempre esclusi dall’applicazione del D.M.: “Per quanto appena rilevato, dunque, deve essere dichiarato improcedibile il terzo motivo di ricorso, con cui si censurava l’illegittimità dell’assimilazione, operata dal decreto per cui è causa, dei piccoli cantieri a quelli di medio-grande dimensione con riferimento alla gestione dei materiali da scavo”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR_Lazio_II-bis_6187-2014

I principi generali in materia di terre e rocce da scavo

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza n. 6187/2014, il T.A.R. Lazio enuclea i principi fondamentali e generali in materia di terre e rocce da scavo: “Il Legislatore (T.U. Ambiente – art. 2) ha inteso dichiarare esplicitamente l'obiettivo perseguito nella "promozione dei livelli di qualità della vita umana" da attuarsi attraverso "la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell'ambiente", attraverso la "conservazione, salvaguardia, miglioramento e utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, anche al fine di promuovere la qualità della vita umana e lo sviluppo sostenibile".

Con il d.lgs 16 gennaio 2008, n. 4, c.d. "secondo Correttivo", è stato modificato il titolo della Prima Parte del Codice, denominata ora non più solo "disposizioni comuni" ma anche "principi generali e sono stati introdotti alcuni articoli (da 3 bis a 3 sexies) al fine di rendere evidente la portata generale degli stessi a tutta la ‘materia’ della tutela dell'ambiente.

Con tali norme, peraltro, sono recepiti e rafforzati alcuni principi di derivazione comunitaria in materia di tutela dell'ambiente.

Per i profili di interesse, vale ricordare:

- i principi di "prevenzione" e di "precauzione" (art. 3 ter), in base ai quali occorre evitare di creare rischi per l'ambiente, e solo in subordine cercare di arginare quelli esistenti o quelli che si dovessero verificare;

- il principio "chi inquina paga" (art. 3 ter), che obbliga all'integrale ripristino dello "status quo ante" dell'ambiente;

- il principio dello "sviluppo sostenibile" (art. 3 quater), in base al quale la p.a. deve dare priorità alla tutela ambientale;

Ed ancora, specificamente, per gli aspetti che qui vengono in esame, va menzionato che anche la Parte IV del d.lgs. n. 152, relativa ai rifiuti, contiene alcuni principi, ed in particolare:

- i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti di cui all’art. 179, in forza dei quali la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto di una precisa gerarchia, in modo tale da favorire la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti e di incentivarne il riciclaggio e il recupero per ottenere prodotti, materie prime, combustibili o altre fonti di energia, correlatamente alla nuova regola del principio di prossimità e di autosufficienza, di cui agli artt. 182, comma 3 e 182 bis, d.lgs. n. 152 cit..

Ne consegue che le condizioni prescritte dal Regolamento, oltre che trovare la propria legittimazione nella fonte primaria, rispondono precipuamente alle indicazioni e ai principi dettati dal legislatore, come sopra descritti, nel prevedere che al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’, sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Terre da scavo sottoprodotto

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella medesima sentenza n. 6187/2014 i Giudici romani definiscono il concetto di sottoprodotto: “Prevede, infatti, l’art. 184 bis T.U. Ambiente (introdotto dall’art. 12, d.lgs. n. 205 del 2010) che: “1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

La stessa disposizione prescrive ai commi successivi che “possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti”, con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria.

Peraltro, come già sopra evidenziato, la portata della disciplina di cui al Regolamento in esame, risulta limitata dall’intervento operato dall'art. 41, comma 2, l. n. 98 del 2013 solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale”.

 dott. Matteo Acquasaliente

 

La definizione dei materiali da scavo

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza n. 6187/2014 il T.A.R. Lazio si sofferma anche sulla natura dei materiali da scavo chiarendo che: “Ai sensi dell’art. 2, il decreto ministeriale si applica alla gestione dei materiali da scavo. Ne risultano esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti che sono soggetti alle specifiche disposizioni in materia di gestione dei rifiuti.

Secondo la definizione di cui all’art. 1 del decreto, sono «materiali da scavo»:

il suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un'opera quali, a titolo esemplificativo: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, trincee, ecc.); perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento, ecc.; opere infrastrutturali in generale (galleria, diga, strada, ecc.); rimozione e livellamento di opere in terra; materiali litoidi in genere e comunque tutte le altre plausibili frazioni granulometriche provenienti da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici superficiali chedel reticolo idrico scolante, in zone golenali dei corsi d'acqua, spiagge, fondalilacustri e marini; i residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, ecc.) anche non connessi alla realizzazione di un'opera e non contenenti sostanze pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o poliacrilamide).

Per quanto qui interessa, deve precisarsi, peraltro, che il d.m. in esame non può che essere inteso coerentemente con i limiti di delega di cui all’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nella versione modificata in sede di conversione, che - come detto – prevede che esso “stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006” .

Peraltro, l’interpretazione sistematica della disciplina - dalla quale secondo i criteri ermeneutici non si può prescindere - richiede che la norma sia letta unitamente all’art. 185, d.lgs. n. 152 del 2006, che dispone da un lato l’esclusione della disciplina sui rifiuti sia con riferimento al “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato” (comma 1 lett. c) con conseguente inapplicabilità dell’art. 184 bis, che precede, al “suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati” (comma 4) che, però debbono “essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter”.

Ne deriva che il d.m. in esame trova applicazione unicamente al materiale da scavo utilizzato in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati (secondo la definizione di “sito di destinazione” come “diverso dal sito di produzione” di cui all’art. 2, comma 1, lett. n) del medesimo decreto) pur dopo l’eliminazione nella versione definitiva dell’espresso richiamo all’art. 185, comma 4 menzionato, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 5, comma 4, che però riguarda una fattispecie ben diversa, che non rientra nelle previsione di cui all’art. 185 comma 1 lett. c) del Codice, perche’ riferita a siti “in cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo le concentrazioni degli elementi e composti di cui alla Tabella 4.1 dell'allegato 4, superino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della Tabella 1 dell'allegato 5 alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”

 Quindi, i materiali di riporto che restano in sito sono esclusi dall’ambito di applicazione del DM 161/2012, che si applica unicamente al materiale da scavo utilizzato in siti diversi da quelli in cui è stato escavato: “Per le osservazioni sin qui svolte, deve essere dichiarato inammissibile (e non improcedibile) per difetto di interesse il nono motivo di ricorso, che si fonda sull’errata prospettazione di parte ricorrente, secondo la quale il Regolamento avrebbe inteso disciplinare i materiali da riporto che rimangono in sito. Dalla corretta interpretazione del decreto gravato – peraltro evidenziata dalle Amministrazioni - secondo la lettura coordinata con la legge delega e le norme contenute nel d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, non si configura un interesse della parte istante a gravare la disciplina regolamentare”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il materiale da riporto

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza del T.A.R. Lazio n. 618772014, il Collegio si sofferma anche sulla natura del materiale da riporto: “Per quanto attiene poi al tema del materiale da riporto (materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei), esso era stato già oggetto di diversi interventi legislativi. L'art. 3, d.l. n. 2 del 2012, convertito in l. n. 28 del 2012 aveva sostanzialmente equiparato i riporti al suolo e, quindi, ad una matrice ambientale vera e propria non costituente rifiuto. L'Allegato 9 al D.M. n. 161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente antropica presente non possa essere superiore al 20%. Tale previsione costituisce oggetto delle censure di cui ai motivi 10 e 11 del ricorso.

Il terreno di riporto oggetto di scavo, per quanto qui d’interesse, prima dell’ulteriore intervento del legislatore del 2013, poteva essere gestito come sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal D.M. n. 161 del 2012.

Il d.l. n. 69 del 2013, più volte menzionato, è tuttavia, intervenuto sul punto, modificando sostanzialmente l'art. 3 del D.L. n. 2 cit..

La nuova formulazione dell'art. 3 è la seguente:

"1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al "suolo" contenuti all'art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all'Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito e utilizzati per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.

2. Ai fini dell'applicazione dell'art. 185, comma 1, lett. b) e c), del D.Lgs. n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell'art. 9 del decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.

3. Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi al test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovono i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentono di utilizzare l'area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.

3 bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste".

Al di là, dunque, dei dubbi interpretativi sulla portata della nuova disciplina legislativa, in ordine alla normativa applicabile nel caso in cui il riporto non risulti conforme al test di cessione, appare con evidenza che il dettato regolamentare gravato, ne risulta profondamente inciso”.

In ragione di ciò, ai materiali di riporto non si applica il limite percentuale massimo del 20% di materiali di origine antropica, né l’elenco delle tipologie di materiali inerti di origine antropica, previste dall’Allegato 9 al D.M. 161/2012.

dott. Matteo Acquasaliente

I materiali di estrazione

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza n. 6187/2014 i Giudici si soffermano sulla distinzione tra i materiali residui della lavorazione e quelli residui dell’estrazione. In particolare i Giudici hanno stabilito che i residui della “lavorazione” dei materiali lapidei, inclusi nella nozione di materiale da scavo, costituiscono un materiale diverso dai residui dell’“estrazione”, disciplinati con il piano rifiuti di cui al D.lgs. 117/2008: “L’ordinamento distingue, infatti, tra rifiuti delle industrie estrattive, di cui al d.lgs. n. 117 del 2008 e ss.mm.ii. in forza del quale è prevista per la gestione l’elaborazione di un piano di rifiuti e residui di lavorazione di materiali lapidei, per i quali il piano di utilizzo è disciplinato dall’art. 184 bis del d.lgs. 152 del 2006, come modificato dall’art. 41, comma 2, d.l. n. 69 del 2013 e dall’art. 8 bis, d.l. n. 43 del 2013, convertito con la l. n. 71 del 2013, nonché dal d.m. n. 161 in argomento.

L’art. 41 bis d.l. 69 del 2013 (“Decreto del Fare”), introdotto dalla l. di conversione n. 98 del 2013, ha innovato, peraltro, con riferimento alla dimensione dei cantieri – come precedentemente evidenziato - la precedente normativa di settore disponendo i requisiti e le condizioni per operare con le terre e rocce da scavo provenienti da attività o opere non soggette a valutazione d’impatto ambientale (VIA) o ad autorizzazione integrata ambientale (AIA)

dott. Matteo Acquasaliente

Il principio della certezza

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Infine, nella sentenza n. 6187/2014 il T.A.R. Lazio si sofferma sul principio della certezza nel riutilizzo dei materiali chiarendo che: “Secondo quanto già menzionato, infatti, il principio della ‘certezza’ dell’utilizzo dei materiali costituisce una delle condizioni prescritte dall’art. 184 bis, T.U. Ambiente. La norma regolamentare ne fa, dunque, corretta applicazione.

Sul punto vale ricordare quanto affermato dalla Suprema Corte in materia (sentenza n. 37508 del 2003), secondo la quale alla necessità che il prodotto sia riutilizzato si affianca, in linea con la giurisprudenza comunitaria, l’occorrenza che tale riutilizzo deve essere certo e non solo possibile.

Ed, ancora, la Corte di Cassazione penale Sez. III, richiamando il dettato dell’art. 14 della L. n. 178/2002 e la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europea ‘ Palyn Granit Oy C- 114/01’, ha affermato che, affinché “i rifiuti delle attività di demolizioni edili che costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell’art. 7, comma 3, lett. b) del D. Lgs. 22/97, non vengano considerati rifiuti è necessario che vi sia certezza in ordine: a) alla individuazione del produttore e/o detentore dei beni e/o sostanze de quibus, b) alla provenienza degli stessi; c) alla sede ove sono destinati; d) al riutilizzo dei medesimi in ulteriore ciclo produttivo.

Tale principio risulta ribadito nella sentenza della Cassazione civile, Sez. I, 25 agosto 2006 n. 18556.

Più recentemente, peraltro, quanto alla qualificazione di ‘sottoprodotto’ la Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 17823 del 11 maggio 2012, ha escluso che i residui prodotti possano essere considerati sottoprodotti ove non ricorrono le condizioni stabilite nella definizione da rinvenirsi nell’art.184 bis del d.lgs. n. 152 cit..”.

 dott. Matteo Acquasaliente

Il Consiglio di Stato demolisce il TAR Veneto sugli oneri di sicurezza aziendale negli appalti di lavori

19 Giu 2014
19 Giugno 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 17 giugno 2014 n. 3056, riforma la sentenza del T.A.R. Veneto n. 299/2014 commentata nel post del 13 marzo 2014, affermando che, negli appalti di lavori, non vi è affatto l’obbligo di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale a pena di esclusione.

Il Collegio smentisce tutte le motivazioni contenute nella sentenza di primo grado affermando che: “Ecco la parte che interessa: “2. In primo luogo, contrariamente a quanto rilevato dal TAR, il combinato disposto degli artt. 86-comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, d.lgs. n. 81/2008 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l’obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale.

L’assunto si fonda su una non condivisibile esegesi della disposizione del codice dei contratti pubblici sopra citata, la quale recita testualmente: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.”.

Come correttamente evidenziato dal difensore della originaria controinteressata, ed a confutazione dei contrari rilievo della Mag Costruzioni, la norma si rivolge quindi, in primo luogo, agli enti aggiudicatori, imponendo loro, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte”, di effettuare uno specifico apprezzamento della congruità dei costi del lavoro e della sicurezza indicati dalle concorrenti nelle loro offerte.

Ciò del resto si evince dalla rubrica della disposizione: “criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse”.

E’ del pari incontestabile che la medesima norma prevede che il costo in questione “deve essere specificamente indicato”, ma va precisato che tale indicazione è funzionale alla predetta verifica di congruità e dunque all’attuazione del precetto cui soggiacciono le stazioni appaltanti.

L’art. 86 va poi coordinato con il successivo art. 87 (“criteri di verifica delle offerte anormalmente basse”), il quale prevede, al comma 4, che “Nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture.”. Il medesimo comma 4 dispone inoltre che “Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all’articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all’articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all’articolo 7, d.P.R. 3 luglio 2003, n. 222”.

Quindi, dal complesso delle disposizioni in esame si ricava che le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza ai fini del giudizio di anomalia dell’offerta e, in stretta conseguenza di ciò, che le imprese sono tenute ad indicare nella loro offerta detta voce di costo.

3. Del pari, come già affermato da questa Sezione (sentenza n. 4964 del 9 ottobre 2013), le medesime norme operano una distinzione tra appalti di lavori da una parte e appalti di servizi e forniture dall’altra.

Infatti, il ridetto art. 87, comma 4, specifica il più generale ed onnicomprensivo comma 3-bis dell’art. 86, imponendo alle imprese - partecipanti a procedure di affidamento della seconda tipologia di contratti - di indicare nell’offerta “i costi relativi alla sicurezza”.

Per la prima tipologia di giustificazioni, per contro, il precetto è significativamente diverso, giacché esso vieta giustificazioni (e dunque ribassi) rispetto agli “oneri relativi alla sicurezza” già stimati dalla stazione appaltante nel piano di sicurezza e coordinamento dalla stessa predisposto ai sensi del richiamato art. 131.

Per contro, in nessuna parte di queste tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale.

E soprattutto, in nessuna parte è prevista la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione degli stessi: certamente non per gli appalti di lavori, per i quali vi è una rigorosa analisi dei costi in questione da parte della stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione di cui al d.p.r. n. 207/2010, come sottolinea l’appellante a pag. 9 dell’atto d’appello (e non rileva in questa sede verificare quale sia la soluzione nel caso di appalto di servizi e forniture).

All’interpretazione letterale finora svolta se ne salda una di carattere teleologico, la quale muove dalla circostanza che, come ampiamente visto finora, le disposizioni in esame regolano la verifica dell’anomalia dell’offerta.

Ne consegue che è in questa sede che l’obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l’impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta.

3.1 Una diversa conclusione rispetto a quanto finora esposto non può essere ricavata nemmeno dall’art. 26, comma 6, d.lgs. n. 81/2008.

Quest’ultima disposizione è così formulata: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.

Vi è certamente un’unificazione di disciplina per tutti gli appalti pubblici, ma il precetto in esso contenuto è rivolto ancora una volta agli “enti aggiudicatori”, ed è del pari indubbio che questa norma vada coordinata con gli artt. 86 e 87, le quali contengono disposizioni di maggiore dettaglio. Peraltro, ed a conferma di quanto ora detto, anche la norma in esame fa riferimento alla verifica dell’anomalia.

4. Non è condivisibile nemmeno il secondo passaggio argomentativo della sentenza di primo grado.

E’ certamente indiscutibile che tutte le norme di legge finora analizzate perseguono l’obiettivo di assicurare la tutela dei lavoratori e che tale fine trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro.

Ma questo fine si può ampiamente realizzare attraverso l’obbligo per le stazioni appaltanti di effettuare una specifica valutazione della congruità del costo per la sicurezza, nella appropriata sede della verifica dell’anomalia dell’offerta.

4.1 Per contro, si rileva ingiustificatamente penalizzante per le imprese, e dunque per le esigenze della concorrenza che pure la legislazione sui contratti pubblici persegue, quello di sanzionare con l’esclusione dalla gara la mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale.

E’ infatti palese la sproporzione tra obiettivi perseguiti e risultati realizzati, giacché - al fine di tutelare la sicurezza ed i connessi diritti dei lavoratori - si preclude all’impresa di concorrere per l’affidamento di contratti pubblici per il solo fatto di non avere esposto nell’offerta i relativi costi per la sicurezza aziendale, quand’anche gli stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale verifica.

5. Ne consegue che perde rilievo la ipotizzata valenza eterointegratrice delle ridette disposizioni di legge nei confronti della normativa di gara, laddove cioè la prima sia interpretata nel senso finora esposto.

Peraltro, del potere di eterointegrazione deve essere fatto un uso accorto.

Come infatti di recente sottolineato dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato, l’inserzione automatica di clausole prevista dall’art. 1339 cod. civ., in cui si sostanzia il meccanismo in questione, in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti (sentenza, 2 settembre 2013, n. 4364).

Alla luce di questa considerazione, rispondente ad incontestati principi di teoria generale di diritto, è assai dubbia la operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta.

In un’altra recente decisione, la III Sezione ha anche affermato che l’eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non già nei casi in cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi (sentenza 18 ottobre 2013, n. 5069). In questa pronuncia la III Sezione è quindi giunta alla conclusione, opposta a quella cui è pervenuto il TAR nella sentenza qui appellata, secondo cui è legittima la clausola del bando di gara che semplifichi le modalità di manifestazione dell’offerta economica relativamente agli oneri di sicurezza, in difformità agli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006.

6. Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto un uso accorto si trae conferma anche dal consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui la legge di gara deve essere interpretata secondo le regole dettate dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., alla stregua dei quali si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza ex art. 1 l. n. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona fede interpretativa di cui all’art. 1366 cod. civ. (C.d.S., Sez. III, 2 settembre 4364; Sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615, 5 settembre 2011, n. 4980).

In particolare non sono consentite interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado quindi di ledere l’affidamento dei terzi e la massima partecipazione alla gara (C.d.S., Sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72, 16 gennaio 2013, n. 238, 7 gennaio 2013, n. 7, 31 ottobre 2012, n. 5570).

In questa linea si colloca quindi la regola secondo cui la buona fede e l’affidamento - che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici circa la necessità di rispettare le clausole della normativa di gara - non devono risolversi in loro danno, attraverso l’esclusione dalla gara (Sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155).

6.1 Tale indirizzo è pertinente al caso di specie, in cui la stazione appaltante non aveva preteso la specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in sede di offerta, ed è confermato dal fatto che, tranne la ricorrente di primo grado, tutte le imprese concorrenti alla procedura in contestazione non hanno indicato nella propria offerta i costi aziendali per la sicurezza.

7. Alla luce di quanto finora osservato, perde di rilievo l’ultimo argomento addotto dal TAR a sostegno della propria decisione, e cioè che il piano di sicurezza e coordinamento predisposto dalla stazione appaltante ex art. 131 d.lgs. n. 163/2006 concerne i soli oneri da interferenza e non già i costi aziendali.

Questa corretta asserzione non è infatti idonea a superare i rilievi sopra svolti. Giova infatti ribadire che è nella pertinente sede del sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta che la seconda tipologia di oneri possono essere apprezzati dalla stazione appaltante, senza tuttavia che questo doveroso accertamento debba necessariamente presupporre l’indicazione di tale voce di costo già nell’offerta.

7.1 L’assunto, peraltro, non trova rispondenza nel dato normativo, come ben evidenziato dal difensore della Atheste Costruzioni nella discussione.

A differenza dei servizi e delle forniture, gli appalti di lavori importano la necessità di istituire “cantieri temporanei o mobili” ai sensi del titolo IV del testo unico di cui al d.lgs. n. 81/2008 (in precedenza d.lgs. n. 494/1996), concetto sulla cui base la disciplina giuslavoristica concernente la sicurezza sul lavoro si è sviluppata, attraverso numerosi istituti, tra cui il piano di sicurezza e coordinamento previsto dagli artt. 100 del citato testo unico sulla sicurezza sul lavoro e 131 cod. contratti pubblici.

E’ dunque in conseguenza dei rischi per la sicurezza derivanti dalla installazione e gestione del cantiere nel quale i lavori sono destinati ad essere svolti che sorge la necessità, in primo luogo, che la stazione appaltante provveda alla stima dei costi delle misure necessarie alla loro prevenzione di tali rischi, e, in seconda battuta, che l’impresa esecutrice dei lavori impieghi all’uopo i mezzi e le risorse previste a questo scopo.

A comprova di ciò va rilevato che l’art. 39 d.p.r. n. 207/2010 demanda al piano di sicurezza e coordinamento (con i documenti ad esso allegati), come integrato dalle indicazioni dell’aggiudicataria ex art. 131, comma 4, cod. contratti pubblici, l’intera problematica degli oneri per la sicurezza.

La citata disposizione prevede infatti che il piano in questione “deve prevedere l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi in riferimento all’area e all’organizzazione dello specifico cantiere, alle lavorazioni interferenti ed ai rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici propri dell’attività delle singole imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi” (comma 2).

Questa disposizione, oltre a spiegare la diversa disciplina contenuta nel sopra esaminato art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, rende evidente che per i lavori pubblici ogni questione inerente la congruità degli oneri per la sicurezza non costituisce requisito di validità delle offerte la cui mancanza ne determina l’esclusione”.

Che sia questa la fine della vexata questio?

Dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3056 del 2014

La sanzione di cui all’art. 15 della L. n. 1497/1939 (ora 167 del d.lgs. n. 42 del 2004) prescinde dall’esistenza di un vero e proprio danno ambientale

19 Giu 2014
19 Giugno 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n.   709 del 2014.

Si legge nella sentenza: "2.2 Costituisce orientamento consolidato che l’applicazione della sanzione di cui all’art. 15 della L. n. 1497/1939 prescinde dall’esistenza di un vero e proprio danno ambientale e, ciò, in considerazione della sua natura di “sanzione amministrativa” e non risarcitoria (sul punto si veda Cons. Giust. Amm. Sic., 26-08-2013, n. 718).

2.3 Si è, infatti, affermato (T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 08-07-2013, n. 6710) che “l'art. 15, l. n. 1497 del 1939 (divenuto poi l'art. 164 del d.lgs. n. 490 del 1999, ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 - Codice dei beni culturali) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) e che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale".

2.4 E’ allora evidente che l’inesistenza di un pregiudizio per l’ambiente, disposta con il decreto del 21 Settembre 1993, ha l’effetto di escludere l’applicabilità della sola sanzione della demolizione, risultando al contrario atto dovuto il provvedimento di erogazione della sanzione sopra precisata.

2.5 Non va, in ultimo, condivisa nemmeno l’argomentazione diretta a distinguere le opere soggette a condono edilizio dalle ulteriori opere oggetto di richiesta di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della L. n. 47/1985, distinzione che in base all’interpretazione di parte ricorrente  consentirebbe di circoscrivere l’applicabilità delle sanzioni paesaggistiche solo alle ipotesi suscettibili di essere condonate.

2.6 La semplice lettura del disposto di cui all’art. 15 sopra citato consente di smentire le tesi di parte ricorrente e, nel contempo, di
evincere il carattere autonomo dello stesso art. 15 rispetto ai procedimenti di autorizzazione in sanatoria delle opere edilizie.
L’esistenza di detto carattere autonomo comporta che l’erogazione della sanzione in questione non può risultare in qualche modo condizionata dal venire in essere di un precedente provvedimento di sanatoria.

2.7 La necessità di ottemperare ad una preminente tutela del paesaggio implica che anche l’emanazione di un’autorizzazione ambientale postuma, presupposto per il perfezionamento della sanatoria edilizia di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, non faccia venir meno il potere dell’Amministrazione competente di sanzionare condotte nell’ambito delle quali si erano realizzati manufatti in mancanza delle necessarie autorizzazioni.

2.8 Sul punto va, al contrario, ritenuto applicabile un altrettanto costante orientamento giurisprudenziale nella parte in cui ha previsto che (Cons. Stato Sez. IV, 26-11-2013, n. 5615) “in presenza di abusi edilizi l'oblazione di cui agli artt. 31 ss., l. 28 febbraio 1985 n. 47, e l'indennità prevista dall'art. 15, l. 29 giugno 1939 n. 1497, trovano disciplina in normative differenti che delineano procedimenti autonomi nei quali intervengono differenti autorità titolari di interessi finalizzati alla tutela dell'ambiente.  (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. VII, n. 1881/2008)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 709 del 2014

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